RIME E PROSA DI MESSER LUIGI DA PORTO. DEDICATE AL REVERENDISSIMO CARDINAL BEMBO.
MDXXXIX.
CON PRIVILEGIO.
RIME E PROSA DI MESSER LUIGI DA PORTO: il quale essendo bellissimo e animosissimo giovane per lo suo valore conddottier de’ Signori Veneziani, combattendo per loro nel Frigoli co’ nimici Tedeschi, fu ferito di maniera che ne rimase prima perduto della persona per un tempo e poi zoppo e debole mentre e visse. Per la qual cagione si rivolse dalle arme alle lettere e alla volgar poesia: onde ne nacquero questi frutti, che Messer Bernardin Da Porto, suo fratello, appresso la morte di lui raccolti.
Visse Messer Luigi anni quarantatre, e mesi nove: e morì in Vicenza sua patria il dì decimo di Maggio MDXXIX.
LA GIULIETTA DI MESSER LUIGI DA PORTO A MADONNA LUCINA SAVORGNANA, LUIGI DA PORTO
Poscia che io già sono assai giorni passati con voi parlando dissi, di volere una compassionevole novella da me già udita, e in Verona intervenuta scrivere, m’è paruto esser mio debito in queste poche carte di stenderlavi. Sì perché le mie parole appo voi non paressero vane, sì anco perché a me, che misero sono, ragionar de’ casi de’ miseri amanti, di che ella è piena, s’appertiene, e appresso al vostro valore indrizzarla, accioché possiate leggendola chiaramente vedere a quai rischi, a quai trabocchevoli passi, a quai crudelissime morti, i miseri e cattivelli amanti sieno il più delle volte d’amore condotti. E anco volentieri a voi la mando, acciò che dovendo per aventura ella essere l’ultimo mio lavorio in questa arte, in voi lo scrivere mio finisca, e come sete porto d’ogni valore, e d’ogni virtù, così della picciola barchetta del mio ingegno ancor siate, la quale carca di molti e varii disiri d’amore, sospinta per gli men profondi pelaghi de la poesia ha molto fino a qui solcato; e acciò che ella a voi giungendo possa ad altri, che più felicemente e con meglior stella nel già detto mare navighi, e timone e remi e vela donando, disarmata sicuramente alle vostre rive legarsi. Prendetela adunque madonna ne l’abito a lei conveneuole, nel quale ella è, e leggetela volentieri, sì per lo suggetto, che pieno di pietate mi par che sia, come anco per lo stretto vincolo di parentado e di dolce amistà; che tra la leggiadra persona vostra e chi la scrive si ritrova. Dico adunque, che sì come voi stessa vedeste, mentre il Cielo contra me in tutto ogni suo sdegno rivolto non ebbe, nel principio della mia giovanezza all’arte dell’arme mi diedi, e in quella molti grandi e valorosi uomini seguitando, nella dilettevole vostra patria del Frigoli alcun tempo mi essercitai, per la quale quando publicamente, e quando privatamente or qua or là m’era bisogno d’andare, aveva io per continuo uso cavalcando di menar sempre meco tra gli altri un mio arciere veronese, uomo di forse cinquant’anni, pratico nel mestiere, e piacevolissimo, e (come quasi tutti i Veronesi sono) bellissimo favellatore, chiamato Pellegrino. Questi, oltre che animoso, e esperto soldato fosse, leggiadro era, e forse più di quello che agli anni suoi si sarebbe convenuto, innamorato sempre; il che al suo valore doppio valore aggiugnea. Onde egli le più belle novelle, e con migliore ordine e grazia si dilettava di raccontare, e massimamente quelle, che d’amore trattavano, che alcuno altro, che io udissi giamai. Per la qual cosa partendo io da Gradisca, ove in alloggiamento mi stava, e con costui e due altri miei, forse d’amore sospinto, verso Udine venendone, la qual strada molto solinga in quel tempo e tutta per la guerra arsa e distrutta era, e molto dal pensiero soprapreso e lontano da gli altri venendomi, accostatomisi il detto Pellegrino, come colui che i miei pensieri s’indovinava, così mi disse: “Volete voi sempre in trista vita vivere, perché una bella crudele altrimenti mostrando poco v’ami? E benché io contro me spesso dica, pur perché meglio si danno, che non si ritengono i buon consigli, vi dirò patron mio, che oltre che a voi nell’essercizio che sète, lo entrar molto nella prigion d’amore si disdica. Sì tristi son quasi tutti e fini, a quali egli ci conduce, che è un pericolo il seguitarlo, e in testimonianza di ciò, quando a voi piacesse, potre’ io una novella nella mia città avenuta, che la via men soletaria e men rincrescevole ci farebbe, raccontarvi, nella quale sentireste come due nobili amanti d’amore a misera e piatosa morte guidati fossero”. E già avendo io fatto segno di doverlo udire volentieri, egli così incominciò.
NOVELLA.
Nel tempo che Bartolomeo dalla Scala Signore cortese e umanissimo il freno alla mia bella patria, e stringeva e rallentava, furono in lei (secondo che il mio padre diceva aver udito) due nobilissime famiglie, per contraria fazione, over per particolare odio tra sé, nimiche, l’una i Montecchi, e l’altra i Cappelletti nomata. Dell’una delle quali si crede certo essere questi, che ora in Udine dimorano, cioè Messer Nicolò, e Messer Giovanni ora detti Monticoli, di Verona per strano caso quivi venuti ad abitare, benché poco altro di quello de gli antichi seco abbiano in questo luogo recato, fuor che la lor cortese gentilezza, e avegna che io alcune vecchie cose leggendo abbia trovato, come queste due famiglie unite cacciarono Azzo da Esti governator della detta terra, che col favor de san Bonifaci poscia vi ritornò, nondimeno, sì come io le udii, senza altramente mutarla a voi la sporrò. Furono adunque come io dico in Verona sotto il già detto Signore le sopradette famiglie, di valorosi uomini e di ricchezza ugualmente dal Cielo e dalla fortuna dotate. Tra le quali, come il più delle volte tra le gran case si vede avenire, checché la cagione se ne fosse, crudelissima nimistà regnava. Per la quale già più uomini erano così dell’una come dell’altra morti, in guisa che tra per istanchezza e per le minaccie del Signore, che con dispiacere grandissimo le vedeva nimiche, di farsi più male ritratte s’erano, e senza altra pace col tempo in modo domesticate, che gran parte de loro uomini insieme parlavano. Essendo così costoro quasi rappacificati, avenne un Carnasciale che in casa di Messere Antonio Cappelletti uomo festoso e piacevolissimo, il quale il primo della famiglia era, molte feste si fecero e di giorno e di notte, ove quasi tutta la città concorreva. Ad una delle quali una notte, come è degli amanti costume, che le lor donne, sì come col cuore così anco col corpo (pur che possano), ovunque vanno seguono, un giovane de Montecchi una sua crudel donna seguendo si condusse. Era costui giovane molto, e bellissimo e grande della persona, leggiadro e accostumato assai, perché, trattasi la maschera, come ogni altro faceva, e in abito di donna trovandosi, non fu quivi occhio, che a rimirarlo non si rivolgesse, sì per la sua bellezza, che quella di qualunque bella donna, che quivi fosse, aguagliava, e sì per maraviglia, che in quella casa (massimamente la notte) venuto fosse. Ma con più efficacia che ad alcuno altro, ad una figliuola del detto Messere Antonio venne veduto, che egli sola aveva, e la quale bellissima e baldanzosa e leggiadrissima era. Costei veduto il giovane con tanta forza nell’animo la sua bellezza ricevette che al primo incontro de loro occhi di più non esser di sé medesima le parve. Stavasi costui in riposta parte della festa con poca baldanza tutto solo, e rade volte in ballo, o in parlamento alcuno si trametteva, come quegli, che d’amore guidatovi con molto sospetto vi stava, il che alla giovane forte doleva: percioché piacevolissimo udiva che egli era, e grazioso. e passando la mezzanotte, e il fine del festeggiare venendo, il ballo del torchio, o del cappello, come dire il vogliamo, e che tutto di nella fine delle feste veggiamo usare, s’incominciò. Nel quale in cerchio standosi l’uomo la donna, e la donna l’uomo, a sua voglia permutando si piglia. In questa danza d’alcuna donna fu il giovane levato, il quale dapoi a caso presso la già innamorata fanciulla s’andò a porre. Era dall’altro canto di lei un nobil giovane Marcuccio guercio nominato, il quale per natura così il luglio, come il genaio, le mani sempre fredissime aveva, perché giunto Romeo Montecchi (che così era il giovane nomato) al manco lato della donna, e come in tal ballo s’usa di fare la bella sua mano in man presa, disse a lui quasi di subito la giovane, forse vaga di udirlo favellare: “Sia benedetta la vostra venuta qui presso me, Messer Romeo”; alla quale il giovane, che già del suo mirare accorto s’era, maravigliato del parlar di lei disse: “Come madonna benedetta la mia venuta?” e ella rispose: “Sì, benedetto il vostro venire qui appo me, percioché voi almen questa sinistra mano calda mi terrete, là dove Marcuccio la destra m’agghiaccia”. Costui preso alquanto d’ardire seguì: “Se io a voi con la mia mano la vostra riscaldo; voi co be’ vostri occhi il mio cuore accendete”. La donna dopo un brieve sorriso schifando d’esser con lui veduta, o udita ragionare ancor gli disse: “Io vi giuro la mia fede Romeo, che non è qui donna, la quale a gli occhi mei bella paia, quanto voi”, il giovane già tutto di lei acceso rispose: “Quale io mi sia sarò alla vostra bellezza se a quella non spiacerà, sempre fedel servo”. Lasciato poco appresso il festeggiare, e tornato Romeo alla sua casa, considerata la crudeltà della primiera sua donna, che di molto languire poca mercede gli donava, deliberò quando a costei ciò fosse in grado, quantunque de suoi nimici discesa, tutto donarsi. Dall’altro canto poco ad altro che a lui sempre pensando la giovane, dopo molti sospiri tra sé istimò lei dover sempre felice essere se costui per isposo aver potesse. Ma per la nimistà, che tra l’una e l’altra casa era, con molta paura poca speme di giungere a sì lieto grado teneva, onde fra due pensieri di continuo vivendo a sé stessa più volte disse: “O sciocca me a qual vaghezza mi lascio io in così strano labirinto guidare, ove senza scorta restando, uscire a mia posta non ne potrò? Già che Romeo Montecchi non m’ama, percioché per la nimistà che ha co’ miei, altro che la mia uergogna non può cercare, e posto che per isposa egli me volesse, il padre mio di darglimi non consentirà già mai.” Dapoi nell’altro pensiero venendo diceva: “Chi sa? Forse che per meglio rappacificarsi insieme queste due case che già stanche e sazie sono di farsi tra lor più guerra, mi potrebbe ancora venir fatto d’averlo in quella guisa, che io lo disidero”. E in questo fermatasi cominciò essergli d’alcun guardo cortese. Accesi dunque i due amanti di ugual fuoco, l’un dell’altro il bel nome e la effigie nel petto scolpita portando dier principio, quando in chiesa, quando a qualche finestra, a vagheggiarsi intanto, che mai bene ne l’uno ne l’altro haveva, se non quanto si vedevano. Ed egli massimamente, sì de’ vaghi costumi di lei acceso si ritrovava, che quasi tutta la notte con grandissimo pericolo della sua vita, se stato vi fosse trovato, dinanzi alla casa dell’amata donna solo si stava, e ora sopra la finestra della sua camera per forza tiratosi, ivi senza che ella o altri il sapesse, ad udirla parlare si sedeva, e ora sopra la strada giaceva. Avenne una notte, come Amor volle, la luna più del solito rilucendo, che mentre Romeo era per salire sopra il detto balcone, la giovane (o che ciò a caso fosse, o che l’altre sere sentito l’avesse) ad aprire quella fenestra venne, e fattasi fuori il vide, il quale credendo, che non ella, ma qualche altro il balcone aprisse, nell’ombra d’alcun muro fuggir voleva. Onde ella conosciutolo, e per nome chiamatolo gli disse: “Che fate qui a questa otta così solo?” Ed egli già racconosciuta avendola rispose: “Quello che amor vuole.” “E se voi ci foste colto”, disse la donna, “non potreste voi morirci di leggiero?” “Madonna” rispose Romeo “sì ben che io vi potrei agevolmente morire, e ci morrò di certo una notte, se voi non m’aitate. Ma percioché io sono ancora in ogni altro luogo così presso alla morte, come qui, procaccio di morir più vicino alla persona vostra, che io possa, con la qual di viver sempre bramerei, quando al Cielo e a voi piacesse”. Alle quai parole la giovane rispose: “Da me non rimarrà mai, che voi meco onestamente non viviate, non restasse egli più da voi, o dalla nimistà che tra la vostra e la mia casa veggo”. A cui il giovane disse: “Voi potete credere, che più non si possa bramar cosa di quello, che io voi di continuo bramo, e perciò quando a voi sola piaccia di essere così mia, come io d’esser vostro disidero, io il farò volentieri, né temo che alcun mi vi tolga già mai”. E detto questo, messo ordine di parlarsi un’altra notte con più riposo, ciascun del luogo ove era si dipartì. Dapoi andato il giovane più volte per parlarle, una sera che molta neve cadeva, all’usato luogo la ritrovò, e dissele: “Deh perché mi fate languire? non vi stringe pietà di me, che tutte notti in così fatti tempi sopra questa strada v’aspetto?” Al quale la donna disse: “Certo sì, che voi mi fate pietà, ma che vorreste che io facessi se non pregarvi che ve ne andaste?” Alla qual fu dal giovane risposto: “Che voi mi lasciaste nella camera vostra entrare; ove potremmo più agiatamente parlare insieme”. Allora la bella donna quasi sdegnando disse: “Romeo io tanto v’amo, quanto si possa persona lecitamente amare; e più vi concedo, di quel che alla mia onestà non si converrebbe, e questo fo io d’amore col valor vostro vinta. Ma se voi pensaste o per lungo vagheggiarmi, o per altro modo, più oltre come innamorato, dell’amor mio godere, questo pensiero in tutto lasciate da parte, che alla fine in tutto vano il trovarete. e per non tenervi più ne pericoli, ne’ quali veggo essere la vita vostra venendo ogni notte per queste contrade, vi dico che quando a voi piaccia d’accettarmi per vostra donna che io son presta a darmivi tutta; e con voi in ogni luogo, che vi sia in piacere, senza alcun rispetto venire”. “Questo solo bramo io”, disse il giovane: “facciasi ora”. “Facciasi” rispose la donna: “ma rifacciamolo poscia nella presenza di frate Lorenzo da San Francesco mio confessore, se volete che io in tutto e contenta mi vi dia”. “O”, disse a lei Romeo, “dunque frate Lorenzo da Reggio è quel, che ogni secreto del cuore vostro sa?” “Sì”, disse ella, “e serbisi per mia sodisfazione a fare ogni nostra cosa dinanzi a lui”. E quivi, posto discreto modo alle lor cose, l’un dall’altro si dipartì. Era questo frate dell’ordine minore filosofo grande e scienziato di molte cose, così naturali come magiche, e in tanta amistà con Romeo era che la più stretta forse in que’ tempi tra due non si sarebbe ritrovata. Percioché volendo il frate ad un tratto e in buona openione del sciocco volgo essere, e di qualche suo diletto fruire, gli era convenuto per forza d’alcun gentile uomo della città fidarsi; tra quali egli questo Romeo giovane temuto, animoso e prudente aveva eletto. E a lui il suo cuore, che a tutti gli altri fingendo teneva celato, nudo scoperto aveva. Perché trovatolo, Romeo liberamente gli disse come egli desiderava d’avere l’amata giovane per donna; e che insieme avevano constituito lui solo dovere essere secreto testimonio delle lor nozze, e poscia mezzano a dover fare, che ’l padre di lei a questo d’accordo consentisse. Il frate di ciò contento fu, sì perché a Romeo niuna cosa arebbe senza suo gran danno potuta negare, sì anco perché pensava che forse per mezzo suo sarebbe questa cosa a bene succeduta, il che a lui di molto onore arebbe dato appo il Signore e ogni altro che avesse disiderato queste due case vedere in pace. Ed essendo la quaresima la giovane un giorno, fingendo di volersi confessare, al monisterio di San Francesco andata, e in un di que’ confessori, che tali frati e massimamente gli osservanti ancora usano, entrata, fece frate Lorenzo dimandare. Il quale, ivi sentendola, per di dentro al convento insieme con Romeo nel medesimo confessoro entrato, e serrato l’uscio, una lama di ferro tutta forata, che tra la giovane ed essi era, levata via, disse a lei: “Io vi soglio sempre veder volentieri figliuola, ma or più che mai qui cara mi sète: se così è, che il mio Messer Romeo per vostro marito vogliate”. Al quale ella rispose: “Niuna altra cosa più disidero, che d’esser legitimamente sua, e perciò sono io qui dinanzi al conspetto vostro venuta, del qual molto mi fido, accioché voi insieme con Iddio a quello, che d’amore astretta vengo a fare, testimonio siate”. Allora in presenza del frate, che ’l tutto in confessione diceva accettare, per parola di presente Romeo la bella giovane sposò, e dato tra loro ordine d’esser la sequente notte insieme, basciatisi una sola volta, dal frate si dipartirono, il qual rimessa nel muro la sua rete, ad altre donne confessare si rimase. Divenuti i due amanti nella guisa, che udito avete, secretamente marito e moglie, più notti del loro amore felicemente goderono, aspettando col tempo di trovar modo, per lo quale il padre della donna, che a lor disiderii contrario essere sapevano, si potesse placare. E così stando intervenne che la fortuna, d’ogni mondano diletto nimica, non so qual malvagio seme spargendo, fece tra le lor case la già quasi morta nimistà rinverdire in modo che più giorni le cose sotto sopra andando né Montecchi a Cappelletti, né Cappelletti a Montecchi ceder uolendo, nella via del corso s’attaccarono, una volta insieme. Ove combattendo Romeo, e alla sua donna rispetto avendo, di percuotere alcun della sua casa si guardava; pure alla fine essendo molti de suoi feriti, e quasi tutti della strada cacciati, vinto dall’ira sopra Tebaldo Cappelletti corso, che il più fiero de suoi nemici pareva, d’un sol colpo morto il distese, e gli altri, che già per la morte di costui erano come smarriti, in grandissima fuga rivolse. Era già stato Romeo veduto ferire Tebaldo in modo che l’omicidio celare non si poteva, onde data la querela dinanzi al Signore, ciascun de Cappelletti solamente sopra Romeo gridava. Perché dalla Giustizia, di Verona in perpetuo bandito fu. Or di qual core queste cose udendo la misera giovane divenisse, ciascuna, che bene ami, nel suo caso col pensier ponendosi il può di leggieri considerare. Ella di continuo si forte piagnea, che niun la poteva racconsolare, e tanto era più acerbo il suo dolore, quanto meno con persona alcuna il suo male scoprire ardiva. Dall’altra parte al giovane solo per rispetto della donna il partirsi della sua patria gravava, né volendosene per cosa alcuna partire senza torre da lei commiato, e in casa sua andare non potendo, al frate ricorse, al quale che ella venir dovesse, per un servo del suo padre molto amico di Romeo fu fatto sapere: ed ella vi si condusse. E andati amendue nel confessoro assai la lor sciagura insieme piansero, pure alla fine disse ella a lui: “Che farò io senza di voi? Di più poter vivere non mi dà il cuore. Meglio sarebbe che io con voi ovunque ve ne andaste, mi venissi. Io mi accorcierò queste chiome, e come servo vi verrò dietro, né da altro meglio o più fedelmente, che da me, potrete esser servito”. “Non piaccia a Dio anima mia cara, che quando meco venir doveste, in altra guisa che in luogo di mia Donna vi menassi”, disse a lei Romeo. “Ma percioché io son certo che le cose non possano lungamente in questo modo stare, anzi che la pace tra nostri abbia a seguire, onde ancora io la grazia del Signore di leggieri impetrarei, intendo che voi senza me per alcun giorno vi restiate, e posto che le cose secondo che io diviso non succedessero, altro partito al viver nostro si prenderà”. E questo deliberato tra loro, abbracciatisi, e basciatisi mille volte, la donna ciascun di lor piagnendo si dipartì, pregandolo assai, che più vicino, che egli potesse, le volesse stare, e non a Roma o a Firenze, come detto aveva, andarsene. Ivi a pochi giorni Romeo, che nel monistero di frate Lorenzo era fino allora stato nascosto, si dipartì, e a Mantova come morto si ridusse, avendo primieramente detto al servo de la donna, che ciò che di lui intorno al fatto di lei in casa sua udisse, al frate facesse di subito intendere, e ogni cosa operasse di quel che la giovane gli comandasse con vera fede, se il rimanente del guiderdone promessogli disiderava d’avere. Partito di molti giorni Romeo, e la giovane sempre lagrimosa mostrandosi, il che la sua gran bellezza faceva mancare, le fu più fiate dalla madre, che teneramente l’amava, con lusinghevol parole addimandato, qual fosse di questo suo pianto la cagione, dicendole: “O figliuola mia da me al pari della mia vita amata, qual doglia da poco in qua ti tormenta? Onde è, che tu in brieve spazio senza pianto non istai; che sempre si lieta esser solevi? Se forse alcuna cosa brami, falla a me sola palese: che di tutto, purché lecito sia, ti farò consolata”. Nondimeno sempre deboli ragioni di tal pianto dalla giovane rendute le furono. Onde, pensando la madre, che in lei vivesse disio d’aver marito, il quale per vergogna, o per tema, tenuto celato, il suo pianto generasse, un giorno credendo la salute della figliuola cercare, e la morte procacciandole, col marito disse: “Messere Antonio io veggo già molti giorni questa nostra fanciulla sempre piagnere in modo che ella (come voi potete vedere) quella, che esser soleva, più non pare, e avenga che io molto l’abbia della cagion del suo pianto essaminata, onde egli venga, da lei perciò ritrarre non posso, né da che proceda, sapere io da me stessa dire, se forse per voglia di maritarsi, la qual, come saggia fanciulla, non osasse far palese, ciò non avenisse. Onde, prima che ella più si consumasse, direi che fosse buono darle marito, che ogni modo ella diciotto anni, questa santa Eufemia fornì, e le donne, come questi anni di molto trappassano, perdono più tosto che no, della loro bellezza. Oltra che elle non sono mercatanzia da tener molto in casa, quantunque io la nostra in veruno atto veramente non conoscessi mai altro, che onestissima. La dote so io che avete già più di apparecchiata, veggiamo dunque di darle condecevole marito”. Messer Antonio rispose, che sarìa ben fatto il maritarla. E commendò molto la figliuola, che avendo questo disio, volesse prima fra sé stessa affligersene, che a lui, o alla madre richiesta farne, e fra pochi dì cominciò con un de conti da Lodrone trattar le nozze, e già quasi per conchiuderle essendo, la madre credendo alla figliuola grandissimo piacer fare le disse: “Rallegrati oggimai figliuola mia, che non guari di tempo passerà, che tu sarai ad un gentiluomo degnamente maritata, e cesserà la cagion del tuo pianto, la quale avenga che tu non m’abbia voluto dire; pur per grazia di Dio l’ho compresa, e così col tuo padre ho io operato, che sarai contenta”. Alle quai parole la bella giovane non potè ritenere il pianto, onde la madre a lei disse: “Credi che io ti dica bugia? Non passaranno otto giorni, che tu serai d’un bel donzello della casa di Lodrone moglie”. La giovane a questo parlare più forte raddoppiava il pianto, perché la madre lusingandola disse: “Dunque figliuola mia non sarai contenta?” Alla quale ella rispose: “Mai no madre, che io non ne sarò contenta”. A questo soggiunse la madre: “Che vorresti dunque? Dillo a me, che ad ogni cosa per te disposta sono”. Disse allor la giovane: “Morir vorrei, e non altro”. In questo dire Madonna Giovanna (che così era la madre nomata) la qual savia donna era, comprese la figliuola d’amore essere accesa, e rispostole non so che da lei si separò. E la sera venuto il marito, gli narrò ciò che la figliuola piangendo risposto l’aveva, il che molto gli spiacque, e pensò che fosse ben fatto, prima che più innanzi le nozze di lei si trattassero, accioché in qualche vergogna non si cadesse, d’intender d’intorno a questo qual fosse la openione sua, e fattalasi un giorno venire innanzi le disse: “Giulietta” (che così era della giovane il nome) “io son per nobilmente maritarti, non ne sarai contenta figliuola?” Al quale la giovane alquanto dopo il dir di lui taciutasi rispose: “Padre mio no, che io non ne sarò contenta”. “Come, vuoi dunque monaca farti?” Disse il padre. Ed ella: “Messer non so”; e con le parole le lagrime ad un tempo mandò fuori. Alla quale il padre disse: “Questo so io che non vuoi, donati dunque pace, che io intendo d’averti in un de conti da Lodrone maritata”. Al qual la giovane forte piangendo rispose: “Questo non fie mai”. Allora Messer Antonio molto turbato sopra la persona assai la minacciò, se al suo volere ardisse mai più di contradire e oltra questo se la cagion del suo pianto non faceva manifesta. E non potendo da lei altro che lagrime ritrarre, oltra modo scontento con Madonna Giovanna la lasciò, né dove la figliuola l’animo avesse, accorger si poté. Aveva la giovane al servo, che col suo padre stava; il quale del suo amore consapevole era, e che Pietro aveva nome, ciò che la madre le disse, tutto ridetto, e in presenza di lui giurato, che ella anzi il veleno voluntariamente berrebbe che prender mai, ancor che ella potesse, altri che Romeo per marito. Del che Pietro particolarmente secondo l’ordine per via del frate n’avea Romeo avisato, e egli alla Giulietta scritto, che per cosa alcuna al suo maritare non consentisse, e meno il loro amore facesse aperto, che senza alcun dubbio fra otto, o dieci giorni egli prenderebbe modo di levarla di casa il padre. Ma non potendo Messer Antonio e Madonna Giovanna insieme né per lusinghe né per minaccie dalla figliuola la cagion perché non si volesse maritare intendere; né per altro sentiero trovando di cui ella innamorata fosse; e avendole più fiate Madonna Giovanna detto: “Vedi figliuola non piagnere oramai più, che marito a tua posta ti si darà, se quasi uno de Montecchi volessi, il che son certa che non vorrai”. E la Giulietta mai altro che sospiri e lagrime, non le respondendo, in maggior sospetto entrati deliberarono di conchiuder più tosto che si potesse le nozze che tra lei e il conte da Lodrone trattate avevano. Il che intendendo la giovane dolorosissima sopra modo ne divenne. Né sapendo che si fare la morte mille volte al giorno disiderava, pur di fare intendere il suo dolore a frate Lorenzo fra sé stessa deliberò, come a persona, nella quale dopo Romeo più, che in altra sperava, e che dal suo amante aveva udito, che molte gran cose sapeva fare. Onde a Madonna Giovanna un giorno disse: “Madre mia io non voglio, che voi maraviglia prendiate, se io cagion del mio pianto non vi dico, percioché io stessa non la so, ma solamente di continuo in me sento una si fatta maninconia che non che l’altre cose, ma la propria vita noiosa mi rende, né onde ciò m’avenga, so fra me pensare, non che a voi, o al padre mio dire il possa: se da qualche peccato commesso, che io non mi ricordasse, ciò non m’avenisse. E perché la passata confessione molto mi giovò, io vorrei piacendo a voi racconfessarmi, accio che questa Pasqua di maggio, che è vicina, potessi in rimedio de’ miei dolori ricever la soave medicina del sacrato corpo del nostro Signore”. A cui Madonna Giovanna disse che era contenta. E ivi a due giorni menatala a san Francesco dinanzi a frate Lorenzo la pose, il quale prima molto pregato aveva, che la cagione del suo pianto nella confessione cercasse d’intendere. La giovane come la madre da se allargata vide, così di subito con mesta voce al frate tutto il suo affanno raccontò, e per lo amore e carissima amistà, che tra lui e Romeo ella sapeva che era, il pregò che a questo suo maggior bisogno aita porgere le volesse. Alla quale il frate disse: “Che posso io farti figliuola mia in questo caso tanta nimistà tra la tua casa e quella del tuo marito essendo?” Disse a lui la mesta giovane: “Padre io so che sapete assai cose fare, e a mille guise mi potete aiutare, se vi piace, ma se altro bene fare non mi volete, concedetemi almen questo: io sento preparare le mie nozze ad un palagio di mio padre, il quale fuori di questa terra da due miglia verso Mantova è, ove menar mi debbono, accioche io men baldanza di rifiutare il nuovo marito abbia, e là, dove non prima sarò che colui, che sposare mi dee, vi giungerà, datemi tanto veneno, che insieme possa me de tal doglia e Romeo da tanta vergogna liberare. Se non con maggior mio incarico e suo dolore un coltello in me stessa sanguinerò”. Frate Lorenzo, udendo l’animo di costei tale essere, e pensando quanto egli nelle mani di Romeo ancor fosse, il quale senza dubbio nimico gli diverrebbe, se a questo caso non provedesse, alla giovane così disse: “Vedi Giulietta, io confesso, come tu sai, la metà di questa terra, e in buon nome sono appo ciascuno, né testamento o pace niuna si fa, ch’io non v’intervenga, per la qual cosa non vorrei in qualche scandalo incorrere, o che s’intendesse che io fossi intervenuto in questa cosa giamai, per tutto l’oro del mondo. Pur perché io amo te e Romeo insieme, mi disporrò a far cosa, che mai per alcuno altro non feci, si veramente, che tu mi prometterai di tenermene sempre celato”. Al qual la giovane rispose: “Padre datemi pur securamente questo veneno, che mai alcuno altro che io nol saperà”. Ed egli a lei: “Veneno non ti darò io figliuola, che troppo gran peccato sarebbe, che tu così giovanetta e bella ti morissi. Ma quando ti dia il cuore di fare una cosa, che io ti dirò, io mi vanto di guidarti sicuramente dinanzi al tuo Romeo. Tu sai che l’arca de tuoi Cappelletti fuori di questa chiesa nel nostro cimitero è posta. Io ti daro una polvere, la qual tu beendola per quarantaotto ore, over poco più o poco meno, ti farà in guisa dormire, che ogni uomo per gran medico che egli sia, non ti giudicarà mai altro che morta. Tu serai senza alcun dubbio, come se fossi di questa vita passata, nella detta Arca sepellita, e io quando tempo fie, ti verrò a trarne fuori, e terrotti nella mia cella, fin che al capitolo, che noi facciamo in Mantova, io vada, che fie tosto, ove travestita nel nostro abito al tuo marito ti menerò. Ma dimmi non temerai tu, del corpo di Tebaldo tuo cugino, che poco ha, che ivi entro fue sepellito?” La giovane già tutta lieta disse: “Padre se io per tal via pervenir dovessi a Romeo, senza tema ardirei di passar per lo Inferno”. “Orsù dunque, disse egli, poi che così sei disposta, io son contento di aitarti. Ma prima che cosa alcuna si facesse, mi parria, che di tua mano a Romeo la cosa tutta interamente scrivessi, accioché egli morta credendoti in qualche strano caso per disperazione non incorresse: perché io so, che egli sopra modo t’ama. Io ho sempre frati, che vanno a Mantova ove egli, come sai, si ritrova. Fa che io abbia la lettra, che per fidato messo a lui la manderò”. E detto questo, il buon frate, senza il mezzo de quali niuna gran cosa a perfetto fine conducersi veggiamo, la giovane nel confessoro lasciata alla sua cella ricorse, e subito a lei con un picciol vasetto di polvere ritornò, e disse: “Te’ questa polve: e quando ti parrà, nelle tre o nelle quattro ore di notte, insieme con acqua cruda senza tema la berai: che d’intorno sei comincierà operare, e senza fallo il nostro disegno ci riuscirà. Ma non ti dimenticar perciò di mandarmi la lettera, che a Romeo déi scrivere, che importa assai”. La Giulietta presa la polvere alla madre tutta lieta ritornò, e dissele: “Veramente madonna, frate Lorenzo è il miglior confessore del mondo. Egli m’ha sì racconfortata, che la passata tristizia più non mi ricordo”. Madonna Giovanna per la allegrezza della figliuola men trista divenuta rispose: “In buona ora figliuola mia, farai, che ancor tu racconsoli lui alle volte con la nostra elimosina: che poveri frati sono”. E così parlando se ne vennero a casa loro. Già era dopo questa confessione fatta tutta allegra la Giulietta in modo, che Messere Antonio e Madonna Giovanna ogni sospetto, che ella fosse innamorata, avevan lasciato, e credevano che ella per istrano e maninconoso accidente avesse i preteriti pianti fatti, e volentieri l’arebbono lasciata stare così per allora senza più dire di darle marito. Ma tanto a dentro in questo fatto erano andati, che più tornare a dietro senza incarico non si poteva. Onde volendo il Conte da Lodrone, che alcun suo la donna vedesse, essendo Madonna Giovanna alquanto cagionevole della persona, fu ordinato che la giovane accompagnata da due zie di lei, a quel luogo del padre, che avemo nominato, poco fuori della città, andar dovesse: a che ella niuna resistenza fece, e andovi. Ove credendo la Giulietta che il padre così all’improviso l’avesse fatta andare, per darla di subito in mano al secondo sposo, e avendo seco portata la polvere, che il frate le diede, la notte vicino alle quattro ore, chiamata una sua fante, che seco allevata s’era, e che quasi come sorella teneva, fattosi dare una coppa d’acqua fredda, dicendo che per gli cibi della sera avanti sete sosteneva, e postole dentro la virtuosissima polvere, tutta la si bebbe. E da poi in presenza della fante e d’una sua zia che v’era, disse: “Mio padre per certo contra mio volere non mi darà marito, s’io potrò”. Le donne, che di grossa pasta erano, ancor che veduto l’avessero bere la polve, la qual per rifrescarsi ella diceva porre nell’acqua, e avessero udite queste parole, non perciò le intesero, o sospicarono d’alcuna cosa; e tornaronsi a dormire. La Giulietta spento il lume, e partita la fante, fingendo di levarsi per alcuna opportunità naturale, del letto si levò, e tutta de suoi panni si rivestì, e tornata nel letto, come s’avesse creduto morire, così compose sopra quello il corpo suo meglio che ella seppe, e, le mani sopra il petto poste in croce, aspettava che’l beveraggio operasse, il qual poco oltre due ore stette a renderla come morta. Venuta la mattina, e il sole gran pezza salito essendo, fu la giovane nella guisa, che detto v’ho, sopra il suo letto ritrovata, ed essendo voluta svegliare, ma non si potendo, e già quasi tutta fredda trovandola, ricordandosi la zia e la fante dell’acqua e della polvere che la notte bevuta aveva, e delle parole da lei dette, e più vedendola essersi vestita, e da sé stessa sopra il letto a quel modo racconcia; la polvere veneno e lei morta, senza alcun dubbio giudicarono. Il rumor tralle donne si levò grandissimo, e il pianto, massimamente per la sua fante, la qual spesso per nome chiamandola diceva: “O madonna questo è quel, che dicevate, ‘mio padre contra mia voglia non mi mariterà’. Voi mi domandaste con inganno la fredda acqua, la quale la vostra dura morte a me apparecchiava. O misera me di cui prima mi dorrò ? Della morte, o di me stessa? Io sola e voi e me, il vostro padre e la vostra madre ad un tratto averò morto. Deh perché sprezzaste morendo la compagnia d’una vostra serva, la qual vivendo così cara mostraste d’avere? Che così, come io sempre con voi volentieri vivuta sono, così anco con voi volentieri morta sarei”. E così dicendo salita sopra il letto la come morta giovane stretta abbracciava. Messer Antonio, il quale non lontano era, il rumore udito tutto tremante nella camera della figliuola corse, e vedutala sopra il letto stare, e inteso ciò che bevuto e detto aveva, quantunque morta la stimasse, pure a sua sodisfazione prestamente per un suo medico, che molto nella sua casa usava, a Verona mandò, il qual venuto, e veduta, e alquanto tocca la giovane, disse lei essere già più ore per lo bevuto veneno di questa vita passata. Il che udendo il tristo padre in dirottissimo pianto entrò. La mesta novella alla infelice madre in poco spazio pervenne, la qual, da ogni vital calore abbandonata, come morta cadde, e risentitasi con un feminile grido, quasi fuori del senno divenuta, tutta percotendosi, chiamando per nome la amata figliuola, empiea di lamenti il Cielo, dicendo: “Io ti veggo morta o mia figliuola, sola requie della mia vecchiezza. E come m’hai o crudele potuto lasciare, senza dar modo alla tua misera madre di udire le ultime tue parole? Almen fosse io stata a serrare i tuoi begli occhi. O carissime donne, che a me presenti sete, aitatemi morire, e se in voi alcuna pietà vive, le vostre mani prima che il mio dolore, mi spengano. E tu, grande Iddio del cielo, poiché si tosto come vorrei, non posso morire, con la tua saetta togli me a me stessa odiosa”. Così essendo da alcuna donna sollevata, e sopra il suo letto posta, e da altre con assai parole confortata, non restava di piagnere amaramente, e di dolersi. Appresso tolta la giovane del luogo, ove ella era, e a Verona portata, con essequie grandi e orrevolissime da tutti e suoi parenti e amici pianta, nella detta Arca nel cimiterio di San Francesco per morta fu sepellita. Avea frate Lorenzo; il quale per alcuna bisogna del monistero poco fuori della città era andato, la lettera, che la Giulietta scrisse, e che egli a Romeo mandar doveva, data ad un frate, che a Mantova andava, il quale giunto nella città, ed essendo due o tre volte alla casa di Romeo stato, né per sua gran sciagura trovatolo mai in casa, e non volendo la lettera ad altri che a lui proprio dare, ancora in mano l’avea, quando Pietro credendo morta la Giulietta, quasi disperato, non trovando frate Lorenzo in Verona, deliberò di portare egli stesso a Romeo così mala novella, quanto la morte della sua donna pensava che essere gli dovesse. Perché tornato la sera fuori della città al luogo del suo patrone, la notte seguente si ver Mantova caminò, che la mattina per tempo vi giunse, e trovato Romeo, che ancora dal frate la lettera della donna ricevuta non aveva, piagnendo gli raccontò, come la Giulietta morta aveva veduta sepellire, e ciò che per lo adietro ella aveva e fatto e detto, tutto gli raccontò. Il quale questo udendo pallido, e come morto divenuto, tirata fuori la spada si volle ferire per uccidersi. Pur da Pietro ritenuto disse: “La vita mia in ogni modo più molto lunga esser non puote, poscia che la propria vita è morta. O Giulietta mia io solo sono stato della tua morte cagione, percioché, come io ti scrissi, a levarti dal Padre tuo non venni. Tu per non abbandonarmi morir volesti, e io per tema della morte viverò solo? Questo non fie mai”. E a Pietro rivolto, donatogli un bruno vestimento, che egli in dosso avea, disse: “Vanne Pietro mio”. Indi partitosi, Romeo, e solo serratosi, ogni altra cosa men trista che la vita parendogli, quel, che di se stesso far dovesse, molto pensò, e alla fine come contadino vestitosi, e una guastadetta d’acqua di serpe, che di buon tempo in una sua cassa per qualche suo bisogno serbata avea, tolta, e nella manica messalasi, a venir uerso Verona si mise, fra sé pensando e desiderando, over per mano della giustizia, se trovato fosse, rimaner della vita privato (solo che la morte più orreuole fosse stata) over nell’arca, la qual molto ben sapeva dove era, con la sua donna rinchiudersi, e ivi morire. A questo ultimo pensiero si gli fu la fortuna favorevole, che la sera del dì seguente, che la donna era stata sepellita, in Verona senza esser da persona conosciuto entrò, e aspettata la notte, e già sentendo ogni parte di silenzio piena, al luogo de frati minori, ove l’arca era, pervenne. Non avevano ancora questi frati conventuali il luogo di san Fermo in Verona, né gli altri osservanti da essi dividendosi avevan quello di san Bernardin fondato, ma in una chiesetta del nome di San Francesco intitolata, nella quale egli già stette, e nella Cittadella ancor si vede, la sua vera regola a nostri tempi dal loro licenzioso vivere guasta, perfettamente osservando insieme dimoravano, presso le mura della quale dal canto di fuori erano allora appoggiati certi avello di pietra, come in molti luoghi fuori delle chiese veggiamo, uno de quali antica sepoltura di tutti e Cappelletti era, e nel quale la bella giovane si stava. A questo accostatosi Romeo (che d’intorno le quattro ore esser poteva) e come uomo di gran nerbo che egli era, per forza il coperchio levatogli, e con certi legni a ciò disposti, che seco portati aveva, in modo puntellato avendolo, che contra sua voglia chiuder non si poteva, dentro v’entrò, e lo richiuse. Avea seco il sventurato giovane recato una lume orba, per poter la sua donna alquanto vedere, la qual levati i puntelli, e rinchiusosi nell’arca, di subito tirò fuori, e aperse, e ivi la sua bella Giulietta sopra ossa e stracci di molti morti, come morta, vide giacere. Onde immantenente forte piagnendo così cominciò a dire: “O occhi, che a gli occhi mie foste, mentre al Cielo piacque, chiare luci. O bocca da me mille volte si dolcemente basciata, e dalla quale così saggie parole si udivano. O bel petto, che’l mio cuore in tanta letizia albergasti, ove io ora ciechi, muti, e freddi vi ritrovo? Come sanza di voi veggo, parlo, o vivo? O misera mia donna ove sei d’Amore condotta? Il quale vuole che poco spazio due tristi amanti e spenga e alberghi. Oimé questo non mi promise la speranza e quel desio, che del tuo amore primieramente m’accesero. O sventurata mia vita a che ti reggi?” E così dicendo gli occhi, la bocca, e il petto le basciava ogni ora in maggior pianto abbondando, nel qual diceva: “O sasso, che sopra mi sei, perché addosso cadendomi non fai vie più brieve la mia vita?” Ma percioché la morte in libertà d’ognuno esser si vede, vilissima cosa per certo è disiderarla e non prenderlasi, e così l’ampolla, che con l’acqua venenosa nella manica aveva, tirata fuori parlando seguì: “Io non so qual destino sopra i miei nimici e da me morti nel lor sepolchro a morire mi condanni. Ma poscia che o mia anima presso alla donna nostra così giova il morire ora, moriamo”. E in quella postasi a bocca la cruda acqua nel suo petto tutta la ricevette. Dapoi presa l’amata giovane nelle braccia forte stringendola, diceva: “O bel corpo ultimo termine d’ogni mio disio se alcun sentimento dopo il partir dell’anima t’è restato, o se ella il mio crudo morir vede, priego, che non le dispiaccia, che non avendo io teco potuto lieto e palese vivere, almen secreto e mesto teco mi moia”; e molto stretta tenendola la morte aspettava. Già era giunto l’ora, che il calor della giovane la fredda e potente virtù della polvere dovesse avere estinta, ed ella svegliarsi. Perché stretta e dimenata da Romeo nelle sue braccia si destò, e risentitasi dopo un gran sospiro disse: “Oimé ove son io? Chi mi stringe? Misera me, chi mi bascia?” E credendo che questi frate Lorenzo fosse, gridò: “A questo modo frate serbate la fede a Romeo? A questo modo a lui mi condurrete sicura?” Romeo la donna viva sentendo, forte si maravigliò, e forse di Pigmalion ricordandosi disse: “Non mi conoscete o dolce donna mia? Non vedete che io il tristo vostro sposo sono, per morire appo voi, da Mantova qui solo e secreto venuto?” La Giulietta nel monimento vedendosi, e in braccio ad uno che diceva essere Romeo sentendosi, quasi fuori di sé stessa era, e da se alquanto sospintolo, e nel viso guatatolo, e subito racconosciutolo, abbracciandolo mille basci gli donò e poi gli disse: “Qual sciochezza vi fece qua entro e con tanto pericolo entrare? Non vi bastaua egli per le mie lettere avere inteso, come io mi dovea con lo aiuto di frate Lorenzo fingere morta, e che di brieve sarei stata con voi?” Allora il tristo giovane accorto del suo gran fallo incominciò: “O misera la mia sorte, o sfortunato Romeo, o vie più di tutti altri amanti dolorissimo, io di ciò vostre lettere non ebbi giamai”. E quivi le raccontò, come Pietro la sua non vera morte per vera gli disse, onde credendola morta aveva per farle morendo compagnia ivi presso lei tolto il veneno, il qual come acutissimo sentiva, che per tutte le membra la morte gli cominciava mandare. La sventurata fanciulla questo udendo sì dal dolore uinta restò, che altro, che le belle sue chiome e l’innocente petto battersi e stracciarsi fare non sapeva, e a Romeo, che già risupino caduto era, basciandolo spesso un mare delle sue lagrime spargere sopra, e essendo più pallida che la cenere diuenuta, tutta tremante disse: “Dunque nella mia presenza e per mia cagion dovete Signor mio morire ? E il Cielo patirà, che dopo voi (ben che poco) io viva ? Misera me almeno a voi la mia vita potessi io donare, e sola morire”. Allo quale il giovane con voce languida rispose: “Se la mia fede e ’l mio amore mai caro vi fu, per quello vi priego, che dopo me non vi spiaccia la vita se non per altra cagione, almen per poter pensare di colui, che del vostro amore preso per voi dinanzi a voi si more”. A questo rispose la donna: “Se voi per la mia finta morte morite, che debbo io per la vostra non finta fare? Dogliomi solo, che io qui ora dinanzi a voi non abbia di morire il modo, e a me stessa, percioché io vivo, odio porto. Ma io spero bene che in poco spazio, sì come stata son cagione, così saro della vostra morte compagna”, e con fatica queste parole finite tramortita si cadde. E appresso risentitasi andava miseramente con la bella bocca gli estremi spiriti del suo caro amante raccogliendo, il qual uerso il suo fine a gran passo caminava. In questo tempo avea frate Lorenzo inteso, come e quando la giovane la polvere bevuta avesse; e che per morta era stata sepellita, e sapendo il termine esser giunto, nel quale la detta polvere la sua virtù finiva, preso uno suo fidato compagno, forse una ora innanzi al giorno all’arca per trarne la donna se ne venne, alla qual giungendo, e ella piagnere e dolersi udendo, per la fessura del coperchio mirando, e un lume dentro vedendovi, meravigliatosi forte, pensò che la giovane a qualche guisa la lucerna con esso lei ivi dentro portata avesse, e che svegliatasi per tema d’alcun morto, o forse di non restar sempre in quel loco rinchiusa, si ramaricasse, e piagnesse in tal modo. E con l’aita del compagno prestamente aperta la sepoltura vide la Giulietta, la qual tutta scapigliata e dolente s’era in sedere levata, e il quasi morto amante nel suo grembo recato s’avea. Alla quale egli disse: “Dunque temevi tu figliola mia, ch’io qui dentro ti lasciassi morire?” Ed ella, il frate udendo e il pianto raddoppiando, rispose: “Anzi temo io, che voi con la mia vita me ne caviate. Deh per la pieta di Dio riserrate il sepolcro, e andatevene in guisa, che io qui mi muoia, over porgetemi un coltello, che io nel mio petto ferendo di doglia mi tragga. O Padre mio, o padre mio ben mandaste la lettera? Ben sarò io maritata? Ben mi guidarete a Romeo? Vedetelo qui nel mio grembo già morto”. E raccontandogli tutto il fatto gliele mostrò. Frate Lorenzo queste cose udendo come insensato si stava, e mirando il giovane, il qual per passar di questa all’altra vita era, forte piagnendo lo chiamò, dicendo: “O Romeo qual sciagura mi ti toglie? parlami alquanto, drizza a me un poco gli occhi tuoi. O Romeo vedi la tua carissima Giulietta che ti prega che la miri. Perché non rispondi almeno a lei, nel cui bel grembo ti giaci?” Romeo al caro nome della sua donna alzò alquanto i languidi occhi dalla vicina morte gravati, e vedutala gli richiuse, e poco dapoi tutto torcendosi fatto un brieve sospiro si morì. Morto nella guisa, che divisato v’ho, il misero amante, dopo molto pianto già vicinandosi il giorno, disse il frate alla giovane: “E tu Giulietta che farai?” La qual tostamente rispose: “Morrommi qui entro”. “Come figliuola”, disse egli, “non dire così, esci pur fuori, che come che io non sappia che di te farmi, pur non ti mancherà il richiuderti in qualche santo monistero, e ivi pregar sempre Dio per te e per lo morto tuo sposo, se bisogno ne ha”. Al qual disse la donna: “Padre altro non vi dimando io, che questa grazia, la qual per lo amor, che voi alla felice memoria di costui portaste (e mostrogli Romeo) mi farete volentieri, e questo fie di non far mai palese la nostra morte, accioché i nostri corpi possano insieme sempre in questo sepolcro stare. E se per caso il morir nostro si risapesse, per lo già detto amore vi ripriego, che i nostri miseri padri in nome di ambo noi vogliate pregare, che quelli, i quali amore in uno istesso fuoco arse, e ad una istessa morte condusse, non sia lor grave in uno istesso sepolcro lasciare”. E voltatasi al giacente corpo di Romeo, il cui capo sopra uno origliere, che con lei nell’arca era stato lasciato, posto aveva, gli occhi meglio rinchiusi avendogli, e di lagrime il freddo uolto bagnandogli disse: “Che debbo io senza te in vita più fare Signor mio? E che altro mi resta verso te, se non con la mia morte seguirti? Niente altro certo, accioché da te, dal quale la morte solo mi poteva separare, la istessa morte separare non mi possa”. E detto questo la sua gran sciagura nell’animo recatasi, e la perdita del caro amante ricordandosi, deliberando di più non vivere, raccolto a se lo spirito, e per buono spazio tenutolo, sopra il morto corpo morta ricadde. Frate Lorenzo dapoi che la giovane morta conobbe, per molta pietà tutto stordito non sapeva egli stesso che farsi, e insieme col compagno dal dolore vinto ancor sopra i morti amanti piagnea, quando furono d’alcuni vicini, che per tempo levati s’erano, sopra questa arca veduti col lume, e conosciuti: onde alcun di loro immantenente questo fatto a Cappelletti rapportò, i quali furon prestamente dinanzi al Signore pregando, che egli per forza di tormento (se altrimenti non si poteva) volesse dal frate sapere quello che nella loro sepoltura a quella ora cercava, tanto più che essi il sapevano de loro inimici amico. Il Signor poste le guardie, che ’l frate partir non si potesse, mandò per lui, al quale venutogli innanzi disse: “Che cercavate domine stamane nella sepoltura de Cappelletti ? diteloci: che noi in ogni guisa lo vogliam sapere”. Ma mentre che ’l frate con alcune sue favole cercava di scusarsi col Signore, e di nascondergli la verità, gli altri del convento, che la novella intesa avevano, uollero la sepoltura aprire, e mirarvi dentro, per veder di saper quel che i due frati la passata notte sopra vi facevano. E apertala, e il corpo del morto amante dentro trovatovi, di subito con rumore grandissimo al Signor, che ancora col frate parlava, fu detto come nella sepoltura de Cappelletti, sopra la qual la notte il frate era stato colto, giaceva morto Romeo Montecchi. Questo parve a ciascuno quasi impossibile, e somma maraviglia a tutti apportò, il che udendo frate Lorenzo, e conoscendo non potere più nascondere quel che disiderava di celare, ginocchione dinanzi al Signor postosi disse: “Perdonatemi Signor mio se a voi la bugia di quel che mi richiedeste io dissi. Che ciò non feci per malizia, ne per guadagno alcuno, ma per servare la promessa fede a due miseri e morti amanti da me data”, e così tutta la passata istoria fu astretto presente molti a raccontarli. Bartholomeo dalla Scala questo udendo da gran pietà quasi mosso a piagnere volle i morti corpi egli stesso vedere, e con grandissima quantità di popolo al sepolcro se ne venne, e trattone i due amanti nella chiesa di san Francesco sopra due tapeti gli fece porre. In questo tempo i padri loro nella detta chiesa vennero, e sopra i lor morti figliuoli piagnendo da doppia pieta vinti, avenga che nimici fossero, s’abbracciorono in modo che la lunga nimistà tra essi e tra le lor case stata, e che né prieghi d’amici, né minaccie di Signore, né danni ricevuti, né ’l tempo aveva mai potuta estinguere; per la misera e pietosa morte di questi amanti hebbe fine. E ordinato un bel monimento, sopra il qual la cagion della lor morte scolpita fosse, gli due amanti con pompa grandissima e solenne dal Signore, e da lor parenti, e da tutta la città pianti, e accompagnati, sepelliti furono.