DE GLI ECATOMMITI DI MESSER GIOVANBATTISTA
GIRALDI CINZIO NOBILE FERRARESE.
HIS IN ECATOMMITHIS MEIS QUIBUS VITIA DAMNARE, VITAE AC MORIBUS CONSULERE, SACROSANCTAE PONTIFICIAE AUCTORITATI, AC ROMANAE ECCLESIAE DIGNITATI ONOREM HABERE STUDUI.
OMNIA PIA, SANCTA, AC PIORUM PATRUM, PONTIFICUMQUE MAXIMORUM SCITIS, ORDINIBUS, DECRETIS, CONSTITUTIONIBUS Q. CONSENTANEA SUNTO.
SI QUID FORTE AB HIS ALIENUM PER IMPRUDENTIAM (QUOD TAMEN MINIME REOR, HOC ENIM MAXIME CAVI)
MIHI EXCIDERIT, ID OMNE IRRITUM, CASSUM, INDICTUM, AC INFECTUM PENITUS ESTO.
Nos frater Marcus Cigliarius ordinis predicatorum a reverendo patre Christophoro Galeano, de Savigliano, eiusdem ordinis e hereticae pravitatis inquisitore in vice inquisitoris officio electi, ac deputati fidem facimus Hecatommithos per dominum Cinthium Ioannem Baptistam Gyraldun, philosophiæ doctorem e nobilem ferrariensem, compositos, e in duobus volumibus disiunctos, consonos esse Sanctæ Romanæ Ecclesiæ, e ab Apostolica fide non abhorrere ideoque nos illi eorum imprimendorum licentiam præstitisse in quorum omnium fidem has nostras manu nostra scriptas nostroque sigillo munitas confecimus, easque in ipsis voluminibus imprimi mandavimus.
Ex æde Divi Dominici in Monte Regali xvi. Kal. Iulii MDLXV.
Nos frater Marcus Cigliarius vice sitor ec.
Locus sigilli.
Al serenissimo e invitissimo signore il signore Emanuele Filiberto, duca di Savoia.
La inconstanza della Fortuna, oltre alla indisposizione mia, serenissimo signore, la quale mi ha apparecchiati varii e noiosi travagli, è stata cagione che io, come per mio diporto, mi sia ridotto a rivedere que’ cento ragionamenti, i quali, composi nel fiorire degli anni miei, dando loro tutto quel tempo che mi avanzava da gravi studi di filosofia alli quali io dava opera con ogni diligenza col lume della quale filosofia, fonte e origine de lodevoli costumi e di tutte le oneste discipline e similmente di ogni virtù cercai di condurre al fine questa mia fatica, dirizzata tutta, con molta varietà di essempi a biasimare le viziose azioni e a lodare le oneste. Acciocché si conosesse quanto siano da essere fuggiti i vizii, e con quanto animo si debbano abbracciare le virtù per operar bene e meritarne laude e onore in questa vita, sperandone non pure fra mortali eterna gloria, ma celesti premii dopo la morte. E perciò fù mia intenzione, sopra ogn’altra cosa, di addurre in questa opera avenimenti simigliantissimi al vero, i quali potessero portare, con onesto diletto, qualche profitto ad ogni sorte di persone. Questi ragionamenti, poi che io fui ricevuto nel collegio de dottori, senza impor loro l’ultima mano, furono messi da me da parte, per essermi stato dato da’ signori miei il carico di esporre alla gioventù ferrarese, nello studio nostro, l’opere di Aristotile. E per essere dapoi stato chiamato ad esporre gli auttori di umanità (studio, che contiene in sé la cognizione delle altre scienze, insieme con una felicissima purità di scrivere e di ragionare) per volere dell’eccellentissimo signore, il signore donno Ercole secondo da Este, duca quarto di Ferrara, e signor mio di felice e onorata memoria. A questo publico ufficio dell’una e dell’altra professione, da sé molto grave e faticoso, si aggiunse il peso di segretario, ove sono stato occupato asiduamente, e nella città e fuori, per tutto il tempo che egli visse e anche alquanti anni da poi in servigio dell’ Eccellentissimo Signore Duca Alfonso secondo, suo dignissimo figliuolo e successore felicissimo in tutto il dominio del padre e de gli avoli e maggiori suoi, che per continua successione di più di cinquecento anni l’hanno tenuto e felicemente conservato con molta giustizia e con somma benivolenza de popoli loro, ma poscia che piacque a sua eccellenzia che, sotto la medesima provisione, la quale sempre con magnifica e liberal mano, mi concedette mi vivessi a me e alle muse. Io, vedutomi avanzar tempo di ripigliare in mano i tralasciati sragionamenti per lo spazio di più di trenta anni, se non in quanto voleva l’eccellentissimo signore mio alcuna volta udirne qualche parte, mi misi a rileggergli, più tosto per pigliarne qualche ricreazione nelle mie gravi molestie che con animo di porgli nel publico, ma quantunque io gli abbia veduti nati nel campo de miei più verdi anni, nondimeno, nel rileggergli, si mi sono offerti tali, che non mi sono paruti indegni, che usi loro intorno qualche maggior diligenza in questi canuti, là onde gli ho richiamati, come si suol dire, sotto la lima, e vi ho messa quella maggior diligenza che mi hanno conceduta i noiosi travagli dell’animo e la indisposizione del corpo, acciocché se non divenissero perfettamente tersi, e politi, almeno potessero comparire men rozzi e rugginosi meno.
Ora, essendo essi divisi in due parti, e avendo io finalmente deliberato di porgli in luce, ho voluto che la prima parte esca sotto il felicissimo nome di vostra altezza, sì perché il serenissimo splendore di tanta dignità in guisa illumini l’oscuro di questa mia giovanil fatica, ch’ella appresso a voi prima, invittissimo signore, poscia appresso a gli altri si rimanga in quel pregio, in che ella, da sé, non rimarrebbe giamai senza il raggio di così chiaro lume. Sì anco per mostrarmi grato, con quel miglior modo che mi concede la qualità del basso stato mio, alla altezza vostra e conoscitore di quella immensa e ineffabil cortesia colla quale ella senza avermi pur mai veduto di sua spontanea volontà mi ha chiamato, con onorata provisione, fra la luce di tanti eccellenti uomini e nobilissimi spiriti che giovando colle dotte lezioni loro a giovani virtuosi, sudditi di vostra altezza, onorano l’academia ordinata da lei, senza rispiarmo alcuno di fatica, o di spesa (come quella che ha l’animo vie maggiore della gran signoria che ella possiede) a beneficio de’ popoli suoi, acciocché ella, vero essempio di ogni virtù, abbia anco sotto sé gente degna di essere signoreggiata da lei, vero rifugio, e, fra le tempeste di questi nostri tempi, sicurissimo porto di tutte le virtù e di coloro similmente che ad ornassi di esse, con ogni studio, si sono dati.
Però che vostra altezza, si come prudentissima ch’ella è ha veduto che, come insin’ da’ suoi primi anni ha fatte e ha seguitato a fare, e farà, cose degne di eterna memoria, così, col mezzo di questa sua onorata academia, potranno tuttavia sorgere, oltre a quelli che ci sono, vivaci e begli ingegni che, colle scritture loro, consecreranno i gloriosi e magnanimi suoi fatti, così di guerra come di pace, alla immortalità. Perché non i tesori, non le torri, non le statue, non le altre opere d’incude o di martello, o di altra manuale arte, fanno immortali i magnifici fatti de grandi e valorosi principi (peroché il tempo logora cose tali e, molte fiate, la ingiuriosa Fortuna più tosto che non converrebbe le fa cadere a terra insieme col nome di coloro all’onore de quali elle erano alzate) ma gli studi e gli inchiostri de gli uomini scienziati, contra la forza de quali non può lunghezza di tempo né impeto di Fortuna. E, se ciò non fosse, sarebbono stati sommersi nelle tenebre dell’oblio, e in silenzio eterno i nomi di quelli Eroi i quali sono stati conservati chiarissimi fra gli uomini dalle istorie, dalle poesie, e dalle altre composizioni de pellegrini ingegni, che, quasi cigni canori, poggiando al cielo con suavissimo canto, gli hanno portati onoratissimi per tutte le parti del mondo, con immortal memoria. Quindi chiamò Alessandro il Magno fortunato Achille, avendo egli avuto Omero, che di lui così altamente scrisse. E, nel vero, come l’eccellenti e magne imprese danno degna materia a gli scrittori di adoperare onorevolemente lo ingegno e lo stile, così hanno elle l’anima e la vita da essi, per opera de quali divengono insieme con quelli de gli scrittori istessi, immortali i nomi di coloro che fatte le hanno. Alla qual cosa quantunque io mi conosca poco atto e spetialmente intorno a gloriosi fatti di vostra altezza per essere ciò soma da altri omeri, che da deboli miei (perché non meno meriterebbe ella ora un’Omero, od un Virgilio, che di lei cantasse, che lo si avesse meritato Achille e Augusto nei tempi antichi) non sie nondimeno che, con animo gratissimo, ciò non voglia e non desideri, e non cechi almeno, quando altro io non possa di fare che non solamente questi che ora vivono, ma quelli anche, i quali doppo noi verranno, mi conoschino suo divoto e obligato servitore.
E voglio credere che occulta virtù o fatale disposizione abbia operato, che come io ne gli anni adietro ho servito agli eccellentissimi signori miei naturali, così ora sia stato chiamato da vostra altezza a servirla in questa sua felice academia del monte regale. Acciocché io, nato della onorata donna, ch’ebbe origine dalla nobile famiglia de Mombelli, sudditi di vostra altezza. Doppo l’aver giovato xxxiiii anni publicamente leggendo alla patria mia, venissi a giovare anche qui, come cittadino suo, a questi popoli, onde ebbe il nascimento chi mi produsse in vita, e (acquistandomi quasi un’altra patria) per suo servitore mi facessi conoscere. A Vostra Altezza Porgo adunque, serenissimo signor mio, questa prima parte de gli Hecatommithi (che così ho nominati questi miei ragionamenti, dalle cento favole, o novelle, che le vogliamo chiamare, che si contengono in loro) con quella riverenza ch’io debbo a Vostra Altezza. Non per cosa degna di lei, che troppo ben conosco, che all’alto segno del suo purgato giudizio non può arrivare la bassezza loro, ma per testimonio (infin che miglior fortuna mi offerisca più degna occasione di onorarla e di dimonstrarle più pienamente la devozione dell’animo mio) della mia osservanza verso lei e di quella fedele, e sincera servitù, colla quale le sono, e sarò sempre astretto. Degnerà adunque Vostra Altezza di accettare questo mio picciolo dono con quella cortesia che regna nel suo reale e altissimo animo, e che la fa andare onoratissima, oltre all’altre eccellenti sue doti, fra più benigni e magnanimi signori dell’età nostra, et, facendo fine, prego nostro Signore Iddio che la conservi a lunghi e felice anni e la faccia compiutamente contenta di tutti i suoi alti e nobili desideri.
Dalla Academia Di Monte Regale, adi xiiii di Giugno MDLXV. A Vostra Altezza umile e obligatissimo servitore Giovanbatista Giraldi Cinzio.
PARTE PRIMA
Nel Monte Regale Appresso Lionardo Torrentino MDLXV
DECA TERZA
Consalvo, pigliata Agata per moglie, s’innamora di una meretrice, si delibera di avelenare Agata. Uno scolare gli dà invece di veleno, polvere da far dormire, la dà egli alla moglie, la quale, oppressa dal sonno, è seppellita per morta. Lo scolare la trae del sepolcro e se la mena a casa. È condannato il marito a morte, ella lo libera dalla morte, salva la sua onestà.
NOVELLA V
Venuta Livia al fine della sua novella, disse Sempronio: “Le donne debbono molto guardarsi di dar materia di essere così gastigate da lor mariti, che non puote essere che il marito, quando anco fosse tale quale ci ha mostrato Adorno la novella di Livia, ciò veggendo, non conosca l’animo della sua donna poco pudico, sebene non incorre in vergogna col corpo, la qual cosa puote essere cagione che il marito abbia sempre qualche sospetto di lei, e perciò vie meno l’ami. Lo stimolo dell’onore, dée così opporsi, nelle donne, alla femminil fragilità, che non si lascino vincere da disonesti appetiti. E la fede data a’ mariti la debbono far divenir costantissime.” E tale costanza si vedrà da quello che son per narrare, in una nobilissima donna, la quale, ancora che fosse gravemente ingiuriata dal marito ed egli si inducesse a volergli dar morte, ella nondimeno, vincendo il mal voler di lui, colla sua molta fede, lo liberò da vituperosa morte.
Fu in Siviglia, nobile città di Spagna, un gentiluomo, che Consalvo avea nome, il quale più lascivo e più mutabile era, che a nobil’uomo non era convenevole. Questi, innamoratosi di una gentildonna che Agata era detta, usò ogni diligenza per averla per moglie. E perché ella era povera, ove Consalvo era ricchissimo, i parenti gliele diedero, parendo loro di fare un gran guadagno. Ma appena si finì l’anno, ch’egli, sazio di lei, mostrò quanto fosse cosa poco giovevole alle donne aver marito più ricco che savio, e quanto sia meglio dar le donne agli uomini che alla roba[1].
Perché, essendo andata ad abitare in quella contrada una cortigiana, e ricca, e bella, che con mill’arti e mille inganni si facea prigioni gli animi degli uomini che, come semplici, non vi si sapeano opporre. Consalvo fu uno de primi che ne costei lacci incappò, e, fuori di ogni credenza, di lei si accese. Ed era a tal termine giunto, che non avea mai bene se non quanto era seco. Ed essendo ella sopra ogni femina dissoluta e avida del guadagno, non a Consalvo solo, ma a quanti si andavano a lei con copia di danari largamente si dava. La qual cosa tanto doleva a Consalvo, quanto si può pensare ognuno che dolga vedere molto amata donna nelle mani altrui.
Era nella città uno scolare di medicina, e di nobil casa, e che molto conversava con Consalvo, il quale si era così innamorato di Agata che non bramava altro che godersi di lei. E avendo commodità di andare in casa, per la domestichezza, ch’egli teneva col marito, non lasciava cosa a fare perch’ella l’amasse e il compiacesse di sé. La qual cosa, ancor che fosse noiosa alla donna, e perciò avesse voluto ch’egli si fosse rimaso di andarle in casa, nondimeno, conoscendo ella il marito uomo di poca levatura, e molto dilettarsi dell’amicizia dello scolare, tollerava la molestia ch’egli le dava levandogli nondimeno ogni speranza di poter mai conseguir da lei cosa men che onesta. Questi, per porle il marito in dispetto, fè che una vecchia, che era molto atta a piegar gli animi delle donne a' desideri de loro amanti, le spiegò, come se fosse mossa a compassione di lei, l’amore che Consalvo alla meretrice portava. Mostrandole che indegnamente ella gli era tanto fedele. E, d’una cosa passando ad un’altra, le disse finalmente ch’era grande sciocchezza che pigliandosi piacere il marito d’altre donne, ella, come melensa, se ne stesse a disagio. Agata che saggia era e amava il marito, le disse ch’ella volentieri vedrebbe il marito tale quale egli dovrebbe essere e quale ella lo desiderava. Ma, poscia ch’egli pure di altro animo era, non gli voleva ella torre quella libertà che o la mala usanza del guasto mondo, o privilegio che tra loro si avessero fatto gli uomini, avea lor data. E ch’ella non era mai, facesse con altre donne il marito ciò ch’egli si volesse, per violar quella fede che data gli avea, né per scemare il desiderio di conservare l’onore che naturale deve essere negli animi delle donne e che le face degne di loda in tutte le parti del mondo. E che tanto più deveva ella ciò fare quanto non avea dato altro di dote al marito che l’onesta. Onde non voleva ella mai da questo pensiero levarsi, e poscia, alquanto turbatetta, le soggiunse ch’ella si maravigliava molto, ch’essendo ella vecchia di tale età, che dovrebbe riprendere le giovani, s’elle a ciò fare sì priegassino, le desse così fatti consigli, i quali l’erano tanto noiosi, che s’ella fosse mai più così ardita che di cose tali le dicesse parola, le farebbe provare quanto simili ragionamenti le fossero spiacevoli. Riferì la vecchia allo scolare ciò che Agata detto le aveva, e ne rimase egli molto tristo. Ma non restò per ciò di amare la donna, avisandosi che non era così duro cuore che amando, pregando, lagrimando, a lungo andare non si ammollisce. Conversando costui con Consalvo, gli disse egli, che acceso era così della Meretrice, come lo scolare della Agata, e che non gli increbbe mai tanto di avere moglie a lato, quanto gli rincrescieva allora. Perché non avendo egli Agata, si piglierebbe la impudica Aselgia (che così era appellata la meretrice) per moglie. Però ch’ella sola era quanto di bene egli avea nel mondo. E vi aggiunse, che se non temesse il gastigo della giustizia le darebbe morte. A queste parole disse lo scolare che ad ogni modo era grave soma[2] una mogliera che fosse venuta a fastidio al marito, e che s’altri cercava di liberarsene, tentava cosa degna di scusa. E ragionando una volta e un’altra Consalvo seco di questo suo desiderio, e ritrovandolo tuttavia favorire la parte sua, prese tanta baldanza con lui, che un giorno gli disse: “Tu mi sei quell’amico che mi sei, e questa nostra amicizia mi fa credere che t’incresca non meno che a me ch’io mi ritrovi in questo travaglio nel quale tu mi vedi per non poter pigliarmi per moglie Aselgia. E però persuadendomi di potere avere, poi che medico sei, compenso al mio male, ti voglio dire quello che mi è venuto in mente e quello similmente in che io mi voglio servir di te. Io mi sono deliberato, quanto prima potrò, di far morire Agata, e a più giorni che io mi volgo questa cosa per l’animo, ma mi ha fatto soprastare il non sapermi ritrovar modo di farla morire, che a me non sia poscia imputata la sua morte. E sappiendo che tu sei medico, e per lo lungo studio c’hai dato a questa arte, imaginandomi che tu sappi di molte cose che sarieno atte a compire questo mio desiderio, ti prego ad essermi in ciò cortese, che te ne sarò sempre obligato.” Lo scolare, subito ch’udì così dire a Consalvo, conobbe che quindi gli si potea scoprire la via di potere, col mezzo del suo ingegno, avere Agata nelle mani. Ma tenendo nell’animo chiuso il suo pensiero disse a Consalvo che egli era vero, che non gli mancavano modi così segreti di far morire le persone con segreti veleni, che non sarebbe alcuno mai che si potesse accorgere che di veleno si morissero quelli che lo pigliassero. Ma che due cose lo ritraevano da compiacerlo, l’una perché i medici erano al mondo non per levare la vita ad altri ma per conservargliele. L’altro, che porrebbe a troppo gran pericolo la vita sua, qualunque volta a ciò fare si disponesse. Perché potrebbe avenire, come pare che voglia Iddio, ch’avenga in simili casi che per non pensato modo si saprebbe ciò che fatto si fosse e che non meno sarebbe egli condannato a morte che Consalvo. E che per lo primo rispetto non si voleva egli dare a far cosa che fosse contra la professione sua, e per lo secondo, non volea porre a rischio, per cosa tale, la vita sua. Consalvo ciò udendo disse che le leggi dell’amicizia non vietavano che uno amico non si partisse dall’onesto per servigio dell’altro. E che perciò non doveva egli mancargli in questo suo desiderio, né li due rispetti addotti lo deveano rimovere da ciò, perché tanto oggidì era tenuto medico chi uccidea gli uomini, quanto colui che gli sanava. E che essendo ciò segreto fra lor due soli, non era da temere che mai si devesse sapere. E che quando anco avenisse ch’egli fosse incolpato di avere avelenata la moglie, gli prometteva egli di non dir mai che da lui avesse avuto il veleno. Lo scolare gli disse che, poscia ch’egli così gli prometteva, proporrebbe l’essergli amico al diritto della medicina e che lo compiacerebbe. E, lasciato Consalvo tutto lieto, se n’andò a casa e compose una sua mescolanza di polvere da fare talmente dormire ch’altri sarebbe giudicato morto. E l’altro giorno portò la polvere a Consalvo e gli disse: “Mi fate far cosa, Consalvo, che non farei per me medesimo, ma poscia che più ha possuto in me l’amor ch’io vi porto, che il giusto e il dever mio, vi prego a mantenermi la fede e non palesar a persona giammai che questo veleno da me abbiate avuto.” Così gli promise Consalvo di fare. E, presa la polvere, dimandò in che modo egli la devesse usare. A cui disse egli che la sera gliele ponesse gentilmente nel mangiare e che mangiata che la si avesse, così acconciamente Agata se ne morrebbe, che parrebbe ch’ella dormisse.
Presa Consalvo la polve, e venuta la sera, la pose nel mangiare dell’Agata. La quale, mangiata che l’ebbe, sentendosi tutta sonnacchiosa, se n’andò nella sua camera (però ch’ella con Consalvo non si giaceva se non quando egli l’adimandava, il che era di rado) e entrò nel letto, e non passò l’ora che la prese così profondo sonno, che pareva veramente morta. Consalvo, quando tempo gli parve, se n’andò anch’egli a letto, e stando tuttavia colla mente travagliata, aspettò con grandissimo desiderio il giorno, tenendo certo di ritrovare la moglie morta. Fattosi giorno, egli si levò e se n’andò fuori di casa e vi stette per lo spazio di un’ora, poscia si ritornò a casa e dimandò alla cameriera di Agata che fosse di lei. “Non si è ella ancor mossa, rispose,” ed egli: “Come,” disse, “dorme ella tanto istamane? Suole essere levata avanti giorno, e ora son passate due ore del dì e ancora dorme? Va tosto, e risvegliala, che voglio ch’ella mi dia alcune cose le quali sono sotto le sue chiavi.” La cameriera, presta al comandamento, se n’andò alla Madonna e chiamatala una e due fiate, e non rispondendo ella, le pose le mani addosso e toccandola gentilmente le disse: “Levatevi Madonna, che il Messere vi domanda.” Ma non rispondendo ella, le prese la giovane un braccio, e scotendola assai gagliardamente, e, non rispondendo la donna, né movendosi punto, se n’andò a Consalvo, e dissegli: “Messere, io non posso far risentire Madonna per cosa che io le faccia,” Consalvo, allora lieto: “Va’,” disse, “e scuotila tanto ch’ella si risenta.” Ritornò la cameriera, e fe’ quanto le avea detto Consalvo, ma tutto fece invano. Onde ritornatasi a lui, disse ch’ella credeva certo che Madonna fosse morta, tanto l’avea ella ritrovata fredda e insensibile. “Come morta?” disse egli, e ciò disse come maraviglioso e pieno di spavento, e, andatosi al letto, la chiamò, la scosse, la strinse fortemente colle mani, le torse le dita e delle mani e de piedi, e al fìne, non sentendo cosa alcuna Agata, cominciò a gridare, a dolersi, a rammaricarsi, a percuotersi, e a maledire la sua fortuna che l’avesse, così tosto, privo di così fedele e amorevole moglie. E avendo scoperta tutta e rivoltata la donna e non veggendo cosa alcuna per la sua persona, la quale avesse a dare ad alcuno indizio di veleno, volle mostrare di compire ogni ufficio di amorevole marito. Per la qual cosa fece egli chiamare quanti medici erano in Siviglia, i quali venuti e usati tutti quegli argomenti che loro parvero atti a far risentire persona viva, e ritrovandola pure immobile e insensibile, giudicarono ch’ella da subita morte fusse stata occupata, e per morta la lasciarono. A questa loro risoluzione, benché fra sé ne fosse lietissimo, Consalvo fìnse nondimeno di sentirne estrema dolore. E pareva che non volesse più vivere morta la moglie. Siché fece chiamare i parenti della donna e con loro si dolse infinitamente del caso avenuto, e poscia fece apparecchiare belle e orrevoli essequie e la fè con molta pompa seppellire in uno avello ch’avea Consalvo fuori della terra, nel cimitero de frati dell’osservanza.
Lo scolare, che il luogo molto bene sapeva, e aveva in contado una sua casa non molto lontana a quella chiesa, se n’era la sera gito fuori di Siviglia, e la notte, quando tempo gli parve, pigliata con esso lui una lanterna cieca all’avello se n’andò, e perché egli era giovane e di buon nerbo, avendo portate con seco alcune cose atte a potere levar la pietra che chiudeva il sepolcro, l’aperse, e entrato in esso si recò la donna in braccio, la quale, essendo già finita la forza della polve, si risentì tosto che egli la mosse. E veggendosi ella ivi tra stracci e ossa di morti e vestita come se morta fosse: “Ohimè, misera me!” Disse, “ove son’io? chi mi ha, dolente me, qui messa?” “Il vostro infedele marito,” rispose lo scolare. “Il quale avelenatavi, per pigliarsi Aselgia per moglie, vi ha fatta qui sepellire. E son’io qui venuto, mosso a compassion della vostra sciagura, co’ remedi opportuni, per vedere, s’io poteva richiamare la vostra felice anima agli usati uffici, e, quando ciò non avessi potuto, morirmi qui a canto il vostro corpo, e lasciarlo, in questo avello, colui congiunto. Ma poscia che in questo vostro grave periglio, mi è stato di tanto favorevole il Cielo che la virtù de rimedi che fatti vi ho, hanno rattenuta la vostra gentil’anima congiunta al vostro bellissimo corpo, voglio, vita mia cara, che quinci conosciate qual sia stata la fede del vostro malvagio marito, e qual si sia la mia e qual di noi due meriti essere amato da voi.” La donna ritrovandosi in quello avello, vestita da donna morta, sì credette quanto lo scolare detto le aveva, e le parve che fosse il suo marito più d’ogn’altro misleale e crudele. E rivoltatasi allo scolare gli disse: “Risti,”che così avea nome egli, “negar non vi posso, che infedelissimo non sia il mio marito, né posso non confessare, che voi non siate amorevolissimo. E forza mi è dire, poi che, misera me, in questo luogo tra morti e da morta vestita, mi veggio, che io conosco la vita da voi. Ma perché, se il mio marito mi ha rotta la fede, io però intera ho serbata, e serbo la mia. Se volete che questo vostro pietoso e amorevole ufficio mi sia caro e cara mi sia la vita che data mi avete, vi prego che vogliate avere raccomandata l’onestà mia, e non vogliate, coll’usarmi atto villano (la qual cosa non mi posso pensare che mi debba avenir mai da tanta cortesia) far meno lodevole questo vostro cortese atto, il quale, ponendo voi freno al concupiscibile desiderio e allo sfrenato appetito, si rimarrà il più virtuoso, e più degno di onore, che fosse mai fatto da cortese gentiluomo.” Risti volle con efficaci ragioni farle vedere che il marito non avea più in lei ragione alcuna, e che quando ve ne avesse anco, tanto era stato sozzo questo suo atto col quale le avea dato così certo pegno del mal’animo suo, che deveva essere sicura della morte qualunque volta ella gli ritornasse nelle mani. E che perciò ella non devea tenere più stima alcuna di lui, ma devea mostrarsi grata del ricevuto beneficio, e essergli tanto benigna, che ella consentisse che potesse godere il frutto delle sue fatiche. E, con queste parole, si piegò verso lei, per darle un baccio. Lo rispinse la donna, e gli disse: “Risti, se il mio marito ha sciolte, colla sua poca fede, le ragioni del matrimonio, non le ho sciolte io, né scioglierle mai voglio, in sin’ che mi durerà la vita. Dell’andargli alle mani, mi voglio appigliare al vostro consiglio, non perché non vi andassi volentieri, quando lo potessi ritrovar di miglior pensiero, ma per non incorrere altra volta in così grave pericolo. Quanto a dare degno gudiderdone a questa vostra lodevole fatica, il maggiore non vi saprei io dare che restarvi eternamente obligata, e se questo vi basta, mi resterò in questa mia angoscia tanto contenta, quanto comporta il misero stato in ch’io mi ritrovo ora. Ma, se voi forse voleste che la perdita dell’onestà mia vi devesse esser mercede, uscite, vi prego, di questa sepoltura, e chiudetemici dentro, che io voglio più tosto ricever morte dalla crudeltà del marito mio, con salvezza del mio onore, che da tale pietà aver la vita colla perdita della mia pudicizia.” Conobbe a tali parole il liberatore della Agata la sua bontà, e posto che gli fosse grave di ritrovarla di così fedele e fermo animo, che né la morte istessa le potea far mutar pensiero, pure, avisandosi che il tempo potesse vincere il proposito della donna, le rispose che rimanea contento di vederla de sì buon animo, e che perciò egli non voleva altro da lei che quello ch’ella gli volea dare. E con queste parole la trasse della sepoltura e la condusse a casa sua. E raccomandolla ad una sua vecchia, e se ne ritornò in Siviglia. Lasciando la cura a quella donna di disporre l’Agata ad essergli piacevole. Consalvo, dopo alcuni giorni, mostrando di non poter star senza donna, si prese Aselgia per moglie. La qual cosa parve molto strana a’ parenti di Agata. E se ne stettero tutti coll’animo sospeso.
Standosi Consalvo colla nuova mogliera, gli avenne quello con lei che a lui con Agata era avenuto. Però che, essendo costei usa non ad un’uomo ma alle centenaia e a vivere in quella licenza nella qual vivono le simili a lei, tenendola Consalvo con quella diligenza che gli insegnava la gran gelosia ch’egli ne aveva, le venne egli a tanta noia che no ’l poteva veder vivo, e conobbe allora Consalvo che differenza fosse fra l’amore di onesta donna e di una meretrice. Dicendole adunque Consalvo del poco amore ch’egli conosceva in lei, e rispondendogli ella orgoliosamente, venne in tanto furore ch’egli le disse: “Scelerata, per godermi te, ho avelenata Agata ch’era la più amorevole donna che mai per matrimonio si congiungesse ad uomo, e il guiderdone che me ne vuoi rendere è il dimostrarmiti tuttavia più dispettosa e più spiacevole.” Aselgia ciò inteso si vide aver ritrovata la via da sciogliersi da Consalvo. Per la qual cosa indusse un suo drudo[3] a rivelare a’ parenti di Agata, che il marito avelenata l’aveva. Essi, che di ciò aveano avuto qualche sospetto, ciò inteso, andarono al podestà e gli fecero a sapere quanto colui aveva lor detto. Il podestà di subito fè prendere Consalvo e la Meretrice, per intendere la verità del fatto.
La vecchia in questo mezzo ch’era con Agata, non mancava di tentarla continuamente, per indurla a compiacere allo scolare che liberata l’aveva. Ma non potendo Agata tollerare quella molestia, disse un giorno alla vecchia: “Dite a Risti, che alla sepoltura mi torni, ch’ivi minor noia mi fie morirmi che rimovermi in questa seccagine[4].” La qual cosa intendendo lo scolare, aveva deliberato di venire alla forza, poiché né benefìcio ricevuto, né preghi, né niuna altra cosa potea far mutare pensiero ad Agata.
In questo tempo confessò Consalvo avere avelenata la moglie con veleno ch’egli avea tenuto molti anni in casa (che in ciò egli mantenne la fede allo scolare) e per ciò fu condannato alla morte. La qual cosa fu carissima a Risti, perché egli si pensò che morendo il marito, egli si rimarrebbe della donna signore.
Venne il giorno nel quale deveva essere tagliata la testa a Consalvo, e, ciò pervennuto alle orecchie di Agata, si deliberò ella di voler far vedere al suo misleal marito, in questo estremo, quanta fosse la sua fede. E, uscitasi incontanente[5] di casa di Risti, con tosto passo, alla città se n’andò, ed entrata in corte del podestà, gli si fece innanzi e gli disse: “Messere, Consalvo è da voi ingiustamente dannato a morte, perché non è vero che la sua moglie uccisa egli abbia, anzi è ella viva. E io son essa, però non lasciate che proceda più oltre la sentenza data da voi, essendo ella, come chiaramente potete vedere, ingiustissima.” A queste parole il podestà, che la teneva morta, rimase come fuori di sè, e non la potè mirar senza qualche ribrezzo, pensandosi di vedere non una donna viva, ma una fantasima, però ch’ella era in abito dimesso e molto afflitta per lo grave affanno che la premeva, per lo caso avenuto prima a sè, poscia al marito.
Fra questo tempo i sergenti condussero Consalvo avanti al podestà, acciocch’egli, secondo il costume di quel luogo, commettesse a sergenti che il menassino alla morte. Ma non fu si tosto Consalvo veduto da Agata ch’ella colle lagrime su gli occhi, a braccia aperte, lo corse ad abbracciare, e, pendendogli dal collo, gli disse: “Ahi marito mio, ove vi veggo io, per la vostra follia, condutto? Eccovi la vostra Agata, non morta no, ma (la Dio mercè) viva, la quale vi si vuole, anco in questo punto, mostrare quella mogliera ch’ella sempre vi è stata.” Il podestà, ciò veggendo, lo fece subito sapere al Signore. Il quale, pieno di grandissima maraviglia, e ciò a gran pena credendo, si fè condurre dinanzi Consalvo e la moglie, e volle sapere come ciò si fosse che essendo stata sepolta per morta Agata, ella ivi si ritrovasse viva. Consalvo non sapeva che si dire altro, se non ch’egli, per l’amore che ad Aselgia portava, avelenata aveva la moglie, ma, come ella si fosse ritornata viva, e ivi si ritrovasse, non ne sapea dir cosa alcuna. Ma la donna gli disse come lo scolare con suoi argomenti l’avea liberata dalla morte, ma come ciò si avesse egli fatto, non sapeva ella dire. Il Signore, fatto venire Risti, intese come, invece di veleno, egli la polve allopiata data gli aveva, per lo singolare amore ch’egli portava alla donna, e vi soggiunse, che, quantunque la donna avesse veduta la crudeltà del marito, ed egli levata l’avesse dalla morte, non avea però mai potuto rimoverla dal fermo proposito di conservare colla sua onestà la fede al marito. Conobbe il Signore che in donna onesta può molto più il rispetto dell’onore che tutte le ingiurie, e commendò molto l’astuzia di Risti, e la fede, e l’amor della donna. E voltatosi poscia verso Consalvo, gli disse: “Non meritavi così fatta mogliere, e sarebbe ben degno, ch’ella più tosto di Risti si fosse, che tua, né meriteresti, ancora ch’ella sia viva, minor pena che quella che apparecchiata ti s’era, però che, in quanto a te, hai questa gentilissima donna uccisa. Ma voglio che di tanto giovamento ti sia la bontà e la fede della moglie tua che tu te ne rimanga vivo, non per te, che no l’ meriti, ma per non dare a lei quell’affanno che so ch’ella avrebbe della tua morte. Ma ti giuro bene, che se mai mi venirà alle orecchie che tu meno che amorevolmente la tratti, ti farò provare quanto io sappia punire così fatti delitti.” Consalvo, imputando al suo poco conoscimento ciò ch’egli aveva fatto, tanto promise al Signore di fare quanto egli gli aveva imposto. E, qui fatto fine, lasciò Consalvo la meretrice, che egli per moglie si avea presa, e si visse in pace con Agata, la constanza della quale fè che ove Risti per l’adietro per la sua beltà l’aveva amata, egli per lo inanzi per la sua onestà quasi come santa l’adorasse, parendogli che maggior bontà e maggior fede non si potesse ritrovare in mortal donna.
[1] Ròba 1 sf. Proprietà, sostanze, complesso di beni mobili e immobili, ricchezza. Anche: l’insieme dei mezzi di sostentamento
[2] 7. Figur. Carico oneroso di impegni, di preoccupazioni, di pene; incombenza o compito gravoso; condi
zione esistenziale ingrata e faticosa.
[3] Drudo, sm. (femm. -a). Chi è fedele nell’amicizia, nell’amore; amico, amante, innamorato.
[4] Seccàggine (secàggine, secàgine, seccàgine), 4. Figur. Seccatura, fastidio, noia causata da una persona insistente o insolente, da una situazione incresciosa, da azioni monotone e ripetitive (e la causa stessa di tale fastidio).
[5] Incontanènte (ant. incontenènte, incontinènte, incontinènti, in continènte), avv. Ant. e letter.
Subito, immediatamente; senza indugio, senza esitazione; all’istante.