LA ADRIANA
TRAGEDIA NOVA
Di Luigi Groto Cieco d’Adria
In Vinegia, Appresso Domenico Farri
MDLXXVIII
Luigi Groto Cieco d’Adria all’illustrissimo San Paolo Tiepolo riformator dello Studio di Padova, e Procurator di San Marco
Il più savio consiglio che possa cader nel petto d’un padre è il non tenersi lungo spazio in casa le figliuole giovani, ma subito che son mature alle nozze, sgravarsene, e collocarle il meglio che può. Questo avviso avendo io dagli altrui essempii apparato e apunto da questa tragedia stessa, l’ho osservato in questa tragedia medesima. E battendo risoluto di collocarla, ho proposto meco di offerirla a Vostra Signoria lllustrissima per tre cagioni: per merito suo, per beneficio dell’opera, e per interesso mio. Il merito suo è tanto, che merita dominio sovra le fanciulle reali, come è questa. Merito, che quando il mio intelletto era gravido di questa fanciulla, pria che la partorisse, disegnasse donargliela. E meriterebbe che se le muse proprie, se Apollo medesimo proponesser di scrivere, le donasser gli scritti loro. Il beneficio dell’opera sarà tale, che ella ne diverrà più pregiata, più dolce, più sicura, più alta, e al fine immortale. Le mani di Vostra Signoria tengono della virtù di Mida. La sua bocca serba in parte la qualità delle pecchie. Onde quest’opera di piombo e d’assenzio ricevuta dalle sue mani, proferita dalla sua bocca, diventerà d’oro e di mèle. La Natura, poi che ha prodotto i frutti sugli alberi, intendendo l’acerbità loro, gli spiega al sole, accioché maturati da quel raggio celeste piacciano al gusto. Io, la natura imitando, volgo questo mio frutto acerbo al sole della vostra virtù. Colui che non vuole udire il gracchiar notturno delle rane in un lago, vi fa comparir la notte nel mezo un lume. Io, per acquetar qualunque mormoratore pensasse biasimar questa mia fatica, li pongo avanti gli occhi lo splendore del vostro nome. Le cerve cacciate, non potendo in altra guisa involarsi ai denti de’ cani, rifuggono all’uomo. Questa mia figlia, quasi tenera cerva, per ischifare i morsi de maligni laceratori degli altrui scritti, in mansueto gesto accomanda sé stessa alla virtuosa umanità di Vostra Signoria Clarissima. Le rondini, per campare i figli da tutti gli altri animali, eleggono nelle nostre case le più alte travi, a cui sospendono i nidi. Io, per campar questo mio parto da qualunque fiera il pensasse offendere, lo appendo al vostro altissimo nome. Il prencipe di Scozia, poi che ebbe ornato quel pino dell’armi da lui raccolte, stimò d’assicurarlo maravigliosamente col titolo, che diceva Armatura d’Orlando Paladino. E a me parrà d’avere assicurato quell’opera col nome di Vostra Signoria Eccellentissima in fronte. Metabo, re de\\\\\\\' Volschi, per liberar la pargoletta figliuola da ogni pericolo, la dedicò alla sorella del Sole. Io, che non men amo la mia Adriana, che quel re sì amasse la sua Camilla, con accorto consiglio la dedico a Vostra Signoria Clarissima. Le statue d’ariento, o di cera, mentre prattican nelle botteghe degli artefici lor genitori, son mosse e maneggiate da tutti, ma poi che l’altrui voto le appende a qualche religiosa altezza, niuno le move più. Cotal privilegio attendo io da questa dedicatura a questo mio parto. Tanto fu il saper di Pitagora, che niuno ripugnava al parere approvato da lui per vero. Tanta fu l’autorità del favoloso Giove presso i Gentili, che niuno contradiceva a cosa commandata da lui per buona. Cotal ventura sentirà la mia opera col testimonio onorato di Vostra Signoria Illustrissima, piena d’autorità e di sapere. La Natura, quanto più profonda il piè dell’albero verso il centro, tanto più leva la sua chioma poi verso il cielo. E io, quanto più conosco il mio parto umile nello stile, tanto più cerco renderlo alto nella dedicatura. Prometeo, poi che ebbe formato quella sua effigie di terra, bramoso di darle vita, la appressò al sole. Opi, quando ebbe partorito Giove; accioché non fosse divorato dal tempo, figurato in Saturno, il diede in guardia ai Cureti. Giove, poi che fu nato Ercole, per farlo immortale, lo appese al petto della lattante Giunone. E io, vago di procacciar vita, e una vita trionfatrice del tempo, ed emula della immortalità a questa mia figlia la appresso, la dò in guardia, e la appendo a Vostra Signoria Eccellentissima. Siché, se questa mia Adriana cederà alla mia Dalida sua sorella nella primogenitura, ad Altea nell’antichità della istoria, a Canace nell’eccellenza dell’autore, a Cleopatra nella illustrezza delle persone, a Gismonda nella nobiltà dello Scrittore dalle cui novelle è tradotta. Ad Orbech ne’ discorsi morali, a Rosimonda nella brevità, a Sofonisba nella novità dello stile, alle figliuole di Sofocle nell’arte, a quelle di Euripide negli affetti, e a quelle di Seneca nelle sentenze, non cederà ad alcuna nella dignità della persona a cui si consacra. L’interesse mio fia sì grande che io locando in tal parte il mio parto, acquisterò nome di savio, quale acquista il cocodrilo, mentre conduce l’uova sì in alto, che non vi giungon l’acque del Nilo. E se io sarò conosciuto sciocchissimo nel comporre, sarò almen riputato accortissimo nel dedicare. Rammentisi dunque Vostra Magnificenza Clarissima, che le rose e gli usignuoli (ancorché nascano tra le più incolte spine) son però graditi da ciascun sesso e ciascuna età. E con questa mente gradisca questa mia tragedia intitolata Adriana. Parte dalla principessa introdottavi, parte dalla mia patria (percioché fabricando questi miei cittadini sontuosi palagi, né potendo la mia povertà fabricar, fuor che una picciola casa, né cedendo io lor di grandezza d’animo, ho statuito rinovar tutta intera la patria mia nell’antica eccellenza in cui già fioriva) parte da più secreta cagione intesa da pochi, pur intesa da alcuno. Ma udiamo ormai la Adriana. Così fosse questa eloquente come quella per cui è allevata, e quella fosse stata pietosa e fedele come questa in cui è rinata, fosse questa bella come quella e quella mia come questa.
Di Adria, il dì 2 di novembre.
MDLXXVlll.
Persone che parlano.
Adriana, infanta.
Nutrice.
Orontea.
Messo.
Coro di Gentildonne adriane.
Latino, prencipe.
Atrio, re.
Mago.
Consigliere.
Gentildonna.
Semicoro di sacerdoti.
La Scena è in Adria, l\\\\\\\'antica.
PROLOGO
Se mai tragedia agli occhi vostri offerta,
Indi pietoso umor per forza irasse,
Propizii spettatori, questa, ch’oggi
Viene a farvi di sé dolente mostra
5 Può trar dal petto vostro e dale ciglia
Un’Etna di sospiri e un Mar di pianto.
Tra per l’autor ch’a voi la ordisce e trama,
Pien a ogni oscuro, e tragico accidente,
Che chiusi avendo in nube eterna gli occhi,
10 Meravigia non è, s’eterna pioggia
Di lacrime ne sparge e altrui le move.
E per color che ’n lei vanno introdotti,
I più fedeli e più infelici amanti
che trafigesse mai lo stral d’Amore,
15 Anzi d’Amor non già ma stral di Morte.
E al fin per la città, dove s’adempie
La mestissima istoria. Poiché questa
È la vostra città d’Adria. Non quella
Ch’oggi mirate, ma quell’Adria antica
20 Che mandò il nome a quell’ingrato Mare
Che ’n guiderdone a lei tolse la vita
Allor ch’ella ridea nel più bel fiore,
E con le mura spaziose, ed alte
Sembrava di volersi infra le braccia
25 Stringer il mondo e sostener il cielo.
Dove or contrita in trita (e ita a l’aure
In preda) poca e lacrimosa polve
(O quanto può questo girar di tempo)
Piange il suo grave danno in grembo a l’acque,
30 E l’acque, e ’l danno accresce a sé col pianto.
E qual fosse la sua prima grandezza,
Sol ponno ora insegnar le sue ruine.
Anzi già le ruine ancora sono
Ruinate e perdute. E d’Adria il nome
35 Su alle umili, e con umide penne,
A pena s’alza sovra le paludi
Dela cittate a sé stessa sepolcro.
E dove prima le carrette altere
Velocissimamente solean correre
40 Or navi incedon tarde a remi lenti.
E i lochi, dove le feconde spose
Degli olmi già porgeano a lor coltori
Il dolce latte e le cortesi braccia
E del suo biondo crin fea Cerer copia
45 Stann’oggi armati di nodose canne.
Dove pascean le gregge, il pesce or pasce.
Dove solcò l’aratro, or solca il remo.
Questo pensier nel pensier vostro impresso
De’ movervi a pietà di questi amanti,
50 Che però per sé stessi anco pon farlo.
Anzi fu dolce il giogo, il qual congiunse
La reina del Rodope al nipote
D’Egeo. Bench’egli assai soffra, vedendo
Morta colei che lui soccorse; ed ella
55 Da speme sciolta, e a duro laccio avvinta,
Amandolo, in amandolo si muti.
Con lieto auspicio il frigio Enea s’unìo
A la sidonia vedova reina
Bench’ella avesse dal crudel pietoso
60 La cagione e la spada onde s’uccise,
Ed ei fuggisse il certo, e ricercando
Lo incerto andasse infino ai regni bui.
Giocondo fu lo indissolubil nodo
Con cui Piramo e Tisbe accoppiar l’alme,
65 Come accoppiate avean le mura e i tetti;
E come i padri avean disgiunti i cori.
Benché come un medesmo stral d’Amore
Li trafisse, così fosser trafitti
Da una spada medesima ancor di morte.
70 Sotto felice sella Ero e Leandro
Malgrado di quel mar che tien l’Europa
Divise e l’Asia, giunser l’alme e i corpi.
Quandunque come gli arse un foco stesso
Li sommergesse una medesim’onda.
75 Rispetto ale funeste, oscure faci,
Con cui si maritar gli amanti ch’oggi
vi mostrerà l’apparecchiata scena.
La cui istoria, scritta in duri marmi
(Ma men duri però dela lor fede)
80 Trovò l’autor, con queste note chiusa:
“A te che troverai dopo tanti anni
la scoltura di questo acerbo caso
Si commette che tu debbi disporlo
In guisa che rappresentar si possa.
85 Porgendo un vivo essempio in quella etate
D’un amor fido ai giovani, e ale donne.
Benché più lungo spazio ti convenga
Stringer di tempo che non porta l’uso,
Del che per iscusarti hai qui licenza
90 D’aggiungere una parte anzi il principio”.
Così dicea. Godete dunque omai
Adria, qual la godero\\\\\\\' i nostri padri.
E poiché sula porta del palagio
Con la nutrice sua, veggio Adriana,
A lei volgete l’animo e la faccia.
IL FINE DEL PROLOGO.
[1.1]
Adriana, Nutrice
ADRIANA
Riguarda atorno ben, cara nutrice,
S’alcun vedi, onde possa esser raccolto
Il nostro ragionar.
NUTRICE Siam sole affatto.
5 Che, come sai, col re Atrio tuo padre
Son tutti quei che maneggiar ponn’arme
Contra nemici nostri usciti in campo
Oggi fuor dele porte ala giornata.
E poi con Orontea tua genitrice
10 Tutte salite son le gentildonne
Dela gran rocca ala più alta ampiezza,
Per mirar di là su qual fin sortisca
L’aspra battaglia, e a lor parenti armati
Forze aggiunger co’ voti e con la vista.
ADRIANA
15 Vorrei depositar ne’ tuoi orecchi
Il profondo tesor d’un mio secreto.
E che mi promettessi di guardarlo
Sotto chiavi di fede e di silenzio.
NUTRICE
Come di te depositarie fide
20 Fur queste braccia così fia il mio petto
De’ tuoi pensier. Sì ch’ io lascierò trarmi
Pria la lingua di bocca o il cor del seno,
Che da questa o da quella il tuo secreto.
ADRIANA
Ahimè, che a palesarti quanto feci,
25 Di vergogna mi sento arder la faccia.
NUTRICE
Non convien, figlia, vergognarsi a dire
Quel che non s’ebbe ad operar vergogna.
Ma il segno non è rio che quando luce
Qualche favilla dentro al cener freddo,
30 V’è speme ancor di risvegliarvi il foco.
ADRIANA
Tu sai che varie nimicizie antiche
Sparser semi di guerra tra Mezenzio
Re di Lazio, e mio padre, re di questo
Nobil paese d’Adria. Onde colui
35 Qua venne a stringer la bell’Adria nostra
Di duro assedio e numerose schiere,
E a far prova di prenderla con l’arme;
E la preme e la oppugna or più che mai.
NUTRICE
Così nol sapess’io. Così partita
40 Foss’io dal mondo, pria che ’l re crudele
Fosse giunto a guastar questo bel regno.
ADRIANA
Il dì ch’ei con l’essercito qua giunse,
Desio mi nacque di salire al sommo
Dela gran torre, ov’or mia madre ascese,
45 onde si scopre a molte miglia in giro,
Per indi rimirar le squadre armate
Spiegarsi e accamparsi ala campagna.
Così in mal punto senza te v’ascesi.
NUTRICE
Cader non può se non colui ch’ascende.
50 La saetta celeste altro non tocca
Per lo più, che materia alzata ad alto.
ADRIANA
Ahimè, che ’l tuo parlar purtroppo è vero.
Così salita, vidi. Ahimè, che vidi?
Vidi quel che’l veder poscia mi tolse.
55 Così stata foss’io circa quel giorno
Che la parte più lucida del corpo
Trae spesso, a quel ch’io veggio, in notte l’alma.
NUTRICE
Non rileva, che sian cieche le luci,
Ma che cieca non voglia esser la mente.
60 Or’ dimmi apertamente, che vedesti?
ADRIANA
Io vidi il primo e l’ultimo mio male.
NUTRICE
Ahimè, ch’io tremo. E che mal fu cotesto?
ADRIANA
Fu il mio male un piacer senza allegrezza,
Un voler che si stringe, ancorché punga.
65 Un pensiner che si nutre, ancorché ancida.
Un’affanno che’l ciel dà per riposo.
Un ben supremo, fonte d’ogni male.
Un male estremo, d’ogni ben radice.
Una piaga mortal, che mi fec’io.
70 Un laccio d’or dov’io stessa m’avvinsi.
Un velen grato, ch’io bene per gli occhi.
Giunto un finire e un cominciar di vita.
Una febre, che’l gelo e’l caldo mesce.
Un fèl più dolce assai che mèle o manna.
75 Un bel foco che strugge e non risolve.
Un giogo insopportabile e leggiero.
Una pena felice, un dolor caro.
Una morte immortal piena di vita.
Un’inferno che sembra il paradiso.
NUTRICE
75 Il gir per tòrte e disusate strade,
scopre una conscienza che non osa
Apparir ne la via publica, aperta.
Tu sei innamorata a quel ch’io intendo.
ADRIANA
L’hai detto tu, non io. Né sai mentire.
80 Era Amor ne l’essercito e fu ’l primo
A dar solo l’assalto alla cittade.
Mi saettò da lungi, ancorché cieco,
E la più alta parte dela rocca
Prese quel giorno a colpi di saette.
NUTRICE
85 Rocca guardata mal, facil si perde.
Ahimè, che questa novità m’ha morta.
Piaccia a Dio ch’erri la presaga mente.
Or segui, donde trasse Amor gli strali?
ADRIANA
Visto mi venne il prencipe Latino,
90 A l’arme conosciuto e ad altri segni
Figlio del Re Merenzio, tutto armato
Dal capo in fuori.
NUTRICE Era scoperta solo
Quella parte che offender ti potea.
Ma tu, per tua sciocchezza disarmata
95 Con armato guerrier gisti in battaglia.
ADRIANA
Che le schiere ordinava.
NUTRICE E tu le tue
Lasciasti al’or disordinate e sparse.
ADRIANA
Per la lunga fatica avea le guancie
100 Accese in vive fiamme.
NUTRICE E tu nel petto
Le ricevesti.
ADRIANA E un bel destrier superbo
Con gli sproni e col fren, facea far prove,
105 Qua mai non fecer Cillaro o Pegaso.
E al cor mio freno, e sproni al mio desire,
Strinse in quel punto.
NUTRICE Ohimè come ti perdo
O cieca diligenza de’ mortali,
110 Che sotto chiavi tien chiuso l’argento,
E le figlie donzelle a freno sciolto
Lascia vagar senza custode alcuno.
ADRIANA
Dapoi che lungo spazio contemplato
L’ebbi, cacciata dalla notte, scesi
115 Non qual salii. Portai legato il core.
NUTRICE
Chi sé stissa legò, scioglier si puote.
ADRIANA
Colmi gli occhi portai di novo pianto.
NUTRICE
Se commiser l’error, soffran la pena.
ADRIANA
Da indi in poi; né dì, né notte alberga.
120 In queste luci breve oncia di sonno
NUTRICE
Pur che’n te la ragion troppo non dorma.
E io credea che per la patria fossi
Tanto ansiosa. O come un vizio brutto
sotto vel di virtù spesso s’asconde.
ADRIANA
125 Spinta al fin dal desio, presi partito
Di far palese al Prencipe il cor mio,
Vedendomene offrir l’occasione.
NUTRICE
Così, non ti bastò rimaner vinta
Se te per vinta ancor non confessavi.
ADRIANA
130 Tu conosci il gran mago e sacerdote
Della Luna, alto mastro in più scienze,
Curvo dal peso del senno e degli anni,
Che già venne di Persia a questo regno
Ma stette prima in Lazio alquanto tempo,
135 E ’l palagio real visita spesso.
Che talor con mia madre e talor meco
Ragiona solo, e solo ha libertate
D’uscire al campo a parlar con nemici
E tornar dentro. A costui dunque apersi,
140 Provocata però prima da lui,
Loqual dicea che’n ciò stava la pace,
Il mio concetto. Ed egli mi promise
Di rivelarlo al principe, e lo fece.
NUTRICE
Destati, o padre, a guardia di tue figlie,
145 A non fidarti d’uom d’alcuna etade,
A non fidarti pur di te medesimo.
La paglia è sempre paglia, il foco, foco.
Il qual conviene, o che arda o almen che tinga.
Or qual ti riportò costui risposta?
ADRIANA
150 Che avea trovato il prencipe disposto
Non men di me. Che quel medesmo giorno
Mirandomi nel’alto del castello,
Era per me caduto in fiamme pari.
NUTRICE
Vorrei che avesse anzi trovato ghiaccio.
155 Temo coteste riscontrate fiamme
Non adducano incendio troppo grande.
ADRIANA
Tosto il mago col Prencipe compose
che ne venisse a me nella cittade.
E oprò con un di quei ch’hanno le chiavi
160 Con cui s’aprono e chiudono le porte,
che introducesse il prencipe la notte,
ma sconosciuto e in abito de’ nostri,
Pur che venisse sol col brando solo,
A un’ora ferma e ’l rimandasse a l’alba.
NUTRICE
165 So che tutti al tuo mal venner concordi.
Ma purché tal concordia non produca
Discordia grave. E tu vi acconsentisti?
ADRIANA
E che potev’io far, s’era conchiuso
Già quando fui richiesta del mio voto?
170 Se non vivo io ma vive in me colui
ch’io amo più di me? S’io non favello,
Ma in me favella Amor qual Febo in quelli
Che gli oracoli altrui rendono in Delfo?
Io fui contenta.
175 NUTRICE Ben contenta fui,
Dicesti, che or non sei forse. E se or sei,
Non sarai forse lungamente.
ADRIANA Taci,
Di grazia, e annunzii non mi far sì tristi.
180 Nella cittade il principe introdotto.
Indi a due notti o tre
NUTRICE So che il consiglio
Del mal noto non và quando si cova.
ADRIANA
Le porte entrò del mio giardino
185 NUTRICE Ahi lassa,
Pur che più adentro ancor non s’introduca.
ADRIANA
E quivi mi trovò fra i fiori e l’erbe.
NUTRICE
E non fuggisti allor l’orribil serpe?
ADRIANA
Chi può fuggir il cor, la vita, e l’alma?
190 Cominciommi a parlar si dolcemente,
che così non parlò mai lingua umana
NUTRICE
Dolcissimo è il cantar delle sirene.
ADRIANA
A’ piedi mi cadeo per adorarmi.
NUTRICE
Come viva Pantera, o volpe cade.
ADRIANA
195 Tutto diede sé stesso in mio domino.
NUTRICE
Così fe’ Giove, o semplicetta Europa,
ADRIANA
Sovente sparse un copioso pianto.
NUTRICE
Rompon dai duri sassi le fontane.
ADRIANA
Più volte sospirò sospir di foco.
NUTRICE
200 Da le più fredde felci il foco è tratto,
ADRIANA
M’astrinse la sua fe’, quanto si puote.
NUTRICE
Vi diè la fe’ che dar suole un nemico.
ADRIANA
Testimonii chiamò Giove e Giunone.
NUTRICE
Testimonii che irar non lice in prova.
ADRIANA
205 Giurò quanti altri dei vivono in cielo.
NUTRICE
Chi giura assai, sa che di fede è indegno,
ADRIANA
La morte s’augurò, se mi tradiva.
NUTRICE
S’augurò quel che ognun di noi aspetta.
ADRIANA
Le man mi prese e le sposò d’anella.
NUTRICE
210 Ciò sposarle non fu, ma fu legarle.
ADRIANA
Ecco l’anel che mi lasciò per arra.
NUTRICE
Anzi per premio di quanto ebbe, forse.
ADRIANA
L’oro mostra un amor fino e perfetto.
NUTRICE
L’oro dice: “Così Danae fu vinta”.
ADRIANA
215 Mostra il ritondo amor che non ha fine.
NUTRICE
Cosi vuol dir, principio unqua non ebbe.
ADRIANA
Mostra il diamante inviolata fede.
NUTRICE
Mostra il diamante indomita durezza.
ADRIANA
E con le braccia al fin mi cinse il collo.
NUTRICE
220 Fu l’ultima catena onde t’avvinse.
ADRIANA
Poi mi baciò, come sua cara sposa.
NUTRICE
T’avvelenò, qual Lotofago o Circe.
ADRIANA
Così di me si prese ogni possesso,
Salva la castità che ancor mi serbo.
225 Così continuando, a ritrovarmi
ogni sera ne viene cheto cheto.
NUTRICE
E che segno ti dà, quand’egli viene?
ADRIANA
Io discendo ogni sera all’ora usata
Nel giardino a veder s’anco è venuto.
230 E chi prima vi giunge attende l’altro.
NUTRICE
Qual padre mai, qual madre, o qual marito
Può promettersi figlia o sposa casta,
S’io che costei sempre accompagno e guardo,
Così da lei schernita oggi mi trovo?
235 Chi menavi compagna a cotest’opre?
ADRIANA
La cameriera mia, morta stamane,
Caduto sopra lei l’arco di pietra
Che parte sostenea de’ nostri tetti.
NUTRICE
Così foss’ella morta molto prima.
ADRIANA
240 Ora fidar non mi volendo d’altri
A parte chiamo te del mio secreto.
NUTRICE
Non di secreto più, ma di periglio.
ADRIANA
E perché il tuo consiglio anco mi porga.
NUTRICE
Vano è chiamare il fisico o il chirurgo
245 Quando l’infermo ha già spirato l’alma.
ADRIANA
Tanto ci resta ancor, cara Nutrice,
Che ben potrà cader sotto consulta.
Tu, che sì spesso allor ch’io pargoletta
stava per traboccar, man mi porgesti;
250 Porgimi ora consiglio, ond’io non cada.
NUTRICE
Sovra il passato non si dà consiglio.
ADRIANA
Dallo su l’avenir, che così chieggio.
NUTRICE
Persuaso voler non si consiglia.
ADRIANA
Nova farò forse a me stessa forza.
NUTRICE
255 Dico che tu commetti un grave fallo
Contra dio la cui mente è che rendiamo
Ubbidienza a quei che ne dier\\\\\\\' vita.
Contra la nobiltà del regio sangue,
Che te produsse in così chiaro lume
260 E da te prenderà la prima macchia.
E il peccato è maggior tanto più chiaro,
Quanto è più chiaro ed è maggior chi pecca.
Contra il padre e il fratel, cui soli tocca
Darti la dote e sceglierti lo sposo.
265 Contra te stessa, che su’l gioco arrischi
L’onore, il qual perdendosi una volta,
Non mai più, non più mai può ricovrarsi.
Rese Esculapio a Ippolito la vita.
A Pelope li dei. Ma a donna mai
270 La perduta onestà non rese alcuno.
E non ti scusi amor che amore ha solo
Quanto il nostro voler gli allarga impero.
Credi, figlia, che un giovane in cui more
L’Amor qual foco di paglia, un nemico,
275 Ch’altro non può bramar, che tua vergogna.
Un prencipe, ch’altrui forza non teme.
Un figlio posto in potestà del padre,
Poi ch’abbia spento quell’ardente sete
che’l cor gli accese a la stagion più verde,
280 Servar debba a una femina la fede?
Mal credi, se ciò credi, e se ti fidi
Ch’egli è signor; ricordati che a punto
Sembra al’ora al signor d’esser signore,
Quando può la sua fe’ dare e ritorsi.
285 Promessa fatta a forza non ha forza.
Egli quasi prigion’ ne la tua terra,
Anzi prigion dela bellezza tua,
Non per molto osservar, molto proferse.
Ma per molto impetrar, molto promise.
290 E pur che seco goda il suo diletto,
Né si diletti palesarlo al mondo.
E quando la promessa non ti attenga;
Con chi osa sarai farne querela?
Cui chiederai soccorso, o almen vendetta?
295 La tua nutrice potrà pianger teco,
Il mago consolarti, e il portinaio
Andarti publicando per infame.
Ch’esser non può che anch’ei non sappia il tutto.
Ma se dai segni uscendo, ti lasciasse
300 Non pur macchiata, ma col ventre grave?
Ricordati, Adriana, d’Adrianna,
Che col nome non segua anco la sorte.
La qual, poiché tradito ebbe il fratello,
Tradita fu per premio dallo sposo.
305 Poi che tratto ebbe lui del labirinto,
Fu da lui posta in un maggior, senza altra
Speranza di poterne uscir giamai.
Ella concesse a Teseo fama e vita.
Teseo la fama a lei tolse, e per lui
310 Non istette a torle anco la vita.
Rammentati, Adriana di Medea.
La qual, poiché alo ingrato, infido Greco
Del’aurea spoglia, e dela spoglia opima
Dela sua castità fe’ doppio dono,
315 E di sé viva e del germano morto
Sprezzata al fine e spinta su dal letto
Che comprato s’avea cotanto caro.
Adriana, rimembriti di Scilla
Che, poiché al re di Creta offerta fece,
320 Dela purpurea chioma, e dela vita
Del nocchio padre, al fin da lui respinta,
E mutata in augel, soffre la pena
Dela grave da lei commessa colpa.
A noi col volo è nunzia di sereno
325 E a te sia con lo essempio consigliera.
Sovvengati di Issipile, Adriana,
Che né con la beltà, né col piacere,
Né con lo scettro, né col ventre grave
Tener valse appo sé l’ amante infido.
330 E se né per ragion, né per essempi
Ti movi, che pur mover ti devresti,
Movati almen l’autorità di questa
Vecchia, che travagliato ha tante volte
Per tuo riposo, e si spesso ha vegghiato
335 Per lo tuo sonno. Or fingi che Latino
T’ami e sia quel fedel ch’ambe vorremo.
Che sarà poi? Che né il suo padre a lui,
Né’l tuo a te lodar vorrà giamai
Coteste lor malgrado occorse nozze?
340 Veggio quel che vuoi dir, vuoi dir, che spesso
Il maritaggio è padre della pace.
Più spesso, forse, è padre della guerra.
Lo sdegno ha messo troppo alte radici.
Or con le spade in man ferman gli accordi,
345 Scrivendo ai corpi lor col sangue i patti.
Invece dela tibia maritale
Suonan le trombe, in cambio d’Imeneo
S’invoca Marte. In luoco di ghirlande
Si portan elmi, e per facelle, spade.
350 In questo assalto al fìn convien, che i nostri
O perdano, o rimangan vincitori.
Se vincitori fìan, n’andrà Latino
Cacciato quinci a gran fretta lontano,
per più non riveder queste contrade,
355 Se perderan, Merenzio fia signore.
E allora non vorrà che’l figlio sposi
Colei che avrà per prigionera e schiava.
Ma fingiamo che’l padre di Latino
A cotal parentado ancor discenda,
360 Che farà il tuo si offeso e disdegnato,
E a ragion con Merenzio, e con Latino,
E teco più, se ciò mai si sapesse?
Chi farà ardito mai fargliene motto?
Tu no. Che se’l rossor non ti accendesse,
365 Di marmo avresti, e non di carne, il viso.
Io no, che inghiottirei prima la morte,
Che mai mandassi fuor questa parola.
Altri no, per rispetto, che a tuo padre
E per odio che poi porta a’ Latini.
370 Or facciamo che sian tutti concordi.
Non pensi tu che sempre il tuo Latino
Avrà di te sospetto, avendo in mente
Quanto con lui oprasti? Onde non nuoce
Mai alla donna star dentro a\\\\\\\' suoi segni.
375 Ma per recarti più vicini effetti,
Quanti in periglio trai, cieca, non vedi.
Metti prima in periglio te medesma.
O ch’il tuo amante ti disnori e lasci
O che il padre, o il fratel ti trovi e ancida.
380 Così perda la fama e in un la vita.
Metti in periglio anco il tuo amante. Ch’egli
Trovato qui da’ tuoi, la notte solo,
Ti sia su gli occhi orribilmente ucciso.
Metti in periglio or la nutrice tua.
385 Benché se per nutrirti io diedi il latte,
Madre, la patria, e \\\\\\\'l regno. Che Latino
Trovando a suo piacer le porte aperte
Dela cittate e del giardino adduca
Seco gente con armi e contra il patto
390 Sforzi le entrate, e la città soggioghi,
Mandando allora il tutto a sacco e a sangue.
Mira quanti perigli e quanti danni
Tu sola porti e ancor non v’apri gli occhi.
Però dei alla piaga, mentre è fresca
400 Proveder con rimedii apparecchiati,
Pria che forza maggior prenda col tempo.
Lasciando al tutto il mal concetto amore,
Tenendo te nele tue regie stanze,
E lasciando Latin nele sue tende.
ADRIANA
405 O sventurata me, che dunque faccio
Quinci frenata da’ consigli tuoi,
Quindi spronata dal crudel tiranno
Ch’è amaro ed è da noi chiamato amore?
Perderò dunque la vita, e la fama?
410 Lascerò dunque il mio amator più caro
A me che l’onor mio, che la mia vita?
Per cui solo son’ io cara a me stessa?
Trarrò l’amante mio dunque in periglio?
Lascierommi morir priva di lui?
415 Porrò la mia nutrice in questa nave?
Porrò, per salvar lei, me sola in mare?
Tradisco il padre mio, donde ebbi il sangue?
Lascio il mio sposo, da cui spero il seme?
Darò la morte a chi mi dié la vita?
420 Torrò me dunque a chi mi da sé stesso?
Sprezzo chi meco ebbe commune il ventre?
Lascio chi meco avrà commune il letto?
Sprezzo colei, da le cui viscere esco?
Lascio colui, nel cui cor vivo impressa?
425 Tradirò il mio paese, dove nacqui?
Lascierò il mio signor, nel cui cor vivo?
Ahimè, che questi esserciti fan guerra
Minor d’intorno a queste belle mura,
Che al cor mio intorno i mei varii penseri.
430 Ma io, per dirti il ver, cara nutrice,
Non volea che così mi consigliassi.
Ben consigliata esser volea del modo
Che può darmi ottenuto il mio desire.
NUTRICE
Il consiglio che punge il voler nostro
435 Ne par malvagio, e quel che l’unge, buono.
Ma ciò toccava dal principio al mago.
ADRIANA
Insieme abbiam così composto ascolta:
Egli mostrando, che Latino colpa
Non abbia in questa guerra, e predicando
440 Le sue virtuti e i suoi regii costumi,
Da indi innanzi si è ingegnato sempre
Porlo in grazia a mia madre e l’ha impetrato.
Ella già l’ama e i suoi be’ modi ammira.
Fermato abbiam, quando ne paia tempo
445 A queste nozze, usar l’opra di lei.
Promette il mago ancor levar Merenzio
(Non so già con qual’arte di eloquenza)
Oggi dal fatto d’arme, anzi, che’n tutto
Non sia battaglia più tra questi regni.
450 Far che Merenzio vada e che Latino
Acciocché sappia ogn’or quanto qui segue,
O conosciuto o sconosciuto resti,
O in Adria, o fuor (ma ben poco lontano).
O sotto specie di trattar la pace,
455 O di fornire altro negozio fìnto,
Finché si posson maturar le nozze.
NUTRICE
Quel che quando successo ancor non fosse
Degno di biasmo e di ditsturbo fòra,
Quando è successo poi, convien lodarlo,
460 Però (poiché tant’oltre andata sei)
M’avrai seconda, ove m’avresti avversa,
se’l ritrarti o’l turbarti avesse loco,
Ma riponiam queste parole in serbo.
Ecco tua Madre, e più donne con lei.
[1.2]
Orontea, Adriana, Nutrice.
ORONTEA
Figlia, non sospirar, non han possesso
Sospiri di timor ne’ petti alteri.
Come i venti non l’han ne’ monti eccelsi
Spero, mercè del ciel, che i nostri (a cui
5 Pone arme giuste giusta causa in mano)
Fian vincitori, e gli avversarii vinti.
ADRIANA
Quel che sperar dic’ella io temer chiamo.
ORONTEA
E i capitani loro il figlio, e ’l padre
In rotta, in fuga, e forse a morte andranno.
ADRIANA
10 Dove crede assaldar, punge la piaga.
ORONTEA
E quei che ad occupar la terra nostra
Venner, l’occuperan coi corpi morti;
O via fuggendo, e nel lor Lazio ascosi,
Raddoppieranno al lor paese il nome.
ADRIANA
15 Oh dela fuga lor foss’io compagna.
ORONTEA
Pur quando il punto incerto dela guerra
cada contrario ale speranze nostre,
E del resto facciam la mano audace
Col ministerio del benigno ferro
20 Ne scioglierà di servitù e di vita.
ADRIANA
Voi volete prestar conforto altrui,
Madre, e n’avete più d’altri bisogno.
Come quegli assediati, che lanciaro
Fuor dele mura al campo de’ nimici
25 Il pane ed essi ne rimaser senza.
Scorgo ben’io le luci, scorgo il volto
Scolpirsi fuor di simulata speme
Dentro vero dolor premere il petto.
ORONTEA
E qual madre fu mai barbara, a cui,
30 Sentendosi in battaglia i suoi più cari,
Il carissimo sposo e ’l dolce figlio
A cui si teme in lieta pace ancora,
Non tremasse nel sen pauroso il core?
ADRIANA
A me duo cori aver fòra bisogno.
35 Poiché per ambedue le parti io temo.
Né so qual brami, o vincitrice o vinta.
Né se mi voglio vedova, o pupilla,
ORONTEA
Favella almen, si ch’io t’intenda, e possa
Confortarti figliuola.
40 ADRIANA Il male altrui
Mal sana infermo delo stesso male.
NUTRICE
Come vi par che segua il fatto d’arme,
Se pur il fatto d’arme è andato innanzi,
Reina? E qual successo omai possiamo
45 Questo giorno sperar dela giornata?
ORONTEA
Segno ancor non si scorge onde si possa
Ritrar certo timore o certa speme.
Il sa solo colui che sempre il seppe.
Nele cui man la vita e la salute
50 Nostra e del nostro stato io raccomando.
Deh signor degli essercitii e de’ regni,
Fa’ che i Latini, i quai nelle lor forze
Fidati a’ danni son del regno nostro,
Sian dalle forze tue cacciati e vinti.
55 Fa’ che’l sangue ch’or piove in sulla terra.
Per noi oggi produca oliva o palma.
Fa’ che queste mie man che disarmate
E al ciel devote io levo a te pregando
Oprino più che tante armate mani
60 Degli avversarii nostri combattendo
Tu, che formasti in noi gli orecchi e gl’occhi,
Odi, e vedi quel danno che n’afflige.
NUTRICE
Perché scendeste dalla rocca pria
Che si scoprisse il fin dela battaglia?
ORONTEA
65 Vinti da gran pietà questi occhi mei
Rifuggiro il mirar sì duro aspetto.
NUTRICE
Fin dove di mirar vi diede il core?
ORONTEA
Fin che appiccato il fatto d’arme vidi
D’appresso sì che più non potea sciorsi.
NUTRICE
70 Deh narratelo a noi Reina, ancora,
E gli occhi nostri sia la vostra lingua.
ADRIANA
Dite madre vi prego, che ben dirlo
Saprete voi che tanta esperienza
Del mondo avete, stata or tra le mura,
75 Or nel mare, or ne’ campi, or ne le selve,
come vi andò rotando la fortuna.
ORONTEA
Dapoi c’oggi spirar di qua dal mezo-
Dì l’oziose ferie della guerra,
E al’ora destinata alla battaglia,
80 Prefissa già tra l’uno e l’altro duce,
Marte la porta sanguinosa aperse
E poi che’l mago (quanto a me ne parve)
Fece opra con Merenzio di ritrarlo,
E da lui riportò dura ripulsa
85 Tosto tocchi tamburi ai campi intorno
Con fretta tanta, tal ribombo, e orrore
Chiamarono i pedoni, e argute trombe
Con tal tenor lontan, tanta rattezza
Getta sella sonar, tutti a cavallo,
85 A cavallo in un chiaro audace suono
Che al gran romor fremean l’aria e la terra.
E corni vivi per l’umano spirto
Pur con egual virtù, tumulto eguale
Faceano udirsi altrui con chiuso tuono,
90 Cominciar\\\' da ogni parte a uscir le genti
Trarsi appresso i cavalli, e vestir l’armi
Con espedita, infaticabil opra.
Come allor quando in aria si concipe
O del Borea, o dell’Austro un grave spirto,
95 Che prima usan confondersi le selve
E con socchiuso orror, mormorio muto,
Fischian le foglie e fremono le fronde.
Finché prende poi corso e forza il vento,
E l’animoso fiato apre e allarga,
100 Così le nostre e le avversarie schiere
Faceano, mescolandosi in sé stesse,
E ponendosi in punto alla giornata.
E noi ascese in cima all’alta torre
Sotto gli occhi avevamo ambe le squadre.
105 Le nostre, chiuse dentro la cittade
E le contrarie fuor distese al campo.
Cui rimembra d’aver veduto mai
Di qua e di là sul’una e l’altra riva
D’un fiume reso torbido e superbo
120 Da strutte nevi e da dirotte pioggie,
Che mezo colmo ponga agli occhi muro,
E stia per traboccar fuor dele sponde,
E dilagarsi o al’una, o al’altra mano,
Le ville intere starsi non volendo,
125 Che dal canto lor rompa il commun male?
Imagini costui che tale a noi
S’appresentava a una rivolta d’occhi
Lo spettacol de’ nostri e de’ nemici.
Tutti si cinser di ferrigna scorza
130 Che percorsa dal sol gittava un lume,
Che da lungi abbagliava altrui la vista.
Qual sule prime faci dela sera
La funesta cometa apparir suole
E traendosi dietro un lungo crine
135 Tinto di sangue e sfavillando foco
Scote gli scettri e turba lo corone.
Tal ne scosse e turbò l’armata luce,
Luce, che rifuggir le luci nostre.
NUTRICE
Renda tal lume a noi giorno di pace.
ORONTEA
140 Alora l’uno e l’altro capitano,
Montato in un corsier, va per lo campo,
E prevede, e provede ove bisogna
Con gli occhi, con la lingua, e con le mani.
E rammentando quanto poco sia
145 Quel che si è fatto in questo tempo per lo
Adietro, torna innanzi agli altri, alora
Còre aggiungendo, e per l’orme medesme,
Alora agli altri innanzi, torna adietro.
Raggira il campo atorno, e torna ov’era
150 Qual rondinella che al’amato nido,
Depositario de’ suoi dolci pegni,
Vede appressarsi il predatore, e mossa
Da sollecito studio, affetto pio,
O volge intorno il mal difeso parto
155 Or su, or giù per l’empia casa geme.
Non altramente il mio signore e l’altro
Faceano. E, ascesi al fine in alto poggio,
Agli esserciti lor raccolti intorno
Fecero un parlamento militare
160 Che udirsi non poteo però da noi.
NUTRICE
O rispondan gli effetti ale parole,
ORONTEA
Io mi ricordo sol che ’l mio signore
Con mano, orando, ne mostrò a soldati.
I quali intenti e taciti ascoltaro.
165 E poiché giunse al fin, lesaro un grido
Che da ogni cavo speco Eco rimise.
Gridaro “andiamo!” e “diamo!”, Eco soscrisse.
NUTRICE
Piaccia al ciel, bella ninfa, che risuoni
Così le voci dele gioie nostre.
ORONTEA
170 Come talora avvien che la villana
Adduce al tetto ceppi, pur non tolti
Dala nativa madre, ancora pieni
Le verdi membra d’amoroso succo,
E soffiando fa forza a farne foco,
175 Che fuma prima un pezzo e poi che uscito
E digesto è l’umore in un baleno
Scoppiano in chiara fiamma e ’n larga vampa.
Così le squadre udendo il mio signore
Raccolsero nel petto a poco a poco
180 Ardire e sdegno, e ’l tutto poscia a un tratto
Essalar\\\' fuori e fuor chiesero uscire.
NUTRICE
O fia il numero e’l grido al tornar pari.
ORONTEA
Tutti n’andar sotto le insegne loro
Alzate e tremolanti all’aure fresche.
185 Come al cader del Sol l’api tornando
A casa carche di sudata preda
Ciascuna si ricovra al suo ricetto,
Il Prencipe mio figlio fu lasciato
Dentro a guardia e difesa delle mura.
NUTRICE
190 Così non abbia che difender oggi.
ORONTEA
Furon tirate in ordine le schiere
Sì che alcun non uscìa fuor del suo segno,
Qual dotto agricoltor negli alti monti
Dispon le viti in disegnato quadro
195 E col compasso lor prescrive il filo,
E ad ogni pianta parte giusto l’inter-
vallo, perché lo spazio egual comparta
Della gran madre il succo al nutrimento,
La terra a le radici, e l’aria all’ombre.
NUTRICE
200 Tornin le schiere nostre in forma eguale
E l’altre sparse poi si traggan dietro.
ORONTEA
Ecco aperte le porte, et ecco fora
L’essercito a l’essercito nemico
Incontro armato d’aste, d’archi e spade.
205 Quando i Giganti per pigliar le stelle
E metter legge al ciel fatto prigione
Givan ponendo sopra monte monte
E un di lor venia di qua col Pindo
Sugli omeri pien d’arbori e di selve;
210 E l’altro li venia col Pelio incontro,
Come talor dipinti io gli ho veduti,
Potevano sembrar queste due fronti
D’esserciti che l’aste alte portando
Venivano a incontrarsi a meza strada.
215 Una nube di polve alzossi al cielo
E ’l Sole e ’l giorno chiuse a tutti gli occhi.
Indi una notte folta di saette
Ratto pendé su l’uno e l’altro campo.
La qual cessata e aperto l’aere un poco
220 Sembraro\\\' estrici allor tutti gli scudi.
L’uno da l’altro essercito lontano
Era quanto va a punto una saetta.
Ma questo tratt’a un tratto via sparire
Vedemmo e affrontate già le schiere
225 Come s’alcun duo fochi a un tempo accenda
L’uno a faccia dell’altro d’ambo i capi
Di valle che ’l valor suo tutto spenda
In folta messe d’infeconde canne.
La sparsa fiamma arde lontana alquanto
230 Ma poi tutta in un punto aggiunta in uno
Di duo, diventa in modo un foco solo,
Che l’un dal’altro più non si discerne.
Così parver gli esserciti confusi.
NUTRICE
E confusero in noi timore e speme.
ORONTEA
235 L’aste alor rupper risolute in pezzi
Che tanto verso il ciel volaro in alto
Che a pena aquila arriva a tanta altezza.
E mille per contrario uomini allora
Giù nel piano avresti visto cascare.
240 Tratte in un tratto mille spade foro
Che balenando in alto ferian mosse
Co’l taglio i corpi, e con la luce gli occhi.
E facean quell’aspetto di lontano
Che fanno in ciel le stelle o in aria i lampi
245 La siate su’l principio dela notte
Serena che rio tempo o caldo aspetti.
NUTRICE
Segua tal lampi a noi giovevol tuono.
ORONTEA
Poi che furon gli esserciti meschiati
Vedeansi varie imagini di morti
250 E di colpi s’udiva un suono eterno.
E alcune mal concordi e fioche grida
Di color che morian d’ambe le parti.
Ond’io più non potendo sostenere
L’orribil vista, me ne son partita.
NUTRICE
255 E noi per questo siam rimaste al basso.
ADRIANA
Madre, vedete di mio padre un messo
Che affrettandosi a noi dritto ne viene.
ORONTEA
Ahi, che smarrito egli mi sembra in faccia
Non è tal faccia di letizia segno.
260 E su le membra par ch’io tremi tutta.
Deh non mi abbandonar signor del cielo!
[1.3]
Messo, Orontea, Adriana, Nutrice.
MESSO
Qual fia sì crudo cor, sì ingrata lingua,
Che dar possa ala nostra gran reina
Nova tanto severa? E pur tu quello
Dei esser. Poiché ad esser ti costringe
5 L’uom che di sol costringerti ebbe forza.
Di tante grazie ch’ella m’ha impetrato
Con la sua lingua fortunata e saggia,
Mal tu le renderai, mia lingua, merto.
S’io doveva recar tal ambasciata
10 Perché non nacqui io muto? Se gran premio
Attende quel che grate nove apporta,
Qual gastigo attend’io dala reina?
ORONTEA
Non odo altro che ’l suono, e tremo a udirlo,
Di chiedere e di udir temo, e desio.
MESSO
15 Ecco, che’n su la porta del palagio
La infelice m’aspetta, d’udir vaga
Quel che l’ha da accorar tosto che l’oda.
Qual proemio farò? Con che principio
Le comincierò a dir la sua sventura?
ORONTEA
20 Ahimè, che ’l cor di gran dolor presago
A sé richiama il sangue, e ’n sé si stringe
In vista d’uom che grave colpo aspetti.
Deh messo affretta insieme il piè e la lingua.
Qual nova mi rapporti del figliuolo
25 E dello sposo mio?
MESSO Vi apporto nova
Qual si puote miglior, sacra reina,
Che guadagnato la vittoria abbiamo.
ORONTEA
Tu che’l ben mi donasti, donami anco,
30 Sommo Dio, stil, con cui renderti possa
Grazie del’una e l’altra grazia avuta.
MESSO
Ma intero un ben non venne mai. Trovossi
Sempre in mezo alle rose qualche spina.
ORONTEA
Ahimè, che tu m’ancidi. Dunque ancora
35 Non fornisti di dir? Che v’è di male?
MESSO
Udite pure.
ORONTEA E tu spaziati tosto.
Poi che aspettato stral, mentre s’aspetta
Trafige molto più che quando giunge.
MESSO
40 Mentre più ardeva la battaglia, apparve
Fuor del bosco un’incognito guerriero,
In candid’ arme e sconosciute insegne.
Che n’andò dritto al prencipe Latino
Sfidandolo a battaglia singolare.
45 Il Prencipe accettò la giostra tale
Che arrestar fece l’uno e l’altro campo
A riguardarla. Andò la pugna un pezzo
Di qua e di là sopra bilancia pari.
Al fin Latino alzò la spada e diede
50 Al cavalier non conosciuto un colpo
Sì smisurato e crudo che gli aperse
Lo scudo e l’elmo, e scendendo nel capo,
Li fece una profonda e larga piaga.
E sceso per troncar la testa affatto
55 Al campion dela selva già caduto,
Poi che slacciato gli ebbe l’elmo e mostrò
A noi l’amato viso, là traendo
Molta furia de’ nostri suo malgrado
Li fu levato vivo delle mani.
ORONTEA
60 Poiché ha scoperto il viso e a voi è noto
Fa’ che anch’io riconosca il cavaliero.
MESSO
Questo e il punto reina, questo è l’agro,
Questo è l’amaro calice che a bere
Io v’appresento. Il cavalier del bosco
65 Era il prencipe nostro, il vostro figlio.
ORONTEA
Ahimè, che dici?
MESSO Quel che dir mi spiace,
Come prima mi spiacque anco vederlo.
ORONTEA
Non rimas’egli a guardia delle mura?
MESSO
70 Rimase. Ma sentendo uscito il padre
Né potendo temprar l’ardente spirto
E ’l desio giovenil di far battaglia
Commesse a un’altro il loco suo. E vestito
D’armi mentite e peregrine insegne
75 Per una porta adultera uscì fuori.
E preso e fatto un lungo e vario giro
Per boschi, riuscì dove sì male
Riuscir li dovea l’assunta impresa.
ORONTEA
Dunque, ahi lassa, colui che tu mi narri
80 Sì maltrattato è il mio figliuolo?
MESSO È desso,
ORONTEA
Ah empio ferro, onde imparasti l’arte
Di far duo colpi a un tempo: il capo al figlio
Ferire e ’l cor traffigere ala madre?
85 Dunque ne la commun vittoria e gioia,
Io sola piangerò, ridendo gli altri?
MESSO
Pur troppi avete nel dolor compagni.
E la vittoria sanguinosa costa
Pur troppo caro prezzo ed è dolente
90 Forse non meno al vincitor ch’al vinto.
ADRIANA
Oh speranze di vetro! Oh fratel mio!
ORONTEA
Ah spietato omicida! Ah reo Latino!
Piaccia al ciel che tua madre, s’hai pur madre,
Senta quel che sent’io materno affanno.
ADRIANA
95 Ciel non udir questi dannosi preghi
Ma fa’ che l’ dolor nostro in gioia torni.
NUTRICE
Ecco, Adriana mia, quanta ragione
Ebbe colei che ti lattò fanciulla
Di non voler lattar le tue speranze.
ORONTEA
100 Oh occhi di diamante, dunque sète
Aridi sì che non versate tante
Lagrime per lavar l’acerba piaga
Quanto versa dal capo il figlio sangue?
ADRIANA
Stata foss’io nel mezo tra la spada
105 Del feritore e ’l capo del ferito,
Facendoli del mio pietoso scudo.
Oh per cotal cagion morir felice!
ORONTEA
Ma segui e dimmi omai, cortese messo,
In quale stato e ’n qual loco ei si trova,
110 E quale speme abbiam dela sua piaga.
MESSO
Vedendo i nostri il lor principe carco
Di sangue si infiammaro ala battaglia.
Come leone, il qual quando si vede
Insanguinato, allor ruggendo fèro,
115 Rodesi e corre incontro al ferro ardito,
E divenuto più crudel si sforza
Di vendicar la sua con l’altrui morte.
Presero tanta audacia e tanto sdegno
Che poser tosto in rotta
120 I miseri Latini,
Troncando lor le forze
E li cacciaro in modo
Che tutti universalmente fuggirono.
Sbandati scompigliati e fracassati.
ADRIANA
125 Vittoria rea, che ’l vincitor fai mesto.
MESSO
Al governo io restai di vostro figlio,
Che intendendo la strage de’ nemici
E la salute sua già disperata,
Da fisici e chirurgi che avea intorno,
130 Levando al cielo e a Dio gli occhi e le mani
In mestissimo suon grazie li rese
E disse allo Signor: “Poiché ti piacque,
Che Latino e la Parca a un tempo il ferro
Alzassero a troncar questa mia vita,
135 Grazie ti rendo. Che quantunque i’ muoia,
Veggio del mio morir però vendetta.
Indi ti prego che gli anni dovuti
Al corso natural che perderò
Io, a quei del padre e della madre restino
140 Aggiunti, che non men mi fian vitali:
Tu, padre mio, perdonami l’errore
Che feci giovanilmente poi ch’io
E conosco, e confesso, e provo, come
L’uscir dele tue leggi, e dele mura,
145 Mi fece parimente uscir di vita.
Prestami un’altra grazia, sepelisci
Il cadavero mio fuor dele mura,
Dov’apunto la giostra si commise.
Perch’io, che vivo dentro, non le volsi
150 Guardar, le guardi fuor sempre ora morto.
Tu, mia già lieta, ora dolente madre,
Armati meglio il cor contra l’affanno
Che ’l capo io non mi armai contra Latino.
Tu, mia cara sorella, se mai caro
155 Avesti il compiacermi, e pur l’avesti,
Non ti legar con matrimonio altrui
Se non a chi ti dia per sopradote
Dele tue nozze il capo odioso e reo
Di colui ch’è cagion ch’io t’abbandoni.
160 Torna Merenzio, onde partisti, e ’nvece
Di guadagnarti un’altro regno, perdi
Con l’essercito tuo l’unico figlio.
Ma tu, Latino, c’hai tinte le mani
Ancora del mio sangue, piaccia al cielo
165 Che dal mio sangue nasca la tua morte.
Poi cada e muoia in mezo a tuoi nimici,
E procuri tu stesso il tuo morire,
E sii sepolto in peregrina terra.”
ADRIANA
Ahi, che non posso udir si meste note
170 Del mio caro fratel. Ponle in silenzio.
MESSO
Questo diss’egli e più parole assai,
Le quai mi commandò ch’io ridicessi.
In tanto morte andava scolorando
Il già si bello e colorito viso.
175 E ’l colore e ’l calor venian mancando.
Come purpureo fior che’l curvo aratro
Abbia passando tronco, il qual perduto
le sue vaghezze, e ’l bel colore smorto;
Al fin venendo meno
180 Cade alla terra in seno,
Or cosi era labile e vicino
A morte il figlio vostro quando il padre
Giunse carco di spoglie di nimici.
E se gli pose sospirando sopra.
185 Chiese il prencipe allora ambedue voi,
Per mirarvi e morirvi in fra le braccia.
Ma ricusando il re di far chiamarvi,
Anzi ordinando espressamente a tutti,
Che cotal morte a voi celata fosse,
190 Pregommi occultamente il figlio vostro
Che tosto che potessi io vi avisassi
Il tutto. Il che li fu promesso. Ed egli
Ala promessa i languid’ occhi aperse,
Gravati già da la propinqua morte.
195 Poi li rinchiuse in sempiterna sera.
ORONTEA
Dunque di questo cielo il dolce lume
Non fère più negli occhi a mio figliuolo?
MESSO
Del corpo no, se n’è ben gita l’alma
Dove i suoi occhi un più bel sole illustra.
ORORNTEA
200 Oh figliuol, tu sei morto, e io son viva?
Ah cruda man che’l figlio ancidi, e crudo
Più, poiché non ancidi anco la madre.
Ti fa crudele uno omicidio, e dui
Ti farebbon pietosa. Oh figluol mio.
205 Ma come mio, s’io t’ho perduto? Ah figlio,
Che ai parenti serrar dovevi gli occhi,
Come senza lor chiuderli ten\' vai?
Anzi lor li rinchiudi in notte e ’n pianto.
Può essere, oh dolor, che tanta forza
210 Non abbi nel mio cor, quant’ebbe il ferro
Nel capo di mio figlio e non mi uccida?
Che faccio di questi occhi che non denno
Mirarti più? Che fo di queste orecchie
Che più non t’hanno a udir? Di queste braccia
215 Che non ti abbracceran mai più? Di queste
labra con cui baciar più non ti debbo?
Più preste fur le man dell’omicida
A spegnermi il figliuol, che voi, mie mani,
A batter questo mio rugoso petto,
220 A stracciar questo mio canuto crine.
Ecco, Adria, caduto il tuo sostegno,
Il terror de’ nemici, e’l pregio nostro.
ADRIANA
Tu, fratel, fosti messo a custodirne,
E di custodi tu bisogno avevi,
225 Che dietro non corressi a la tua morte.
MESSO
Io non mi meraviglio che tal morte
Sia da voi pianta, che Latino stesso
La piange sì che confortar nol puote
Né’l padre, né quanti altri son con lui.
ORONTEA
230 Vittoria al vincitor peggior ch’al vinto,
Che se così vinciamo un’altra volta,
Abbiam perduto. Che rileva avere
Salvato il regno e perduto l’erede?
O figliuol, fu minor la doglia assai
235 Del partorirti, che l’affanno d’oggi.
Ma che dirò di me ch’oggi ti cinsi
Dell’armi, onde sì mal fosti difeso?
NUTRICE
E io, misera donna, ti lattai,
Prencipe illustre, a crudeltate e a gloria
240 De tuoi nemici, con tante fatiche
In tanti anni? Noi dunque t’allevammo
Accioché in un’instante andassi poi
A cader sotto la nemica spada?
MESSO
Diemmi anco il figlio vostro la camicia
245 Che si spogliò pria che tornasse il padre,
Dele man di costei vago lavoro,
Lacera tutta e del suo sangue aspersa,
E mi pregò che dopo la sua morte
Io la rendessi a voi, che la serbiate
250 In eterna memoria di vendetta
Dela sua morte, e di non far mai pace
Né tregua con Latini. Ecco, la spiego.
ORONTEA
Ah cor mio, non ti spezzi a quest’ aspetto?
ADRIANA
Lassa, quand’io formai questi trapunti,
255 Con l’ago mio medesmo il cor mi punsi.
ORONTEA
Quanto caro mi fosti, o nobli velo,
Mentre copristi le leggiadre membra.
Or tanto più m’affligi e mi rincresci,
Né ti posso mirar non le coprendo,
260 U lasciasti colui, ch’oggi vestivi?
Orribile tintura, empi lavori,
Che traesti dal sangue e dalla spada.
Ti serberò nel’opra a me commessa
MESSO
Tutti i soldati, poi che vider morto
265 Il lor signore, in man del re giuraro\'
Con solenne e terribil giuramento
A Latino la morte, e perseguirlo
Per tutto il regno.
ORONTEA Anch’io giuro il me-
270 desmo
ADRIANA Oh sperar nostro, come sei fallace.
NUTRICE
Oh creder nostro, come ne lusinghi
ORONTEA
Or dov’è il mio figliuol?
MESSO Lo sposo vostro
275 L’ha fatto sepelir fuor delle mura
Nel loco ov’egli si lasciò morendo.
ORONTEA
Oh misera Orontea, condotta a tale
Che a la terra invidiar costretta sei,
Poich’ella abbraccia il figlio a te negato.
280 Dassi il figlio alla madre universale.
E alla madre propria si contende.
Nove mesi il portai, sì dolce peso,
E un’ora oggi tener nol posso in braccio.
Voglio andar a trovarlo, a trarlo fuori
285 Del sepolcro e baciarlo, e pianger tanto
Ch’io vi perda le lacrime o la vita.
MESSO
Se pur gite, reina, almen mostrate
Che altronde udiste il suo morire
ORONTEA Andiamo.
285 Ahi, ch’io cado. Ahi, ch’io moio, aiuto! Ancelle!
NUTRICE
Deh che facesti? Ecco la mia reina
Fuor di sé. Conducianla tosto dentro.
ADRIANA
Infelice Adriana, se tua madre
Piange tanto la perdita d’un solo,
290 Tu che far dei, che duo perdesti a un tempo?
Anzi tre. Che perdesti anco te stessa.
NUTRICE
Nel perder delo sposo hai questo bene,
Che puoi dolerti almanco apertamente,
E sotto vista d’un, pianger un altro.
CORO
295 Qual vive in acqua, o in terra
Sì selvaggio animale
Che potesse ascoltar gli amari lutti,
E ’l gran duol che si serra
Nel palagio reale
300 Con riposato cor, con occhi asciutti?
Ivi s’accolgon tutti
Gradi di gentildonne
In angosciosi gesti e ’n nere gonne,
E fanno alti lamenti
305 Che a fender vanno i venti,
Mogli, madri, e donzelle,
Con grida ch’ a ferir saglion le stelle
Dela giornata d’oggi
Si saguinosa e fera
310 Piangon dirottamente i mesti casi.
Dove per piani e poggi,
Nel fiume e alla rivera
Sono i più cari lor morti rimasi,
Piangon gli acerbi occasi
315 Di tanti uomini illustri,
Bramati fin che Febo il mondo illustri,
Hanno un conforto solo,
Che son molti nel duolo.
Che al misero è gran bene
320 Altri compagni aver nelle sue pene.
Straccia le bionde chiome
La vedova consorte,
Battendo a torto l’innocente petto.
Chiama l’amato nome
325 Di colui ch’ empia morte
Le fura, interrompendo ogni diletto.
Piange ’l diserto letto,
I pargoletti figli,
Privi d’anni, d’aiuti, e di consigli.
330 Al bel seno stringendo
Che per altro piangendo,
Del lor danno ignoranti,
Accompagnano a caso i mesti pianti.
Stassi da un’altra parte
335 La sconsolata madre,
Scossa in un’ora della dolce prole.
Dove Bellona e Marte
La battaglia e le squadre
Essecra con pietose, aspre parole.
340 Appresso lei si duole
La tenera sorella
E l’estinto fratel per nome appella.
Sparsa pel collo il crine
Tien le sedie vicine
345 Piangendo il morto padre
La figliuola con note amare e adre.
Ma chi non si dorrebbe,
La strage contemplando
Che l’aria infetta e d’orror empie il piano?
350 Dove’l Tartaro crebbe
Al regio mar portando
Tributo assai maggior col sangue umano.
Dove vien di lontano
Da spilonche e da rupi
355 Turba di cani, orsi, leoni, e lupi
A una funesta cena,
Di cadaveri piena,
Che tutto ’l campo preme
Di vinti e vincitor confusi insieme.
360 Non è selva a lo ’ntorno,
Che non mandi gran frotte
D’augelli a questa abominosa mensa.
Così gli uomini il giorno
E le fiere la notte
365 Sfogan nel sangue human la rabbia immensa,
Cinzia riguarda e pensa,
Fuggir da questo cielo,
E le stelle tirarsi agli occhi un velo
Per non mirar vivande
370 Sì brutte e sì nefande.
E lacerati quivi
Dai morsi i morti e dagli affanni i vivi.
Del sangue altrui e nostro
Il terren caldo e ebro
375 Pon tema e doglia in chi passa o dimora.
A questo orribil ostro
S’aggiunge il fioco e crebro
Gemito di color che’n pene ancora
Non son di vita fora.
380 Chi dunque non si lagna
E’l pianto universal non accompagna?
Chi, piangendo altri, è in riso
Di sé tien poco avviso.
Uom non è chi trar puote
385 Nel commune dolor secche le gote.
Il fine del primo Atto.
[2.1]
Latino solo.
LATINO
Con che faccia, audacissimo Latino
Andrai innanzi ala tua dea, del suo
solo e caro fratel fresco omicida?
La man del sangue ancor vermiglia e calda
5 Di quel che è nato da uno stesso ventre
E lattato con lei da un petto stesso
Ardirai porle al collo, o porle in seno?
A chi di tanto ben la spoglia è carca,
Contra ogni creder suo di tanta noia
10 Credi, sciocco, che dar vorrà piacere?
Stimi tu di trovarla sì pietosa
che se t’avrà ben per l’adietro amato,
Or l’amorosa fiamma in fiamma d’odio
E di sdegno non cangi, come spesso
15 Cortese foco a cui lieta famiglia
Si scalda e coce gli opportuni cibi,
Si cangia in tanto ardor, che tutta abbruccia
La casa, e ciò che vi si trova dentro?
S’ora te le appresenti non fia a punto
20 Un rinovare in lei l’affanno, come
L’omicida appressandosi a l’ucciso
Dal cadavero uscir costringe il sangue?
Credi tu, ch’abbia voglia la infelice,
La sconsolata giovane d’uscire
25 A udir parole, e prattiche d’amante,
Anzi crudel nemico, a chiari segni
Ella, che stassi a pianger con la madre
Colui, che amar dovea, come sé stessa?
Ma fingi, ch’ella a suo costume venga.
30 Con qual cor, con qual’occhio mirerai
La tua luce di tenebre vestita,
La gioia, e’l riso tuo sommersi in pianti.
Lo tuo conforto sconsolato, e mesto.
Lo tuo ben di te schivo, la tua speme
35 Disperata, e le tue fatali stelle
Girarsi dal tuo aspetto in altra parte?
Potrete occhi mirar turbato il volto
D’ira, e di doglia, minaccioso il ciglio
Del mio bel Sole, e lacrimosi gli occhi?
40 Potrete, orecchi, udir gli accenti irati
De la mia cara Donna allor quand’ella
Queste mi dica, o simili parole.
Quando pur di parlarmi il cor le soffra?
“È cotesto il bel premio, ingrato amante,
45 Che tu mi rendi? Invece de la vita,
Ch’hai da me, dare al mio fratel la morte?
Bel pegno certo delle nostre nozze.
Invece dell’amor, ch’io ti portava,
Odiasti, et uccidesti il mio germano.
50 Ma lui non uccidesti, anzi l’amore
Ver te della sorella. Con quel colpo
Tronchi il filo vital del fratel mio,
E l’amoroso laccio del mio core.”
Ciò dirà ella, e più, come alla lingua
55 sua somministreran l’odio, e l’affanno.
E tu vuoi aspettar questa tempesta,
Questo tuon, questo folgor, che t’opprima?
Eleggi prima volontario essigilo.
Torna più toso a dietro, e tu medesmo
60 Fa’ vendetta di quel, che ’l tuo cognato
Ti toglie, e annoia la tua cara donna.
Su ’l sepolcro di lui scanna te stesso
All’ombra del fratello in sacrificio,
Al cor della sorella in medicina.
65 Onde Adriana tua su ’l monumento
Non lacrimi il fratel, che te non pianga,
Deh se morir pur debbo, imitar voglio
La Fenice, la qual morir dovendo,
Nel suo sole affissar vuol prima gli occhi,
70 Benché posta in quel sol sia la sua morte.
Ah non ti por, Latino, a tal periglio,
Proverà troppo dispietato influsso
Nel capo tuo da la sdegnosa faccia.
I gesti, i detti suoi, son tutti vita.
75 Mal credi, se ciò credi, fìan mortali.
Mai, Adriana mia, creder non voglio,
Che giudice sì ingiusto, e sì crudele
Sii, che dar vogli contra a un reo sentenza
Senza prima ascoltar le sue ragioni.
80 Parte alle parti il giudice gli orecchi.
Dunque da poi, che per l’usata porta
Sì facilmente entrai nella cittade,
E aperto ritrovai questo giardino,
Com’è l’ordine dato, e par che i raggi
85 Loro per me celar, celin le stelle,
Attenderò, che fuori esca Adriana.
Poiché a quest’ora sempre esce la notte
A veder s’io ci son, com’è composto
Tra noi. E par, ch’io senta aprir la porta,
90 La qual meglio chiamar posso Oriente.
Ecco spunta il mio Sol cinto di nubi
A mezzanotte. Mira, come gli astri
Dan loco al lume suo smarriti in vita.
Come stan l’aure a vagheggiarlo intente.
95 Felice quel (rispetto a me) che aspetta.
Ador ador la pena capitale.
[2.2]
Adriana, Latino.
ADRIANA
Esci tu poi ancor quand’abbi tempo.
LATINO
Riguardando io quel puro, e fermo affetto
Che a servirvi m’inchina, alta signora,
Giurato avrei per quel più riverito
5 Nume da me qua giù (che sète voi)
Che non potesse in tempo, e in loco alcuno
Succedere accidente, donde io avessi
A scusarmi con voi d’error commesso.
S’error commesso si può dir l’errore,
10 Che si commette fuor d’ogni scienza.
Or grazie a Dio, che ’l mio giudice (ancora,
Che di parte, e di giudice persona
Or sostenga) non vuol tener di parte,
Ma di giudice ufficio. Né dannarmi
15 Solo, ma scende a udir le mie ragioni,
Che inappellabilmente in lui rimetto.
E quand’io debba richiamarmi, all’alma
Pietà, di lui medesmo sia il richiamo.
So, che quantunque il caso del fratello
20 Non v’apporti quel mal, che forse parvi,
(Anzi la dubbia palma a vostri piega
L’amor diviso de’ parenti vostri
Per duo rivi in voi sola or tutto accoglie,
Di infanta vi sublima a Principessa,
25 Lasciando voi di questo Regno erede,
Le nozze vostre agevola, et affretta)
Pur la sua morte (ancor ch’ei l’abbia compra)
V’affligge, vi inacerba a far vendetta
De l’ucciso, e dar pena a l’omicida.
30 Ma se udirete il mio discorso, spero
Mostrarvi aver quella ragion, che voi
Più desiate, e non credete, ch’abbia.
So che’l caso vi è noto. Onde ridirlo
Non convien, ma toccar sol le difese.
35 De l’entrare in battaglia io non mi scuso,
Poi che una i’ convenia far di due opre.
O trar da la battaglia il padre in pace,
O quinci esser da lui tratto in battaglia.
Onde ritrar non ne potendo il padre,
40 L’uno effetto di duo far mi convenne,
O accompagnarlo, o stando fuor, mostrarmi
O figlio iniquo, o cavalier da poco,
O prencipe di voi, di stato indegno,
O nemico a mio padre, o amico a voi,
45 E ciascun di tai segni era mal segno.
Oltra che la giornata esser non debbe
Senza me dove i nostri combattendo
Restar doveano, o vincitori, o vinti.
Se vinti, aitato avrei le schiere nostre,
50 Anzi le schiere, che già vostre sono.
Se vincitori, allor con lor sarei
Nella cittade entrato, e avrei difeso
Dal furor militar la cara sposa.
E se dicesse alcun, ch’io son prigione
55 Vostro, e far contra voi guerra non posso,
Dico, che prigion vostro è solo il core,
E che’l cor contra voi non fe’ mai guerra.
Perché ’l cor mai non fu dov’era il corpo.
Or discendiamo a quel, che via più importa.
60 Il fratel vostro sconosciuto venne
A provocarmi, et a combatter meco.
Io, che doveva far? Fingiamo ancora,
Che ’l conoscessi. Il che però san tutti,
E sapete anco voi, che non fu vero.
65 Insegnatemi voi, fingete voi,
Signora, di trovarvi in loco mio.
Dovea lasciarmi uccidere, et a voi
Uccidere il marito, e voi insieme?
Che s’io misuro ben l’animo vostro
70 Col mio, potea sperar, che la mia morte
Fosse per generar la morte vostra,
Come dal vostro il mio morir verrebbe.
E s’io lasciava uccidermi, potendo
Difendermi, e difender non volendo,
75 Non era uno ammazzar me stess? Io allora
Non era ancor de l’omicidio reo?
Né pentirmi potea, com’ora posso.
E voi, e me perdea. Né l’omicida
Però forse da’ mei campato fòra,
80 Men teneri di fe’, che de’ lor Regi.
Dunque senza germano, o senza sposo
Vi convenia restar. Se voi più pia
Sorella sète, che mogliera; io certo
Son, che’l fratel si lascia per lo sposo.
85 Se ad ammazzarmi nol mandaste voi
Pentita a esser mia, vaga di sciorvi.
S’io ferìa (lui ferendo) il vostro sangue,
Ei feria, (me ferendo) il vostro core,
(Se finto non è quel, che mi giuraste.)
90 Dovea fuggire, o rendermi per vinto?
Io, che debb’esser vostro, e a voi congiunto
In una carne, debbo senza macchia
Serbarmi (come voi) per vostro amore.
Gli sposi avvinti in un nodo, non ponno
95 Senza l’altro macchiar, macchiar se stessi,
L’onore oltre la vita esser de caro,
E ’l tutto altrui doniam da questo in fuori.
Mentr’io giostrava con colui, e avea
Pensier, che voi la giostra rimiraste,
100 Avrei potuto sotto gli occhi vostri
Mai risolvermi a rendermi, o a fuggire?
Tolga Dio, che altri mai, che voi mi vinca.
Che a voi sia tal onor commun con altri.
S’io l’uccisi, il valor da voi mi nacque.
105 Dunque a voi, non a me convien la pena
Di tal colpa, se pur pena ricerca.
Se dar volete pena a chi l’uccise,
Datela a voi, che a me la vita deste.
E quel, che date, mai non ritogliete.
110 Punite voi, le cui bellezze, vago
Mi fer di vita, e alla difesa pronto.
O perdonate a voi stessa il mio fallo.
Se dar volete pena a chi l’uccise;
Datela a lui, che uscì fuor delle mura
115 Contra il voler del padre, contra il voto
De’ suoi, e contra ogni ragion di guerra.
Pose ’l tutto in periglio manifesto,
Gettando in altri il peso a sé commesso.
Onde s’avesse ancor vinto, dal padre
120 Meritava gastigo aspro, e mortale.
Né sentendosi polso atto alla giostra
Corse a sfidarmi, pien di mal talento
Per ammazzarmi, ond’ei sé stesso uccise.
Venne egli stesso ad incontrar la morte:
125 Se dar volete pena a chi l’ha ucciso,
Datela alla sua spada, che sì male
Il difese. Ma ciò (cred’io) successe,
Che sendogli da voi forse oggi cinta
Intendendo l’amor, che mi portate,
130 E me riconoscendo, non mi volse
Ferir, bastando esser da voi ferito.
Né voi già de l’acciar men pia sarete.
La legge natural vuol, che ciascuno
Contra il morir si scherma, e si difenda.
135 Quinci a ciascun natura arme concesse,
A chi l’unghia, a chi ’l dente, a chi’l veleno,
A chi ’l corno, a chi ’l rostro, a chi la spada.
Che fa il padre, il Re vostro, se non ch’egli
Sé medesmo difende, e le sue genti?
140 La legge scritta vuol, che si ribatta
La forza con la forza, e lo assalito
Spenga lo assalitor senza gastigo.
Sì che la legge di sua man la spada
Contra gli offenditori offre agli offesi.
145 La legge de la guerra vuol, che’n giostra
Ciascun s’aiuti, e l’avversario offenda.
A l’uom dato è difendersi da morte.
E perché questo non può farsi senza
Offender quel, che darla altrui si sforza;
150 Però l’offesa in sua difesa è giusta.
Ma di tante difese in mia difesa
Nel caso del fratel vostro vorrei
Essere affatto privo, quand’io avessi
Lui conosciuto, e conoscendo ucciso.
155 Ma conosce ciascun, ch’io noi conobbi.
Dal loco non potea saperlo. Uscìo
Fuor de le selve da contraria parte.
Non poteva dal tempo argomentarsi.
Già sapea, che restato egli era in casa
160 Dalle spie, che mio padre ha in questa terra.
Le insegne non potean manifestarlo,
Che peregrine sono. E se co’l padre
Fosse corso a giostrar, potea dal padre
Esser così, come da me fu ucciso.
165 E voi s’ivi il vedeste (e nol mandaste)
Gli auguraste la morte, e la otteneste.
S’io lasciai di ferir le genti vostre,
Credete, che’l fratel vi avessi estinto,
Quando qual fratel vostro uscito fosse?
170 Benché non fu, ma vostro, e mio nemico.
Non che un vostro fratel, ma qualunque altro
Avesse ivi invocato il vostro nome.
Nel nome vostro avria trovato scudo
Miglior, che quello, ond’egli era coperto.
175 Né quando io lo ferii, né quando ei cadde
Per lui sorsero i vostri. Che né i vostri
Il conoscean, se non quando scoperto
Videro il viso smorto, non già smorto
Sì, che più smorto allor non fosse il mio.
180 E come una sincera posta al specchio
D’una corrotta si corrompe, io allora
Quella doglia sentii, ch’egli sentiva.
A me quivi augurai l’asta d’Achille,
A’ suoi l’uso de l’api, a lui d’Anteo.
185 E se ’l mio sangue fosse stato empiastro
Atto a tenerlo vivo, e a farlo sano,
Possa io (com’ei perdeo) perder la vita,
Oppur la grazia vostra, (l’ che più stimo)
S’ allora ivi svenato io non mi avessi
190 Con questo brando mio di vena in vena.
Né dicano color, che me l’han tolto
Vivo di mano, averlo tolto a forza.
Ch’io quella vita a lui (quando il conobbi)
Donai, che voi a me prima donaste.
195 Né dica alcun, ch’io trapassassi i segni
(che schermirmi tra assai senza ferirlo)
Che ciò non s’usa. Quando il riconobbi,
Posi tosto nel fodero la spada,
E fui per farle fodero del petto.
200 Del che, se testimoni produr’ voglio,
Le mie produco, e ancor le squadre, vostre.
Tu, ombra dell’ucciso, or qui ti mostra,
E l’innocenza mia meglio difendi,
Che già non difendesti la tua vita.
205 Ma il maggior testimonio è l’argomento
Che tra voi far potete, e così dire:
L’amor del mio Latino è vero, o finto.
Se vero; vero è ancor quant’ei mi dice.
Se finto; qual cagione ora il costringe
210 A venirsi a scusar ne la mia terra,
Né le mie forze con mortal periglio,
Di notte, sol, da’ suoi lontano, poi,
Che da me non ricerca alcun diletto?
(Ch’altro or da voi, che’l vostro amor non voglio)
215 Ma, che più? Se ’l mio core in mano avete,
Perché ’n lui non leggete i mei penseri?
Queste ragioni, non pur presso a voi,
Ma peso avrian presso alla madre vostra,
che voi vinca in amar, colui, che giace,
220 Da voi vinta in amar costui, che vive.
Ma se dell’opra mia da me commessa
Al buio, a caso, in vostra, e’n mia difesa,
Trattovi pe’ capei, con arme pari
Mi volete punir; basti la pena,
225 Che mi dà l’opra stessa, e lo spavento
Del vostro sdegno, che ogni pena eccede.
Ma quando altra ragion per me non vaglia,
Vagliami quel che a tutti gli altri vale.
Ch’io ricorro alli dei, rifuggo al tempio,
230 Tempio chiamo il giardin de l’idol mio.
Pur se nocente mi stimate; e come
Nocente giudicate or di punirmi,
Movanvi da punirmi gli innocenti.
Che error fece la mia cara sirocchia
235 (Tenera come voi, non già sì bella)
Cognata vostra, che lo stesso affanno
Proverebbe, che voi ora provate?
Che error fecer mia madre, e la mia sposa
Figlia del buon Re Atrio, che, morendo
240 Io, non vorran più rimaner in vita?
L’una pria perderà, ch’abbia la nora,
l’altra vedova fia, prima che moglie.
Dunque se giusta giustamento meco
Vi volete portar, debbo ire assolto.
245 La Giustizia che uccide gli omicidi
Non vuol gastigar l’opra, che se l’opra
Volesse gastigare, i suoi ministri
Poi che avessero ucciso l’omicida,
Sarebbon rei d’altro omicidio anch’essi.
250 Vuol gastigar la volontà. Se questa
Dunque vuol gastigare; io che non ebbi
Volontà di toccar vostro fratello,
Non debbo per giustizia aver gastigo.
Voi uccidendo me, più grave colpa
255 Di me commettereste, in uccidendo
Un da voi conosciuto, uno innocente,
Un che v’ama; un che a voi vinto si rende.
Dove tutto in contrario a me successe.
La Giustizia che uccide l’omicida,
260 Nol sa, vaga d’aggiunger sangue a sangue,
Ma di proporre essempio a chi rimane.
Or quale essempio fia proposto, s’io
Senza scienza mia, contra mia voglia,
Offendo quel, che travestito viene
265 Per la morte ingannar, che lui non vuole?
Offendo quel, che a provocarmi giunge,
Per la morte chiamar, che da lui fugge?
Giudice saggio non suol dar sentenza,
Che su ’l giudicator tornar mai possa.
270 Può in voi, può in tutti il mio fallo cadere.
Spesso punir sogliam per vendicarci.
Ma voi sapete, illustre principessa.
Chi fa vendetta, si dimostra forte.
E chi potendo farla, non la face;
275 Forte si mostra parimente, e pio.
Forte; che far la pò. Pio, che non vuole.
E non pur debbo assolto ir, ma premiato.
Che lo sposo innocente vi difesi.
E se pia piamente oggi volete
280 Proceder meco, avrò da voi perdono.
Poiché perdon vi chieggio umilemente.
Una altrui gran pietà non si conosce,
Se a cui perdoni un gran fallo non trova.
Ecco, vi si appresenta ora un soggetto,
285 A cui d’intorno essercitar possiate
La virtù, che fa l’uom pari alli Dei.
Quel son pur’io, che voi tanto mostraste
Prima d’amar, da voi per vostro eletto.
Voi, che ’n elegger tal giudizio avete.
290 Ma se disposta sète a darmi pena,
Eccomi presto ad accettarla, e lieto
Pagar con la mia morte il non mio fallo.
Io già fatto l’avrei. Già di mia mano
M’avrei dato la morte, ancor che ingiusta,
295 Ancor che con offesa di innocenti,
massimamente alor, che feci il colpo,
che me più ch’altri offese. Ma pensando
Che se io così moria, mi diffidava
Della vostra pietate, e vi toglieva
300 L’occasione, o di mostrarvi pia,
O di punirmi (e da voi ogni pena
M’è peggior del morir), me ne ritenni.
Ritenni anco il saper, ch’io, ferendo
Lo mio petto, feriva il vostro volto,
305 Che impresso ivi si sta per man d’amore,
E che l’mio cor trovato non avrei
Nel mio sen, poiché s’albergò nel vostro.
Oltra che questa vita a voi donata
Da me, ma non è più. Né per me stesso
310 Senza vostro voler posso disporne.
Voi, che di voi medesma quel rispetto
Non avete d’aver, potete farlo:
Ecco dunque colui, pietosa donna,
Inginocchiato a’ vostri piedi innanzi,
315 Che vi fece pur mò sì grave oltraggio.
Ecco la iniqua man, che ’l ferro strinse.
Ecco la spada nuda. Ecco la spada,
Empia ministra del dolente ufficio.
Questa vi porgo, altissima Reina.
320 Voi la pigliate. Onde al vostro braccio
Alzata al fin, giù declinando poi
Sovra me, porti il flagel vostro seco,
e ’l colpo, che feci io, faccia, e gastighi,
Meschi il sangue del frate, e de lo sposo,
325 E tolga il capo al capo del mal vostro.
Ecco, che ’n mano io vi consegno il ferro
Nudo, e nuda la testa in sen vi pongo.
E vitalmi sarà questo morire,
Quando da vostre belle man mi venga.
330 Così compiti fian gli annunzii tristi,
Che avventò contra me, contra mio padre
Morendo, e minacciando il fratel vostro.
Così compìto fia quant’ei v’impose.
Che sposo non vi sia, se non colui,
335 Che ’l capo v’offra in man di chi l’ancise.
Così dirò, che notte ho dal mio sole,
E che la vita mia morte m’adduce.
Così dirà ciascun, ch’ove le donne
Vendicate dagli uomini esser denno,
340 Vendicati oggi son questi da quelle.
E quel, che armati i cavalieri in campo
Non fecer, fan le verginette in gonna.
M’incresce sol, che non s’ancidan meco
Il Mago, il portinar, la cameriera,
345 Che testimonii fur de nostri amori.
Acciocché non seguendo più tra noi
Per la mia morte le composte nozze,
Non potessero andarvi diffamando.
Dunque omai proferite la sentenza,
350 Che a voi, o al fratel vostro m’accompagni.
ADRIANA
Scorgo Signor, che forza nella lingua
Non portate minor, che nella spada.
E quantunque la doglia del germano
Quinci; e quindi l’amor, che di voi m’arde,
355 Mi vadano adombrando lo intelletto;
Pur la ragion discerno, e miro quanto
Giustificata è ben la causa vostra,
E di quanto al fratel son debitrice.
Non vi danno però, né vi perdono.
360 Che dove uom non ha colpa, non ne deve
Chieder, né riportar perdon, né pena.
Levatevi, Signore, e riponete
La spada, e i preghi, or ch’io ripongo l’ira.
Che troppo empia sarei, se profanassi
365 Cotesto amato, avventuroso capo,
Che di duo regni duo corone attende,
Del gemino valor giusta mercede.
LATINO
Alle cortesi note, e al cortese atto
Grazie renda colei, di cui io sono
370 Io ben comprendo, che coteste braccia
Non han potuto sollevarmi in piedi,
Ma mi ponno essaltar fin sovra il cielo.
Non avrà invidia il vostro capo al mio
Ma la più preziosa, alta corona
375 Del mio capo sarà del vostro amore.
Chi è colei, che fuor vien verso noi?
ADRIANA
È la nutrice mia, cui (sendo morta
Oggi la cameriera) ho convenuto
L’amor nostro scoprir, non men fedele.
[2.3]
Nutrice, Adriana, Latino •
NUTRICE
Ritraetevi a l’ombra della luna,
Che ’l lume suo non giovi, e noccia a un tempo,
Scoprendovi l’un l’altro, et ambo altrui:
stanchi di sospirar, di pianger fiochi
5 Tutti in palagio or tien languido sonno.
Io, poi che non è d’uopo la mia ascolta
Più dentro, uscita son, come ordinaste.
ADRIANA
Giovò sempre il restare, e ’l venir tuo,
NUTRICE
Signor, come gran gloria presso a tutti
10 V’è il vincere un guerrier, che si difende;
Così grave disnor vi fòra, quando
Non favoriste una real donzella,
Che al primo assalto a voi vinta si dona.
LATINO
Donna, i conforti tuoi come son veri,
15 Così soverchi son. Che tanta fede
Troverà in me costei, tanta fermezza.
Quanta io ritrovo in lei beltade, e amore.
E ora col periglio, che tu vedi,
A rivederla torno, e a favellarle,
20 Per ordir meglio i bei nostri disegni.
ADRIANA
Fingete pur con tutti esser de’ nostri.
LATINO
Io non fingo, anzi è ver, che vostro sono.
Signora, i vostri han posto in rotta, e ’n fuga
Le nostre genti. E ’l padre mio ritratto
25 A’ confini del regno in certa villa
(Per passarsene poi subito in Lazio)
Sta raccogliendo le reliquie sparse
Del perseguito essercito. E con molti
Mi ha mandato a tracciarle, e unire in massa
30 Ma io, ch’altro pensier volgea nel petto,
Come ho sentito dell’amica notte
L’alto silenzio; i mei lasciando; solo,
Anzi di più pensier fatto compagno,
Da Amor guidato, vengo a tor da voi
35 Partir dovendo, l’ultima licenza.
Non piangete cor mio, levate il volto.
Non guastate piangendo i teneri occhi.
Eh non battete lo innocente petto
Contra ragion. Che colpa ci ha il bel petto,
40 Se mi parto io? Che colpa ci han le chiome,
Da volerle sconciar? Che colpa il viso
Da volerlo percoter con le palme?
NUTRICE
Tra quante infirmità, tra quante doglie
Ha sotto ’l ciel, non ha maggior di questa,
45 Che l’amorosa febre in noi produce.
ADRIANA
Pietà, cieli, pietà. Pietade, Amore,
Se nel tuo terso ciel le voci ascolti
De’ miseri vassalli, e non sei cieco,
E sordo parimente. O solo e sommo
50 Ben de l’anima mia, mia speme, dunque
Mi volete lasciar? Daravvi il core
Dunque d’andar senza Adriana vostra?
E non vi annoderò queste mie braccia
D’intorno sì, che non v’usciate mai,
55 Qual’edera, qual Salmaci, qual vite,
O qual rete tenace di vulcano?
Deh fate, ch’io da voi non sia disgiunta.
LATINO
Quel, che a voi nego, a me prima negai.
E porto più dolor partendo meco,
60 Che vosco voi restando non tenete;
Ma, che poss’ altro? Restar non poss’io.
Menar non posso voi. Datemi voi
Qualche via, qualche modo. E poi vedete
Se ad essequirlo mi trovate pronto.
65 Volete ch’io qui resti, e qui da’ vostri
Vi sia smembrato innanzi a brano a brano?
Volete ch’io vi meni, e a meza strada
Tolta mi siate, o il mio padre ne ancida,
O ’l vostro venga in Lazio a farne guerra,
70 come andò tutta la Grecia a Troia?
E forse avrebbe più ragion di farlo.
E voi d’odio dotata, infamia, e sangue,
Al regno marital patiate il foco,
E dal regno natio leviate il meglio?
75 Amboduo questi regni, che pur vostri
saranno al fin, voi risvegliate a l’armi,
Dove qualunque perda, voi perdete?
E l’amorosa face, che noi arde,
Dolce non sia de’ nostri petti fiamma,
80 Ma fiamma rea, che i be’ paesi accenda?
ADRIANA
E s’io star non potea, non dirò un giorno,
Ma un’ora pur senza vedervi; or, come
Tanto da voi starò spazio lontana?
E se pensando al partir nostro solo,
85 Tanto ho dolor, che fia quando partiate?
Che fia quando poi siate al fin partito?
Ogni dì mi parrà maggior d’un anno.
Il Sol zoppo, il ciel’orbo, il giorno notte,
La notte inferno, l’aria tenebrosa.
90 Amare l’acque, e vedova la terra.
Saran le luci mie prive di luce,
Dove entrerà, per non uscirne, il pianto.
Dond’uscirà, per non entrarvi, il sonno.
Con voi verrà il cor mio, resterà il seno.
95 Alfin né morta restero, né viva.
Non morta; sentirò pur troppo affanno.
Non viva; lungi dalla vita mia.
Ite veste, ite gioie, ite catene.
Prendi, nutrice, quel, che del fratello
100 Non m’ha fatto por giu l’acerba morte.
NUTRICE
Figlia, tempra la voce, e tempra il pianto,
Che di pianto maggior non fia cagione.
LATINO
Il buon nocchier nel tempestoso mare,
Il fin oro nel foco. E negli avversi
105 Casi provar si suol l’animo saggio.
Armate dunque il cor; dunque asciugate,
Per Amor mio, le rugiadose ciglia.
ADRIANA
E voi, signor, perché sì spesso indietro
Volgete il viso?
110 LATINO Perché ’l pianto vostro,
Come l’acqua di vite il cor m’accende,
Benché da lungi Amor le faci scota.
E Amor qual fabro a quel pietoso umore,
Che va rigando le fiorite guancie,
115 Gli strali tempra, e immolavi la rota,
A cui gli affili, e ’l petto indi m’impiaghi.
ADRIANA
E perché voi ancor di pianto carchi
Portate gli occhi?
LATINO Deh non mi sforzate
120 Signora, a dirlo.
ADRIANA Ditelo di grazia.
LATINO
Voltomi, e piango, come ’l sol la sera,
Che guardandosi indietro annunzia pioggia.
E mentre a confortavi m’affatico,
125 D’altri ho bisogno, ond’io conforto prenda.
Qual notator, che ’n fiume alto si scaglia,
Per soccorrer colui, che si sommerge.
Né ’l soccorre, e con lui resta sommerso.
Piango, perché due volte, ahimè, mi parto.
130 Partomi, che da voi mi so lontano,
Partomi, che per mezo mi divido.
E si resta il miglior di me con voi.
Sì che né quì sarò, né dove io vado.
Che andando senza voi, senza me vado.
ADRIANA
135 Restando io senza voi, senza me resto.
LATINO
Spronerò inanzi il mio destriero, e Amore
spronerà i pensier miei più forte adietro.
Così sol due farò contrarie strade.
ADRIANA
Perché s’ognor mi dai l’aspre tue pene,
140 Non mi presti ora, Amor, l’aure tue penne
Onde dietro al mio cor mova col corpo?
NUTRICE
Le penne opra l’angel, l’ingegno l’uomo.
ADRIANA
Ma, che speme ci è poi? La speme al manco
Suol condir col suo mèle ogni veleno.
145 Qual fine al fine avrà questo rio stato?
LATINO
Quel fine avrà, ben mio, che desiate.
Duo mesi non andran, che ferma pace
Lo cui nodo saran le nozze nostre
Stringeranno tra lor vostro, e mio padre,
150 Per opra mia.
NUTRICE Dove i figliuoli tanto
S’amano, come odiar potransi i padri?
ADRIANA
È pur lungo aspettar.
LATINO L’agricoltore
155 sospira un’anno la sperata messe.
ADRIANA
Ma intanto, chi mi fia luce, e conforto
In questa osura, e sconsolata vita,
Ch’io, come tortorella a viver resto?
LATINO
Degli amor nostri il secretario fido,
160 Il Mago, a cui rivolger vi potrete,
Quando accidente inaspettato occorra.
Egli mi avviserà per fidi messi,
Dando a voi mie risposte, e suoi consigli.
ADRIANA
E se i petti indurati, e d’odio pregni
165 De’ nostri genitori avesson fisso
Di non giunger tra lor pace, né tregua?
LATINO
Allor, quando altro mezo non mi vaglia,
Ve ne trarrò per mezo al ferro, e al foco
Senza vostro disnor per viva forza,
170 Anzi per vivo amor, che a voi mi stringe.
ADRIANA
Ma se quando sarete uscito fuori
Del mio regno, io v’uscissi fuor di mente?
Qual vivrebbe nel cerchio della terra
Più misera di me? La morte prima
175 Senta, che sentir ciò.
NUTRICE Quel, che non vuoi
Che avvenga, non dei dir, né dei temere.
LATINO
Del sol, del gusto, e del mio nome prima
Mi scorderò, che della faccia vostra.
180 Né lunghezza di tempo, né distanza
Di loco, né successo, o buono, o rio,
Né speme, né timor, né beltà nova,
Né l’impiombato stral, né l’rio di Lete,
O carissima donna, faran mai,
185 Che mi perdiate. Il farà morte solo.
E s’anco dopo morte amar si puote;
Dopo morte d’amarvi anco vi giuro.
Non fia per mutar sol, ch’io muti mente.
Né, che per cangiar pèl, cangi pensero.
190 Né che ai freddi anni il dolce foco scemi.
Ogni terra, ogni tempo, ogni fortuna
Vedrammi vostro. Ma cotesta tema
Per qual porta vi entrò, donna, nel petto?
Se (non ch’altri) lasciai me stesso ancora
195 Per esser vostro? Abbiate ferma fede,
Ch’io non son per lasciarmi in tempo alcuno.
E se volessi, che voler non posso.
E se potessi, che poter non voglio.
Che poter, che voler, né so, né debbo.
200 E se va dalla lingua il cor diverso,
I’ prego Dio, che questa acuta spada
Con questa punta, a cui lo appoggio, il passi.
NUTRICE
Dio vi guardi, Signor, di tanto male.
ADRIANA
Ma se rompeste le promesse mai
205 Per forza (che per volontà, son certa
Che non le romperà quel cor gentile),
Io del vostro mentir la pena paghi.
LATINO
Come alla vostra la mia destra giungo,
Cosi giungo il mio core al vostro core.
210 Di ciò te chiamo in testimonio, o Luna,
Che dal ciel piena, e limpida or ne miri.
E voi chiare di lei compagne stelle,
Che voi, prima la terra, e l’erbe il cielo
Terrà, che me tenga altra, che Adriana.
NUTRICE
215 La fede sola altrui data in occolto,
E ’l flagel de la propria conscienza
Può tanto in cor gentil, quanto in cor vile
Può ’l timor del supplicio apparecchiato
In tribunal di giudice terreno.
LATINO
220 Orsù, speranza mia, sperate bene.
E con la speme del ritorno lieto,
Temprate il duol de la partita trista.
Che ancor d’Adria, e di Lazio alta reina,
E mia sposa vedrovvi ire adorata
225 Da le madri latine, et adriane.
E ’n vece de la spada, che a cotesta
Man regia porsi, porgerò lo scettro.
ADRIANA
E ciò mi fa temer. Che a tal conforto
Non mi sento istillar dramma di gioia.
NUTRICE
230 Chi molto spera, molto ancor paventa.
ADRIANA
O Dio, tu solo sai u’, quando, e come
Mai più mi troverò co’l mio Latino,
LATINO
Tempo è di porsi in via. Meglio è far tosto
Quanto s’ha a far, che prolungarlo, e insieme
235 La doglia prolungar pungente, e verde.
ADRIANA
Deh, (si mi amate) non partite ancora.
Perché pensando, che partir dovete,
la mente impari a sofferirlo meglio.
LATINO
E che facciam più qui, se siam da’ vostri
240 Cacciati? Se lo star qui non ci giova
Ad altro omai, che a punger più la piaga,
E l’un l’altro invitarci al duolo, e al pianto?
E (s’io non erro) e presso il far del giorno.
Udite il Rossignuol, che con noi desto,
245 Con noi geme fra spini, e la rugiada
Col pianto nostro bagna l’erbe. Ahi lasso.
Rivolgete la faccia all’Oriente.
Ecco incomincia a spuntar l’alba fuori
Portando un altro sol sopra la terra,
250 Che però dal mio sol resterà vinto.
ADRIANA
Ahimè, ch’io gelo. Ahimè, ch’ io tremo tutta.
Questa è quell’ora, ch’ogni mia dolcezza
Affatto stempra. Ahimè, quest’è quell’ora,
Che m’insegna a saper, che cosa è affanno.
255 O del mio ben nemica, avarà notte,
Perché sì ratto corri, fuggi, voli
A sommerger te stessa, e me nel mare.
Te nelo Ibero, e me nel mar del pianto?
O dalla invidia accelerata aurora,
260 Che agli altri luce, a me tenebre apporti;
Muti per me l’ufficio, il passo, e ’l nome.
O luce, che mi ferì gli occhi, e ’l core.
O Luna, perché ’l ciel sì tosto lasci?
NUTRICE
Ella, che guarda il natio freddo, fugge
265 sentendo già scaldarsi a’ tuoi sospiri.
ADRIANA
Oggi sul regno mio pace si leva;
E ’n me tramonta, e ’n me guerr’aspra sorge.
LATINO
Or troppo il lito d’India ne minaccia.
ADRIANA
E qual offesa ebbe da noi?
270 LATINO Come somma
volontà dunque omai vi abbraccio, o dolce
Cor del mio cor, della mia vita vita.
ADRIANA
Qual mio fallo, qual forza, o qual destino
Mi vi trae de le braccia? Ove sen vanno
275 I fuggitivi mei, rari diletti?
LATINO
Restate in pace, e m’aspettate tosto.
ADRIANA
Aiutami, ch’io moro, o mia nutrice.
Sostentami ch’io cado.
NUTRICE Ahimè, figliuola.
LATINO
280 Deh richiamate l’anima smarrita
A lochi suoi. Sentite, ch’anco in seno
Sète al vostro Latino, e ch’ei v’abbraccia.
Ripigliate lo spirto. Aprite gli occhi.
Serbatevi a più candida fortuna.
285 Vedi tu, donna, di condurla dentro.
Né parlar, né indugiar più posso. A Dio.
NUTRICE
Ite, e portate nella mente impresso
In quale stato la lasciate andando.
LATINO
Scusoti, Orfeo, se per voltarti indietro
290 Perdersti già la riconcessa sposa,
Ch’io mille volte ogn’or la perderei.
CORO
Scotete il giogo dur, rompete il freno,
Sforzate la prigion di Citerea,
O servi all’amorosa, ingiusta Dea.
285 Poiché ad altro non porge occhio sereno,
Che quando avvien, che pianto stempri gli occhi,
O piaga crudel sangue trabocchi.
Ma, che stupor, che alle ferite rida
Una di Marte, e di Vulcano amica?
290 Che una di Febo asprissima nemica
Spenga ogni lume in quel, che ’n lei si fida?
Che sangue chieggia, e sol lagrime amare
Una nata di sangue, e nata in mare?
O nel campo d’Amor cavalier fidi,
295 Fuggite dai costui feri stendardi
Tosto, bench’ogni tosto sarà tardi.
Che s’avvien, ch’egli ancor molto vi guidi,
Potrà condurvi a un precipizio seco.
E qual guida sperar si può da un cieco?
300 Qual da un uccel riposo, o qual fermezza?
Qual arte, o qual prudenza da un fanciullo?
Quale speme, qual gioia, o qual trastullo
Da chi la propria madre impiaga, e sprezza?
Qual pietà; qual perdon da un Dio sì crudo,
305 E qual premio sperar da un Duce ignudo?
Con dura legge Amor, crudel tiranno
Face adorar vana bellezza in terra.
Arma i nemici, e fa agli amici guerra.
Affligge la bontà, prezza lo inganno.
310 Onora, e premia gesti iniqui, et adri.
Consiglio, e aiuto dà a dui occhi ladri.
Vuol, ch’altri serva senza esser premiato.
Sia senza pena, chi un cor’ ha tolto.
Che chi ancide, e accende vada assolto.
315 E chi non fece error resti dannato.
Il reo discioglie, e lo innocente lega,
Noce a chi gli offre, e fa penar chi’l prega.
Lo suo vassallo questo empio condanna
A fallaci seguir, nemiche scorte,
320 E ad amar la cagion de la sua morte.
A por sempre più fede in chi lo inganna,
Ad aspettar, da chi lo offende, aita,
A offrir a suoi nemici in man la vita.
A pascer de’ suoi pianti chi il trafige.
325 A vivere, e penar tra fiamme, e onde.
A chiamare, e pregar chi non risponde
A render grazie, e glorie a chi l’afflige.
A misurare i campi, e ’l suo dolore,
A contar tutti i passi, e tutte l’ore:
330 Arde nel ghiaccio, e agghiaccia in mezo al foco
L’amante alge la state, e arde il verno.
L’altrui a doglia, il suo mal prende a scherno:
Corre senza mutar, né piè, né loco
Apre gli occhi al ben d’altri, al suo li chiude.
335 Le viscer’ offre a fier nemico ignude.
Non gradisce ’l morir, ne ’l viver brama.
La mente al suo ben pigra, al danno ha presta.
Ove sé stesso accenda il foco desta.
Ove sé stesso annodi i lacci trama.
340 Tra speme falsa, e non dubbii martiri,
Pan di lagrime mangia, e di sospiri.
Ma dove fia dinanzi al crudo arcero
La fuga vostra? nel nivoso Ponto?
Per distrugger le nevi il foco ha pronto.
345 Forse nel ciel? Nel terzo cielo ha impero.
Sotterra forse in alcun cavo speco?
Ei come talpa, è per seguirvi cieco.
Vi andrete forse a por tra gli animali?
E fornito di strai, di lacci, e d’arco.
350 Sott’acqua forse? Ei va di veste scarco.
Nell’aria tra gli augelli? Anch’egli ha l’ali.
Dunque scampar da l’amoroso telo,
Acqua, aria non vi può, terra, né cielo.
[3.1]
Orontea, Adriana, Nutrice.
ORONTEA
Sgombra, figlia, la nebbia dell’affanno
Dall’aria della mente; e della faccia.
Tra, perché al suo coltor frutto non rende,
E poi, per non turbar le tue allegrezze
5 Tu stessa a torto
ADRIANA E che allegrezze madre?
ORONTEA
le maggiori di quante può donzella
Al mondo desiar che fian radice
In te di contentezza, in noi di speme.
ADRIANA
10 Pur qual subito lampo d’allegrezza
Può rilucermi in notte si profonda?
ORONTEA
Non hai cagion di rallegrarti, figlia,
Tra poche ore aspettando le tue nozze?
E che sposa sarai del più gentile,
15 Più bello, e forte prencipe, che attenda
Regno in Italia dopo i dì del Padre?
ADRIANA
Qual è cotesto prencipe?
ORONTEA Il figliuolo
Del re, che a senno suo stringe, et allenta
20 Il morso al regno antico de’ Sabini.
Il giovane animoso eri spronato
Da doppio spron, d’amore, e di pietade
Qui giunse, cinto di fiorite squadre
A l’assedio discior da queste mura,
25 Che già per nostro mal disciolto n’era.
Il padre tuo, che pria lettere, e messi
Sopra questo maneggio avea spedito,
Conchiuse il maritaggio èri in presenza,
E assicurò da’ suoi nemici il regno,
30 non die’ la caccia lor, sendo già sera
E da lunga via stanchi i Sabini.
Né questa notte entrato nel palagio
Sarebbe il re per la celata porta,
Che nel castel risponde, se’l desio
35 Di palesarmi quanto era successo,
Non ve l’avesse occoltamente tratto.
Dove anco stassi, e donde uscirà tosto.
Tu piangi? Tu rivolti il viso altrove?
NUTRICE
Esser non può, che vergine inesperta
40 Non si scuota, e spaventi a questo suono,
E non le paia a prima faccia grave
Ciò, ch’ella ancor non ha provato mai.
ORONTEA
Che rispondi?
ADRIANA Rispondo, che non posso
45 Risponder se non ho prima licenza
Di farlo da colei, che mi domanda.
ORONTEA
Hai licenza, rispondi.
ADRIANA Maritarmi;
Madre, e signora mia, con pace vostra
50 (Pesami il dirlo, fin su’l cor) non voglio.
ORONTEA
E sei osa di dirlo, e di mostrarmi?
Né sotterra t’ascondi mille braccia?
Non puoi risponder contra il voler mio,
E contra il mio voler disvoler puoi?
55 Puoi, e vuoi ripugnare a’ tuoi maggiori?
ADRIANA
Io non conosco alcun maggior di Dio.
ORONTEA
E che vuoi dir perciò?
ADRIANA Che Dio medesmo
Sforzar non vuol la volontade altrui,
60 E che né voi sforzar la mia vorrete,
Che mi die’, sua mercè, libera Dio.
E le nozze non hanno effetto, dove
Non dan gli sposi libero il consenso.
ORONTEA
Noi non vogliam costringerti, che vogli,
65 Ma che vogli voler.
ADRIANA Voler non posso.
Il corpo, che da voi, che da mio padre
Ricevei, dar potete a chi vi piaccia,
(Quando vi piaccia) in preda l’alma, dove
70 Né voi, né d’egli ha parte, né fatica,
Datami in dono dal Signor di sopra,
Non donerete altrui contra mia voglia.
ORONTEA
Se non vuoi, che stia l’alma, dov’è il corpo,
Disgiungerem dal corpo a forza l’alma.
NUTRICE
75 Figlia non dir così. Modi sì strani
Non t’insegnò giamai la tua nutrice.
Buon figlio aver non de’ proprio volere
Dove al voler paterno s’attraversa.
Se intelletto non hai, figliuola, credi
80 A chi n’ha più di te. S’hai intelletto,
Intendi, che dal padre, e dalla madre
Vinta nel senno sei, come negli anni.
E che questi ad amar te cominciaro
Pria, che tu stessa te medesma amassi.
85 E però credi, che i parenti tuoi
Sendoti affezzionati, e sendo saggi
Non ponno errar nel procurarti il bene.
ORONTEA
L’ho udita, e a pena alle mie orecchie credo.
La veggio, e a pena credo agli occhi miei.
NUTRICE
90 Temprate l’ira voi, somma reina.
Che a poco a poco ella s’andrà avvezzando
A consentirvi. Tra le fiere sono,
Tratte dagli antri, indomite, e silvestri.
Che dai vezzi, e dai commodi addolcite
95 Con sue lentezze il tempo, umilia, e doma.
ORONTEA
Prendo il savio consiglio, che mi dai.
Cosi prenda costei quel, che a lei desti.
NUTRICE
Udite dunque le sue scuse prima,
Favellando con lei più quetamente.
ORONTEA
100 ll farò, purché al fin meco s’accordi.
E al mio voler la mente sottoponga,
E all’anel dello sposo offra la mano.
ADRIANA
Se ’n tutta la mia età corsa fin’oggi,
Madre, io qual figlia ubbidiente mai
105 Le labra a contradirvi non apersi;
Ma del vostro voler legge mi feci;
Turbar non vi dovrete a questa volta,
Se al vostro imperio, e all’uso mio resisto.
Ma con la rimembranza del passato
110 Perdonarmi il presente.
ORONTEA Anzi per questo,
Credo, che non vorrai senza construtto
Romper la tua ben nata, antica usanza,
E la perpetua in ubbidir chiarezza,
115 Di cui ti vieni ornando a dramma a dramma;
Perdere, et oscurar così in un punto.
ADRIANA
E voi, che madre pia sempre mi foste,
Di compiacer tutte mie voglie, vaga,
Non vorrete mutarvi oggi in matrigna.
ORONTEA
120 Rendimi dunque grazie, e dammi il premio
Di tanta cortesia, che ’n me provasti.
Non ripugnando a quel, di ch’or ti prego.
ADRIANA
Torrò dunque marito, con cui debbo
Viver fino alla morte, senza averlo
125 Veduto prima?
ORONTEA Ei fa teco il medesmo:
Così l’ubbìdienza fia più grata.
Con più sano occhio noi per te il vedemmo.
ADRIANA
Vedesti il volto, e l’animo sta chiuso.
ORONTEA
130 Tu, dunque, a che volevi averlo visto?
ADRIANA
Sono ancor troppo tenera alle nozze.
ORONTEA
Se sì tenera sei, lasciati dunque
facilmente piegar.
ADRIANA Son troppo acerba
135 Al maritaggio, dico.
ORONTEA Acerba certo.
Al maritaggio no, ma al voler nostro.
ADRIANA
Senza voi non saprei, senza mio padre
Vivere un’ora, e uscir di casa vostra
140 Non voglio ancor. Né voi sì crudi, credo,
Sarete, che scacciarmene vogliate.
ORONTEA
A ciò provisto abbiam. Viene il tuo sposo
In casa nostra. In lui tuo padre vuole
Por la somma del regno, io in te del tutto.
ADRIANA
145 Madre mia cara io voglio ancor qualche anno
Viver sotto la vostra disciplina
Beendo i saggi vostri, almi ricordi.
ORONTEA
Fai ben s’hai cotal animo. Il mio primo
Ricordo è, che ubbidischi in questo a noi.
ADRIANA
150 Io, che del mio fratel morto, la imago
Lacera ho innanzi, avrò pensier di sposo?
ORONTEA
A punto questa è la cagion, che noi
Ti maritiam. Per supplir dove ei manca.
Perché non resti senza erede il regno.
155 Tu in loco del fratel lo sposo acquisti.
Il genero abbiam noi del figlio in vece.
ADRIANA
Disubbidir non voglio al gran precetto,
Ch’egli mi diè nel passo estremo; voglio
Chi mi darà l’anel, la testa prima
160 Mi dia quel, che ’l mio germano uccise.
ORONTEA
Non ti metter pensier, ch’egli è per farlo,
E perché tu il disponghi, or fian le nozze.
ADRIANA
Vo pria piangere un anno il mio fratello.
ORONTEA
Stato è pianto abbastanza dalle piaghe
165 De’ suoi nemici in lagrime sanguigne.
Pur se piangerlo vuoi, piangi anco sposa.
Il che tanto farai più di cor, quanto
Ti veggia collocata mal tuo grado.
Fra un anno sarai gravida d’un figlio
170 Onde forse uscirà l’alta vendetta
Cantra tutto’l paese de’ Latini.
E questo dal fratel fia più gradito,
Che le lagrime tue sterili, e vane.
ADRIANA
Dunque or tutta s’accoglie in me la guerra?
ORONTEA
175 Anzi tutta la speme dello stato.
ADRIANA
Perché non aspettiam, che s’oda intorno,
Che colui, che sarà genero vostro
Re sarà ancor di questo nobil regno?
Che forse appariran più alte nozze.
ORONTEA
180 Affrettiamo il locarti anzi per questo.
Che molti, non di te, ma del tuo regno,
Innamorati, non vengano a gara
A chiederti. E noi dar non ti potendo,
Fuor che ad un sol, non siamo astretti agli altri
185 Dar ripulsa, e non ci tiriamo adosso
L’odio di tutti i prencipi vicini.
Né vogliam, che di noi più alta vadi,
Né di te stessa. Può cader chi sale.
E il Re de’ prima perder la corona,
190 Che romper la sua fede.
ADRIANA
Io già non sono
Tenuta ad osservar le sue promesse.
ORONTEA
L’erede, che aver vuol l’ereditade,
Le promesse osservar del padron deve.
ADRIANA
195 Lasciate almen, ch’io mi riabbia alquanto
Dal dolor del fratel, che ancor mi preme.
Né sì languida, e brutta alcun mi veggia.
ORONTEA
Anzi per iscusar la tua bruttezza,
Il fresco affanno tuo, verrà opportuno.
ADRIANA
200 Concedetemi almen termine breve
A pensarvi a dispormi.
ORONTEA Ogni consiglio
Di noi donne improviso è assai migliore,
Se non quel, ch’ora hai tu. Poi qui condotto
205 E il prencipe adescato a questa speme
(E quel, ch’è più) tra noi con l’arme in mano.
Ora ritratterem quanto si è fatto?
Ora direm, che la figliuola nostra
Non vuol con nostro, e suo disnor? Che noi
210 Non possiamo voler se non vuol ella?
Così di guerra in guerra andrem cadendo?
ADRIANA
Io dunque son la vittima, che deve
Tosto cader per l’acquistata pace.
Ma se non val ragion, vagliano i preghi.
ORONTEA
215 Se vuoi, che ’l prego tuo meco abbia forza,
Che non l’han teco i miei, che poi fur primi?
Ma per me ti darei qual ti piacesse,
Quando fosse anco il figlio di Merenzio.
(Benché so, che nol vuoi, che l’odii a morte)
220 Ma il tuo padre, e signore (a quel, ch’io stimo)
Vorrà che a senno suo, non che a tuo facci.
Et ecco a punto, ch’egli esce col mago
(Che ersera entrò con lui per consolarlo)
A lui ti volgi, e lui medesmo ascolta.
[3.2]
Atrio, Adriana, Orontea, Mago.
ATRIO
Credo, Adriana, ch’abbi già raccolto
Dalla reina quanto abbiam disposto
Di te. Che sai, che vigiliamo ogn’ora
Sovra il tuo ben con attentissimi occhi.
5 Resta, che ti disponghi, e ti apparecchi
Alle tue nozze. E levi al ciel le mani.
Che né tu, né d’alcun di te più saggio
Né con man, né con lingua, né con mente
Saputo avrebbe fingerti uno sposo
10 Miglior di quel, che noi t’abbiamo eletto.
Che a te giungersi, e a noi succeder merta.
Che veggio? Piangi forse? Che ti affligge?
Di che sospiri? A chi dich’io? Rispondi.
Non vorrai quel che vuole il re, e tuo padre
15 E la tua genitrice, e’l tuo germano
(Benché già morto) e tutto il regno insieme?
ADRIANA
Questo mai non vorrò, padre, e da questo in-
Fuor, non vi negherò cosa altra mai.
ATRIO
Sei Adriana, o sei un mostro, o sei
20 Uno spirto, o una furia dell’abisso?
Tu non vuoi? A voler ti sforzeremo.
ADRIANA
Sforzato esser non può chi sa morire.
ATRIO
Tu morrai.
ADRIANA Girò incontro a mio fratello.
ATRIO
25 Qual mano mi ritien da stringer’ora
La giusta spada, e scioglierti dal busto
Quel capo, onde già sciolto è lo intelletto?
Che porta quella lingua audace, e degna
Che dopo sì profana empia parola
30 Non pronunzii mai più parola alcuna?
Tu, tu, figlia, proterva, avesti ardire
Al reale, al paterno imperio opporti?
Se di tua madre il casto animo noto
Non mi fosse (ascoltando quel che dici)
35 Giurerei, che non fossi mia figliuola.
Ah sfacciata, impudica.
ORONTEA Moderate
L’ira, Signor, ch’ella sarà contenta
Di quanto a voi fia a grado. Il so ben’ io.
40 Alla inesperienza verginale,
E al dolor del fratel, date perdono.
ATRIO
Donzella, che ritrosa alle sue nozze
Troppo si rende, per pietà nol face.
Ma per pensiero immondo ascoso in seno,
45 Che non osa mirar la luce in faccia.
ORONTEA
Al voler nostro, e al giogo maritale
Pentita del suo error, piegherà il collo.
ATRIO
O a giogo maritale, o a mortal colpo.
Stai fissa ancor ne la pazzia di prima?
ADRIANA
50 Padre, voi ben potete trar la spada,
E quella per li fianchi, e per lo petto
Mille volte passarmi, ritogliendo
La vita che mi deste, ch’io umile
Starommi, e ubbidiente a’ colpi vostri;
55 Ma la mente invisibile, immortale,
A cui fren non può por forza, né ingegno,
Né con foco potrete, né con ferro
Vincer, né ritener. D’ogni supplizio
Avete potestà su questo corpo
60 Generato da voi, da voi prodotto.
Su l’alma no. Però canchiudo, ch’io
Porger più tosto eleggo il collo al ferro
Micidial, che alle braccia dello sposo,
ATRIO
Non m’impedir, che per coteste chiome
65 Prenda questa megera, e di mia mano
Sacrificio ne faccia ad Imeneo.
MAGO
Fermisi vostra maestà, Signore,
Che star giunti non ponno il regno, e l’ira.
Poi che ’l regno è una giusta signoria,
70 Et una ingiusta servitute è l’ira.
ATRIO
Può esser, ch’ieri, et oggi i mei figliuoli
(Anzi non mei, che regger non li posso)
Lega a disubidirmi abbiano fatto?
E ch’esser di tai figli io voglia padre?
75 Esser può, che tu sii prima sì ardita,
Che ardisca dirlo, e poi sì pertinace,
Che perseveri ancor nel tuo parere?
Né di vergogna il tuo viso s’accenda,
Nè la tua lingua di timor s’agghiacci?
80 Che sprezzi quella forza, e quello sdegno,
Che paventa ciascun di questo stato?
E di chiamar colui per padre ardisca,
A cui tu neghi esser figliuola? Spento
Sia il seme di tai figlie. Io vo più tosto
85 Sentir la doglia della vostra morte,
Che l’odio della vostra ingrata vita.
MAGO
Figlia, abbiate di voi stessa pietade.
ATRIO
Quest’è la somma. Io torno nel palagio
Per passar nel castello, et indi uscire
90 Per la porta, ond’io venni, e giunti in campo,
Dividere egualmente tra’ soldati
Le guadagnate spoglie de’ nemici.
Poi col prencipe sposo darò volta
Nella cittade a celebrar le nozze.
95 E (testimonii siate voi) ti giuro
Per questa sacra e coronata testa,
Per questa invitta mia, vindice destra,
che se di ripugnanza, o di tristezza
In un minimo accento, un minim’atto
100 Mostri un sol segno, io lascierò un essempio
A tutti i padri, e a tutte le figliuole
Perverse, come tu; gravi, com’io,
A quei di farsi riverire, e a queste
Di riverirli, si spietato, e chiaro,
105 Ch’ogni etade, ogni istoria, ogni linguaggio
Abbia di che parlar, di che stupirsi.
E d’Eolo, e d’Atamante, e di Saturno
Mi mostrerò più crudo. Sappi certo
Ch’io voglio quel che voglio, perché è giusto.
110 E voglio quel che voglio, perché voglio.
E pensa di corcarti questa notte
Nel letto maritale, o nel sepolcro.
ORONTEA
Non ve ne andate voi di grazia, o saggio
Mago, e gran secretario delli dei,
115 Ma restando, provate a questa sciocca
Persuader con vostri dotti avisi
E celesti ricordi, il proprio bene.
ATRIO
Restate, poi che alla reina piace.
MAGO
Farò, per farlo, ogni possibil’opra.
ORONTEA
120 Andiamo dentro, tu nutrice, e voi
Amiche donne. Voi, signor, restate
Qui con costei. Tu, figlia, resta, e ascolta
Quest’uom, che l’ascoltarlo sempre giova.
[3.3]
Mago, Adriana.
MAGO
O Signora, io veggio ben, che la Fortuna
Cominciato non ha per istancarsi
A pungervi, e piagarvi d’ogni parte.
Di quel che più bramate esservi parca,
5 E prodiga di quel ch’avete a schivo.
Benché non so, se la Fortuna, o voi,
Più valor mostri, e più costanza serbi.
Che vi pare or ch’io faccia? Ch’io v’essorti
A novo maritaggio, o ch’io m’assida
10 A sospirar con voi? Che rispondete?
ADRIANA
Che volete, signor, che vi risponda,
Se non, che quando una di noi ci nasce,
Se le devrebbe far del proprio sangue.
Il primo bagno, e culla del feretro?
15 Che posso dir, se non dolermi al cielo
Dello infelice stato di noi donne,
E invitar tutte in suon flebile unito
A pianger meco le miserie nostre?
Che cessiam dunque, o donne, d’accordarci
20 A pianger tutte insteme i nostri mali?
Di pigliarci per mano, e disgombrando
Il mondo parzial, di noi dolenti
Correre ad affogarci in mezo all’acque?
E che vogliam far qui tra padri duri,
25 Tra crude madri, fra infedeli amanti,
Fra sposi alteri, tra tiranni ingiusti,
Tra gli uomini, mortali a noi nemici?
MAGO
E ’n qual profondo mar le vele vostre
Portar lasciate ai venti dello sdegno?
30 Or non sapete voi, che la virtute
Da’ contrarii agitata mei’ si scopre?
Non sapete; che odor soave, e grato
Rendono allora gli arbori odorati,
Quando soffian tra lor contrarii venti?
35 Tempo non v’è da spendere in querele.
Discorriam dunque chetamente il tutto,
E veggiam se rimedio vi si trova.
ADRIANA
E qual consiglio, o qual rimedio a questo
Si può trovar, se nol trovate voi?
40 Far sapere a Latino i gran travagli,
Di cui sorte improvisa or mi circonda,
Qual fiera cinta d’arrabbiati cani
(Con lui partita ogni ventura mia)
Non possiam che per farlo, uopo è di tempo.
45 Impetrar tempo non si può. Tentato
Ho questo prima con ripulse aperte,
E preghi simulati. E questi, e quelle
Riuscitemi son d’effetto vòte.
La madre, il padre fier (se però padre,
50 Se madre denno dirsi aspri nemici)
Voglion, che questa sera i’ chiuda gli occhi
Nella morte, o nel prendere il marito.
Che ’l breve spazio di tre giorni soli
Comprerei con tre anni di mia vita.
55 Essere a colui sposa, io non consento.
E tutto trarmi dalle vene il sangue
Pria lascierei, che questo sì di bocca.
Qual fé, qual cor darei a lui, se dato
L’ho già a Latino? Come potrei farmi
60 Sua, se mia più non son, ma tutta d’altri?
Colui meco giacendo, giacerebbe
Con un cadaver puro, o un fier nemico.
Lasciar lo mio signor, né vo, né posso.
Posso, e voglio lasciar prima la vista,
65 Anzi la vita, che sol vive, e nacque
Per esser cara a lui, da lui goduta.
Ben si dorrebbe, e giustamente, ch’io
Tanto della sua fé temuto avessi,
E la mia poi sì tosto avessi rotto.
70 Come colui che navica, a cui sembra,
Che parta il lido stabile, e part’egli.
Anzi il giudicio in sé, li dèi giurati
Da me, torrebbon con giusto gastigo,
Facendomi provar, che alcun non deve
75 Più tema aver d’uom che delli dèi.
Scoprirlo al padre è vano. E chi non vede,
Ch’ei vorrà prima ch’io di fede manchi,
Che mancarn’egli? Ma facciam che voglia.
Quand’egli intenda poi qual’io m’elessi,
80 Non leverà da farlo ogni pensero?
Ma quando balenasse anco speranza,
Che volesse mancar di fede il padre,
E giunger mi volesse a un suo nemico;
Chi terrebbe giamai sì grande ardire,
85 E sì picciol pensier di sua salute,
Che portasse a mio padre annunzio tale?
Alla madre scoprirlo fòra peggio.
Di tanto sdegno sta infiammata contra
Chi la spoglia dell’unico figliuolo,
90 Che pietose appo lei Progne, e Medea
Potrebbon dirsi. E ancor Tigre, a cui abbia
Veloce cacciator, rubato i figli.
Nascondermi, o fuggir non m’è concesso.
Quanto più alto è il grado, ov’or mi trovo,
95 Tanto vista, e notata meglio sono.
Come cittade in alto poggio assisa.
Prender lo sposo, che mi dà mio padre
Per farne strazio poi la prima notte,
(come di Danao fer le ardite figlie,
100 Riempiendo io tra lor lo scemo loco)
Troppo apporta periglio, e troppo danno.
Che prima, ch’io levassi a lui la vita,
Egli levato avrebbe a me l’onore.
L’onor, che al mio signor solo conservo.
105 Dissuader colui dalle mie nozze
Potrei sperar, quand’io non fossi erede
Di questo ricco e bellicoso regno.
Ma il mio regno medesmo or mi fa guerra.
Che si de’ dunque far? Voi, mio gran mastro,
110 Che alta scienza, esperienza somma
Nelle divine, e umane cose avete,
E avete potestà di parlar meco,
D’ogni afflitto speranza, e aiuto certo;
Voi, che del nostro amor principio, e mezo
115 Foste; voi, cui Latino mi commise,
Ch’io ricorressi in ogni mio bisogno;
Per l’amicizia candida, e tenace,
Che con l’amante mio giunta tenete;
Per quella confidenza, ch’egli ha in voi;
120 Per quella riverenza, ch’io vi porto;
Per liberar dall’ira acre del padre,
Dalle rapaci man del novo sposo,
Dallo sprezzar la fede, altrui giurata,
Dal perder l’onestade altrui dovuta,
125 O da morte, e da inferno una donzella,
Figlia d’un re, d’un vostro amico sposa,
A voi raccomandata, a voi ancella,
Amante sì fedel, sì giovanetta,
Lungi dal suo amator, del fratel priva,
130 Dal padre, e dalla madre abbandonata,
Che non sa, che non vuol volgersi altrove;
Tentate, aprite, imaginate modo
Di darmi alcun soccorso, il qual s’io vile
Femina a riconoscer non son atta;
135 Riconosciuto fia dal mio Latino
Cui la vita due volte avrete dato
La mia, e la sua, che nella mia si vive.
Deh non v’incresca farlo. Poi che l’uno
Prender de’ duo partiti mi bisogna.
140 O che mi diate voi presto consiglio,
O ch’io morte prestissima mi dia.
MAGO
Coteste vostre lagrime, con voi
Movonmi a lagrimar. Né ciò ricuso.
Quando più onesto è il pianto che spargiamo
145 Nelle miserie altrui, che nelle nostre.
Ma in tanta angustia, e inopia di partiti
Riprovati da voi, struggomi dentro
Di voglia, e d’impotenza d’aiutarvi.
Meco discorro, e cerco, e trovo questo
150 Solo, che nulla trovo.
ADRIANA Io so, Signore,
Che il saper vostro è tanto, che al ciel poggia,
Sotterra scende, e l’aria, e l’onde abbraccia,
E mi potete aitar. Pur quando d’altro
155 Non vogliate aiutarmi, almen vi prego,
Che una mi diate, o due di tosco dramme,
Che di nettare invece eterne saranno.
Quel, che a’ dannati è pena, a me sia grazia.
Di questo ho somma sete, e vi prometto
160 Render del mortal don grazie immortali.
Perché con men mio carco, men dolore
Del mio Latino, con maggior prestezza,
E con minore strepito i’ mi sciolga
Dalla vita, dal duolo a e dalle nozze.
165 Altramente, so ben, quel ch’io disegno.
Divenuta crudel contra me stessa
Con maggior biasmo mio, maggior sua doglia
Nel mio petto (mercè la pronta mano)
Convertirò l’inessorabil ferro.
170 E vedrò se mio padre sarà buono
Per darmi, mal mio grado, oggi marito.
MAGO
Voi già mi sconguiraste per tai cose;
(Che tale amor porto a Latino, e tale
Ad Adriana; e con si forti nodi
175 Legano i dolci preghi un cor gentile)
Che grazia alcuna a voi negar non posso.
Pregovi ben, che ciò resti sepolto
In profondo silenzio, e ’n alto oblio.
Onde la mia pietà non sia, com’acqua,
180 Chi gli altri monda, e se medesma tinge.
ADRIANA
Datemi pur questo velen, che questa
La via proprio sarà d’assicurarvi,
Che ciò non s’abbia a risaper.
MAGO Veleno
185 Non vi darò già io, che s’io ve’l dessi,
Degno i’ sarei di berlo poi. Ma intenta
L’orecchie, e’l cor prestate al mio consiglio,
Io vi darò una polve, che mi diede
Di sua man propria il sonno allora, quando
190 Io visitai le sue cimerie case,
Piena di inestimabile virtute.
Questa beendo voi con l’acqua cruda,
Darà principio a lavorar fra un poco.
E vi addormenterà sì immota, e fissa,
195 E d’ogni senso renderà sì priva:
Il calor naturale, il color vivo,
E lo spirar vi torrà sì, sì ’i polsi,
(In cui è il testimonio della vita)
Immobili staran senza dar colpo;
200 Che alcun per dotto fisico, che sia,
Non potrà giudicarvi altro, che morta.
Et io, che lo saprò, ne starò in dubbio.
E tante ore starete cosi, quanta
Fia stata la misura della polve
205 Ecco l’arca real là fuor del tempio,
Dove i defonti della casa vostra
Composti son, dal fratel vostro in fuori.
Per morta in questa vi porran. Ma dite,
Non prenderavvi orror di tanti morti?
ADRIANA
210 Se questa via dee darmi al mio Latino,
Non per l’arche passar fra i corpi morti;
Ma tra l’alme dannate per l’inferno;
Non mi spaventerei. Seguite pure.
MAGO
Frattanto manderem fidato messo
215 Occoltamente in fretta al vostro amante,
Che poco ancor da noi lontan camina,
Con lettere secrete ad avvisarlo
Di tutto ’l fatto. Il qual senza dimora
A dietro l’orme rivolgendo, tosto
220 Sarà qui giunto, et egli, o (se fia tardo
Alquanto) io vi trarrò de l’arca fuori.
E travestita andrete fuor con esso.
E così nella morte, e nel sepolcro
La vita troverete, e il maritaggio.
225 Così l’ira paterna fuggirete,
Le odiate nozze, e con pietà commune
senza alcun biasmo, senza alcun periglio
Lieta cadrete al vostro amante in mano.
ADRIANA
Trovar non si potea strada migliore.
230 Né di voi sperar altro si doveva.
Né d’altro da me credersi era giusto
MAGO
Ecco la polve, ch’io vo darvi, tanta
Vi farà morta star ben sedici ore.
E sedici ore ben sono abbastanza.
235 Prendete, e fate com’io dissi.
ADRIANA Intanto
Non vi si scordi, che ne vada il messo.
Perché n’abbia il mio amante avviso tosto.
O virtuosa polve, fammi lieta.
240 Fa’ che’n polve non vada il mio disegno.
Chi di me fia più fortunata in terra?
Signore, odi il mio prego, e l’essaudisci.
Mirerò mai più lieta il mio Latino?
MAGO
Entrate in casa, io dirò a queste donne,
245 Che a punto ad incontrami or escon fuori,
Che disposta venite a queste nozze.
Donne, fornite il nobile apparecchio
De le beate nozze, e ’n chiaro grido
Invocate Imeneo. Poiché placata
250 Vien la novella sposa al suo marito.
CORO
Specchio del dì, foco celeste, e sacro
Al lido occidental porta la faccia
Spronando col desio nostro il camino,
E nel salso del mare, ampio lavacro
255 Tu la tua Teti in dolci nodi abbraccia,
E la sua sposa il prencipe Sabino.
Prolunga il matutino,
Pensa stringer la ninfa tra le braccia,
Di cui mutata i rami, or ti consacro.
260 Fa’ vendetta di Clizia; ch’ella tardi
Più dell’usato il tuo bel viso guardi.
E tu, s’a riscaldarti il freddo seno,
Cinzia, entrar mai d’amor fiamme cocenti
Da i Lammii, o da i Menalii sassi scosse;
265 Nel teatro del ciel puro, e sereno
Scopri veloce i tuoi forbiti argenti,
Tra le compagne in folta squadra mosse.
De l’aureo cerchio tuo, di rai lucenti
270 (Come d’ogni virtute il capo ha pieno)
Cingi alla sposa nostra oggi le chiome.
Così dato le avrai la gloria, e’l nome.
Tu, ciel, comincia accender le tue stelle;
Tu terra, a gara alluma olivo, e cera,
275 Portando i cigni quel, questa le pecchie.
Sicché, se’n terra, o in ciel di più fiammelle
Splenda, non sappia pur la stessa sera,
Che fuor d’ogni uso attonita si specchie.
Il tutto or s’apparecchie
280 Che poi su per li tetti a schiera a schiera
Le lucerne comparse, e le facelle
Della notte squarciando il fosco velo,
Emule sian dello stellato cielo
Vieni agli sposi, e tu notte beatrice,
285 Lunga traendo al trappassar dimora,
Sul tuo stellato carro trionfando.
Vieni, poiché saper sola a te lice
De’ lor diletti onesti il tempo, e l’ora.
E come l’ape i fior va depredando,
290 Tu va, saggia, adunando
Da’ bei lumi, onde ’l ciel tutto s’indora,
Ogni influsso più prospero, e felice.
Poi tutti insieme accolti, eletti, e novi
Sopra i duo sposi a man piene li piovi.
295 Tu le mani intrecciato, e ’l viso cinto
Della tua casta, immaculata face,
Vieni, è grato, e legitimo Imeneo.
Del grazioso giogo il collo avvinto,
Che ’n duo corpi una sola anima face,
300 Lasciando il chiaro vetro Pegaseo.
Voi, che al pastore Ascreo,
Dotte sorelle, apriste ingegno audace.
E tu, Febo, sgombrando Eurota, e Cinto,
Portate a queste nozze il suono, e ’l canto,
305 Cantate degli sposi il doppio vanto.
Vieni del sommo re moglie, e sorella,
Che hai regno sopra i geniali letti
Con Lucina dipinta di pietate.
Portando di tua man le caste anella.
310 Che insegnino a goder casti diletti,
Sulle esperide piante, a nel ciel nate:
Con gemme sì pregiate,
Che ’l lor pregio la sposa in modo alletti;
E le dita, anzi ’l cor le stringa, ch’ella
315 In vece di tai gioie non si aggrave
Dar la più cara, e ricca gioia, che ave.
E tu Prometeo, al lume eterno ascendi;
E avvicinando a quel l’audace verga;
Del divin foco aver semi procura,
320 E a questi sposi poi le facci accendi.
Tu segno amato, in cui allora alberga
Il Sol, che’l Capricorno più non cura
(Accioché un’acqua pura
S’appresenti agli sposi, e ’n lor s’asperga)
325 Con pace del tuo amante a noi discendi.
E dell’acque, che stan su ’l fermamento
Giunte in ghiaccio, empi pria l’urna d’argento.
Voi, dive, a queste nozze venite anco,
Che attorceste gli stami altrui vitali,
330 E col fuso adduceste un sì bel sole;
ornate questo dì d’un velo bianco,
E trame apparecchiate auree immortali
Per quando giunga la bramata prole.
Lo sposo omai si duole,
335 Espro, di te, che innanzi al giorno salì,
Né di correre ancor ti mostri stanco.
Rimanti al sol da tergo, accioché come
Tu muti, muti la donzella il nome.
Il fine del Terzo Atto.
[4.1]
Messo, Coro.
MESSO
Chiaro occhio del ciel, che non ti ammanti
D’una pallida ecclissi, e tenebrosa,
Sendo ecclissati i bei lumi, onde avevi
La luce, come l’ha da te la luna?
5 Né più potendo tu co’ raggi tuoi
Cosa mostrarne, che ne piaccia al mondo?
Mentre nell’aere circosparso appesa
Penderai; piangi, o terra, che prodotto
Hai la mortifer’erba, il fier veleno,
10 Che ha dato morte alla real donzella.
Non rendete più grazie al sol nascente,
Erbe, il mattin, com’è costume vostro.
Poi che alcuna di voi virtù non ebbe
D’essaudir nostri voti, e sanar lei.
CORO
15 Ahi, che voce si sente
Dietro a noi sì dolente?
MESSO
Ah donne ingrate, e più che marmi dure
(Che questi almen tacendo mostran segno
Di pensier, di dolor, di meraviglia)
20 Che fatte di cotesti accenti lieti,
Da queste porte mille miglia, e mille
Banditi eternamente? È questo quello,
Amor, che al re portate, e alla figliuola?
CORO
Perché contra ragion così ne incolpi.
25 Messo gentil? Palesa ancora a noi
Quale improviso, insolito accidente
In sì questa bonaccia
Della gioia real turba la faccia.
MESSO
Voi dunque qui cantate, e non sapete
30 Il pianto ancor, che si fa dentro?
CORO Nulla
Sappiam di ciò. Deh non t’incresca dirlo.
MESSO
Dirò, sè dai singhiozzi, e dai sospiri
Della voce il camin non m’è interchiuso.
CORO
35 Come al giorno la notte è ogn’or vicina,
Così col riso il pianto ogn’or confina.
MESSO
Dopo il secreto ragionar contesto
Fra il gran mago, e la vergine reale;
Poi ch’ella nel palagio, esso andò al Tempio,
40 Le donne ornate di letizia il volto,
Ruppero dentro, e accelerando i passi,
All’antica reina rapportaro,
Come la figlia inespugnabil pria,
Con accorto consiglio arresa s’era.
45 E rotto il duro suo primo proposto
Alle aborrite nozze era discesa.
CORO
E fu pur ver. Se ’l vero egli ne disse.
MESSO
Del che lieta Orontea tosto si trasse
A recitarlo al re, che d’ira acceso
50 Contra la pertinacia della figlia,
Da qutesti tetti ancor non era uscito,
Della cittade, a gran negocii intento.
Mentre assisa col re stava Orontea,
Mosse Adriana: e innanzi a lor comparsa,
55 In supplie sembiante, e ’n gesto umile,
Cader lasciossi riverente a terra
A piè de’ gran parenti; e’n lor figendo
Gli occhi; sciolse la lingua a queste note.
“O genitori mei, con l’ostinata
60 Durezza, onde mi cinsi il cor d’intorno;
Se pur v’offersi (che vi offersi certo)
Pentita del mio error, conoscitrice,
In colpa me ne do con questi colpi,
Che la man nuda al petto nudo imprime:
65 (E ciò dicendo percoteasi il petto)
E d’avervi noiato ho maggior noia,
Che non aveste voi del mio noiarvi.
E più digiuna della pace vostra
Son, che non sète voi delle mie nozze.
70 E quinci mai non sorgerò, se voi
Sovra la testa mia non ispargete
Del bramato perdon l’alma rugiada.
Che s’egli avvien, che chiave avara questo
Sospirato tesor mi neghi, e chiuda;
80 Mi parrà, che fuggendone Imeneo,
Alle mie infauste e sfortunate nozze
Col velenoso crin, megera sieda.
E trattone il dì d’oggi, vi prometto,
Che mai più non udrete questa lingua
85 Levarsi contra voi, né questo core”.
CORO
Parole da spezzare un cor di marmo.
MESSO
Di tenerezza lacrimando allora
I genitori suoi, l’alzar da terra.
Quei per la destra man, questa per l’altra.
90 E stampandole doppio bacio in fronte,
Et influendo in lei grato perdono,
Al primo seggio della grazia loro,
Commendandola assai, la ritornaro.
CORO
O corrisponda al bel principio il fine,
95 E grato vento in grembo all’onde morte
Col tuo dolor la tema nostra porte.
MESSO
Ciò fatto, comandò la bella sposa,
Che se le apparecchiasse un fresco bagno
Soavissimamente temperato,
100 In cui lavata, e d’odor vari sparsa
(Per non contaminar le nozze sue)
Si rivestì d’un manto, che’n bianchezza
Giostrar potea col latte, o con la neve.
E poi che l’aureo crine in aurea rete
105 Con maestrevol cerchio ebbe ritorto,
E dallo specchio suo preso consiglio;
Già tutta ardendo nelle proprie gemme,
E coronata delle sue donzelle;
Entrò nel bel giardino, e con gioiosa,
110 Che parea proprio innamorata mano,
Andò cogliendo i più ridenti fiori,
Le più vaghe erbe, e le più care fronde,
E se n’empìo le man, se n’empìo il grembo.
E poi se ne tessé nobil ghirlanda,
115 A composti capei soave peso.
Onde parca l’augello orientale,
Che’n grembo ad odorate, elette fronde
Del propinquo morir l’annunzio aspetti.
O l’incauta Proserpina, allor ch’ella
120 Della Siciglia nel fiorito seno
Dal notturno amator rapir si vide.
CORO
Non è già questa ancor trista novella.
Ma tristo, e pien d’antiveduti guai
È ben l’augurio, o messo, che ne fai.
MESSO
125 Tornata dal giardino alla sua stanza,
Tosto ch’ebbe in affetto ogni sua cosa.
Assisa sopra il letto ad una ad una
Abbracciar volse le donzelle sue.
E con parole affettuose e vive,
130 Che, con tacita forza dalle luci
Altrui spiccavan liquidi cristalli,
Ringraziò tutte degli ufficii loro,
Che avean d’intorno a lei fin’allor fatto.
Le sue parole, e gli altrui merti ornando
135 Vi varii premii, dispensati in giro.
Dicendo: “Quel, c’oggi sposar mi deve,
Non vorrà, forse da mei preghi addotto
Qui soggiornar. Né voi, forse verrete
Meco là, dove andar bramo, e disegno,
140 Per la sorte che qui sempre m’afflisse.
E Dio sa, se mai più di rivedervi
Impetrerò dalle venture mie”.
Poi comandò che tutta la famiglia
Delle sue serve s’accogliesse altrove,
145 E chiudesson le porte, e le finestre
Della sua stanza. Però ch’ella stanca
Dalla vigilia della notte adietro
Lacrimata da lei sopra il fratello,
Con un breve riposo in braccio al molle
150 Suo letto si volea prender ristauro.
Regnando il maggior sol nel cor del cielo.
CORO
O non questo riposo
Grave travaglio adduca,
E sì buon seme, rio frutto produca.
MESSO
155 Uscendo queste, alla nutrice impose,
Che le recasse un vaso d’acqua fresca,
Per mitigar la sua fervida sete,
Pria che al sonno vicin si desse in preda.
La buona vecchia ubbidiente, e presta,
160 Con effetto rispose alle parole.
E presentòle una gran coppa d’acqua
La qual brillava ancor nella freschezza,
Portata dalla sua natural vena.
E sembrava stemprato, e puro argento,
165 Et empiva la tazza insino al labro.
Con ambe man la giovane la prese,
E mandò la nutrice in tanto a torno
Al bel letto a tirar l’usata nube,
Che quei ch’entro vi son tranquilla e adombra.
170 E con avidi sorsi il liquor tutto
Beendo, al vaso apparir fece il fondo.
Poi favellò: “(s’io posso) mal mio grado,
Padre, non mi darete oggi marito.”
La nutrice or comprende queste voci.
175 Che ne è verace interprete il successo.
Ma già non le comprese allora, quando
Era più di comprenderle bisogno.
E uscita anch’ella fuor, la stanza chiuse,
Dove in mezo alle tenebre ivitate;
180 Adriana restò su’l letto sola.
CORO
Guardane, o Dio, di male
(Benché avvenuto è il mal, che avvenir deve)
O s’egli è troppo greve,
Rendilo almanco breve,
185 O se pur lungo, almen facile, e lève.
MESSO
Lunga stagion le damigelle fuori
Stetter, pur aspettando, che la bella
Sposa riscossa dal soave oblio,
A sé le richiamasse. Ma poi ch’elle
190 Si furo accorte lei non risvegliarsi;
E a gran passo ire il dì verso la sera;
Sparrati gli usci, entraro, et (o pietosa
Vista da far sentir le sue dolcezze
Nelle fiere, negli arbori, e ne’ sassi)
195 La giovane real, la nova sposa
Su’l suo letto trovar distesa, e morta.
CORO
Ahimè, messo, che reciti?
MESSO Le foglie
Della Sibilla. Quel, che né tacere
200 Posso, né raccontar con giuste note.
CORO
E donde questa inaspettata morte
Nasce alla mia signora?
MESSO La cagione
Dicavi chi la sa. Dirvi l’ effetto
205 A me sol basta.
CORO Pur, che si sospetta?
MESSO
Ciascun sospetta (e’l sospettar non falle)
Ch’ella avesse il velen già preparato
A darle in sonno non sentita morte.
210 La sete, e’l sonno a studio simulasse,
E del succo letal condisse l’acqua,
Portata a lei dalla nutrice, mentre
In altri ufficii l’occupava; e poi
L’avvelenato calice votando,
215 Cagionasse ella stessa il suo morire,
Per non si maritar contra sua voglia.
CORO
O misera donzella,
Come miseramente la beltade,
E la tua verde etade
220 Perdesti. E questa, e quella,
Come rosa novella,
Che da raggi del sol percossa langue;
Rimane estinta, in te rimasa essangue.
Ma segui, e dinne, messagier cortese,
225 In che gesto corcata la trovaro.
MESSO
Da’ panni era coperta infino a’ piedi.
Le belle man s’avea composto al petto
Con le dita incrocciate. Il volto vòlto
al ciel tenea. Né suoi chiusi occhi morte
230 Sembrava trionfar, divenir bella.
Come prima, di fior cinto avea il capo,
Su un origlier soavemente posto,
E tal si dimostrava nell’aspetto,
Che viva addormentata ancor parea
CORO
235 O vergine infelice,
Che ti sostieni in piè tra tante noie,
E cadi all’apparir delle tue gioie.
MESSO
Tutte le squadre delle sue donzelle
Tinte la faccia d’un color di terra,
240 E d’un liquor’ onesto di pietate,
Del letto ai fianchi, et alle fronti avvolte,
Da poi che con la voce, e con le mani
Tentar di richiamarla a questa luce,
E si videro al fin non essaudite,
245 Dier nelle strida, e somigliaro i venti,
Quando nel carcer lor chiusi, e compressi
Tra sé stessi gemendo in tuon discorde
Fremon d’intorno ai chiostri e accolto sforzo
Metton per farsi spaziosa uscita.
250 Surse, e si sparse per l’ampio palagio
Un vario pianto, al cui crescente suono
Corse Orontea. Corse il re Atrio, e udita,
E vista la cagion, gli accrebber forza.
Non giunse a voi? E cominciar lamenti
255 Da intenerir l’orror del freddo, e duro
Caucaso, e del sassoso irsuto Atlante.
CORO
Ben avevi ragion. Messo gentile,
Di lamentarti in sì doglioso stile.
Ma il nostro giunger tardi alla tristezza,
260 Contrapesato fin dalla gravezza.
MESSO
Deh, che voi non avete udito nulla;
Restami ancor a dir la maggior parte.
Ma già la notte all’orizonte sale,
E d’ogni intorno il vel bruno dispiega,
265 E dove il re mi manda, andar conviemmi,
CORO
E dove ti mand’egli, se tu giunga
A tempo, ove t’invii, nunzio fedele?
MESSO
Disse, che per veder, se la figliuola
Pur risorgesse, io mi fermassi un’ora
270 (Che mentre con voi parlo e già passata)
Poi (s’altro avviso non intendo) vuole,
Ch’io vada al tempio a dar contezza al Mago,
Del frutto che han prodotto i suoi ricordi.
E ch’ei venga con gli altri sacerdoti
275 In apparato publico, e solenne;
Come la notte abbia sepolto il giorno;
A celebrar l’essequie d’Adriana.
Poi esco dalle mura incontro al novo
Sposo, figlio del re sabino, e a nome
280 Nostro lo avviso, com’egli non ave
Qui più, che far, che può tornarsi a dietro,
S’a parte esser non vuol de’ nostri guai.
Poi, per comission della nutrice
Più là si stende ancora il mio viaggio,
CORO
285 Deh, dillo ancor’ a noi, se ti si presti
Cinzia nel tuo camin fida compagna.
MESSO
Vuol costei, ch’io rompendo ogni dimora,
Tosto raggiunga il prencipe Latino,
Il qual da noi ancor poco lontano
290 Conduce in Lazio le sue vinte squadre.
E trattolo in disparte, il mesto occaso
Gli annunzii della misera Adriana.
Perché, non so. Né di saper mi cale.
Poi ch’ella il ricercarlo m’interdice.
295 Ma lei vedete appunto sulla porta.
Udirete da lei quel, che m’avanza.
CORO
Va col favor del ciel, messo cortese.
[4.2]
Nutrice, Coro.
NUTRICE
Afflitta d’ascoltar sazia di udire,
Dentro gli strani strazii, e l’aspre strida,
Esco fuori a dolermi d’Adriana.
Ah figliuola crudel, se erario fido
5 De’ tuoi secreti m’eleggesti prima,
Perché mi nascondesti or questo solo?
Se in ogni tuo viaggio mi menasti
Compagna teco, perché ’n questo estremo
Sola n’andasti, e mi lasciasti sola?
10 Temesti, che negar ciò ti potessi?
Non sapevi, che più dovea spiacermi
Il viver senza te, che’l morir teco?
Temesti, che seguir non ti potessi?
Qui s’aveva a lasciar la scorza grave
15 Sotto l’fascio degli anni afflitta, e stanca.
Quando in abbracciar l’altre, me abbracciasti
Ancor, perché non dirmi nell’orecchio:
“Nutrice, oggi morrò, seguimi tosto”?
E della tua bevanda farmi parte,
20 Come a ogni altra cosa far solevi?
Ma, che risponderò, lassa, a colui,
Che mi ti lasciò in grembo tramortita
Al suo partir, quand’ei mi ridomandi
Il deposito suo? Dirò, ch’io stessa
25 Via l’ho gittato, e aspretterò la pena,
E per pena la morte. Benché morte
(Se questa ha da condurmi, ove tu sei)
Pena non mi sarà, ma grazia immensa.
Voi scelerate man, voi foste quelle,
30 Che a fin metteste l’essacrabil opra,
Porgendo a quelle labra il vaso (donde
Uscì spietata, e dolorosa morte)
Cui già porgeste gli alimenti primi.
Io quella, io quella fui, che dissi, bevi
35 Figliuola, bevi. E tu figliuola, fosti
Quella cosi inumana, che volesti,
Che chi già dato il nutritivo umore
T’avea, ti desse poi l’acqua mortale.
Io dunque ti allevai con darti il latte,
40 Per anciderti poi, dandoti l’acquai?
Dunque con queste man, nata; di terra
Io ti ricolsi, acciocché queste mani
Fosser cagion, che poi sotterra andassi?
A voi, ciechi occhi mei, toccò vedere,
45 S’ella ponea nel vaso, o polve, o succo.
Quale, adunque, fia quel vindice giusto,
Che tronchi queste man, cavi questi occhi?
CORO
Deh, nutrice, perché ti affanni tanto?
NUTRICE
Chi’l nome mio vuol darmi, dìami nome,
50 Non di nutrice più, ma d’omicida.
CORO
La intenzion nell’ opre si riguarda.
Come al peccar la voglia prona basta.
A pena meritar, benché non pecchi.
Così colui, che di peccar non crede,
55 Quantunque pecchi pur; di scusa è degno.
Però queta i sospir, ristagna il pianto,
E narra or dove è la donzella morta.
NUTRICE
Com’ella si lasciò nel letto stesa,
Sulla barra funebre è stata posta.
60 Che di sua mano avendosì lei dato
Pur mò il bagno, altro bagno non occorse.
Il capo ha cinto ancor di fresche rose
(Miste con altri fiori, et erbe in cerchio)
Che a chi la mira son pungenti spine.
65 Cento donne le stan piangendo intorno
Vestite alla divisa della notte,
Co’ capei sparsi. Il letto e d’ogni parte
Circondato di lumi atri, e funesti.
La giovane tra quei sembra la Luna
70 In mezo a molte stelle allor ch’eclissa.
CORO
Che conchiudono i fisici reali?
NUTRICE
Che già sette ore son, ch’ella è passata
Per bevuto velen di questa vita.
CORO
La reina, che fa?
75 NUTRICE Chi vuol vedere
Turbato il cielo, e tempestoso il mare;
Miri a quest’ora lei. Non così folta
Tocca, e percote la tempesta i tetti,
Com’ella con le pugna il sen si batte.
CORO
80 Il re come sopporta questo colpo?
NUTRICE
Egli, per esser’ uom d’animo altero,
Con occhi di diaspro in fronte ferma
Dentro a più saldo mur l’affanno stringe.
Non però sì, che non se’n legga parte
85 Fuor ne’ gesti. Ei si fa della sinistra
Letto alle guancie. E con la destra mesce
La barba carca d’onorato verno.
Di vivo marmo in umil seggio pensa,
Pensando tace, e tacendo sospira.
90 Onde paiono un sol l’assiso, e’l seggio.
Ma eccolo uscir fuor col consigliero.
Et io per dargli loco, entrerò dentro.
CORO
Va, nutrice, che l’cielo aggia pietade
Del tu’ duol, del tuo error, della tua etade.
[4.3]
Atrio, Consigliero, Coro.
ATRIO
Non mi dorrò d’aver perduto i figli?
CONSIGLIERO
Non perde il suo colui che l’altrui rende.
Alla terra dovevansi i corpi; l’alme
A Dio, tutto ’l composto alla Natura.
5 Non biasmate colui che ve li toglie
Sì tosto, ma più tosto li rendete
Grazie, che tanto spazio ve gli lascia.
ATRIO
Di quei che da me amati, e chiesti foro,
Quando in esser non fur, né per venirvi,
10 Ora non mi dorrà, che per poche ore
Avendoli goduto, resto privo?
CONSIGLIERO
Dio vuol farne veder, che domandiamo
Cosa tal volta, che aborrir devremmo.
E che devremmo al suo saper più tosto
15 Rimetter sempre ogni domanda nostra.
Dio, mirando, che noi poniam ne’ figli
Quell’amor, quella speme, che devremmo
Porre in lui, giustamente ne li toglie,
Come cortesemente ne li diede.
20 E’n lui solo sperare, e amar lui solo
Ne insegna, né fondarci in questo mondo.
E così Dio sovente ne gastiga
In quel proprio soggetto, in cui pecchiamo.
La pianta disgravata de’ suoi parti,
25 Leva le braccia in alto, e’l capo al cielo,
Quasi grazie rendendoli, che scarca
Del peso sia, che la curvava in giù.
E voi de’ figli scarco vi dolete.
Chi non può riveder con gli occhi i figli,
30 A rivederli con la mente vada,
Parte nostra più bella, e più perfetta,
Ch’esclusa d’altri oggetti esser non puote.
Se buoni i fìgli fur; godete. Poi,
Che andati sono anzi’l venir malvagi;
35 E andati in parte, dove la mercede
Godon delle buon’opre. E tal mercede,
Che lor non sarà tolta in alcun tempo.
Se rei; godete, che ve gli abbia Dio
Levati innanzi il diventar peggiori.
40 E allegerito voi di quel pensiero,
Che cruccia i genitor de’ figli rei.
Se amate i figli, abbiate estrema gioia,
Che siano fuor delle miserie umane.
Se gli odiate; allegrateui altretanto,
45 Che levati vi sian dinnanzi agli occhi.
Se i figliuoli vi amavano, acquetate.
Il duol, per non turbarne il lor riposo
E se in odio vi avean, non date loro
La contentezza del vedervi in doglia,
50 Mentre l’anime lor son qui d’intorno.
Se questa vita è amabile, e felice,
Non vi carcate di dolor, che questo
Non sia cagion di farvene partire.
Se odiosa, e infelice è questa vita,
55 Non v’ingombri dolor de’morti figli.
Se credete, che Dio sia savio, e giusto,
(che se non fosse tal, non fòra Dio,
Anzi è giustizia, e sapienza somma)
Credete ancor, che savia, e giustamente
60 v’abbia levato i figli. Il che, se è vero;
sentir non ne dovete alcuna doglia,
Or non avete più, sir’, chi vi faccia
Vegghiar le notti, e i giorni; e aver fatica
Di bramar, d’acquistar, di conservare.
65 Di perder tema, e duol d’aver perduto.
Viveste altrui, vivete ora a voi stesso.
Se (come han molti) non avete figli
(Come molti non han) voi stesso abbiate.
Goda il mio re d’avere avuto figli,
70 Da non dolersi già d’averli avuti,
E da desiderar dì riaverli.
Meglio è del buon figliuol pianger la morte,
Che del malvagio sospirar la vita.
Chi ’l suo figlio mortal piange, scordato
75 De la mortalità sua stessa parmi.
Tante volte l’altrui, né mai la nostra
Morte piangiamo, che ogni dì si vede.
I figli eguali a noi in ogni cosa
Bramiamo. E nel morir sì innato à l’uomo,
80 Ne duol d’avergli a noi prodotto eguali,
ATRIO
Non mi dorrò, che ’n loro età più verde
Fèra tempesta abbatta i frutti mei?
CONFESSORO
Meglio è che’l frutto sia spiccato verde,
Che stia tanto nell’arbor, che si guasti.
85 Fingete, che i figliuoli in si lontana
Parte abbian preso già marito e moglie,
Che voi non siate più per rivederli,
Voi forse morto esser vorreste in quella
Etade, in cui moriro i figli vostri,
90 Per esser fuor delle miserie nostre.
Quanto moriam più giovani, moriamo
Tanto più puri, e con maggiore speme
Di gire in parte riposata, e lieta.
Non è la lunga vita un viver lungo.
95 Ma un lungo affanno, e lungo aspro morire.
Non perderanno, i figli, come voi.
Né come voi, dubiteran del regno.
ATRIO
Duolmi, che morti siano avanti il tempo.
Quanti disegni, ahimè, mi vanno or guasti.
CONFESSORO
100 Avanti il tempo, e dopo il tempo, alcuno
Non more. Ognuno ha il tempo stabilito,
Avanti il qual non può morire. E dopo
Il qual non e possibil, che più viva.
Ma, rispetto all’eterno, che credete,
105 Che sia un’età, che più viviamo al mondo?
A un giorno, a un’ora, a un attimo non giunge.
Vecchio more ciascun quanto al suo fine.
Giovane quanto al viver nostro breve,
Quanto al desio di chi riman, fanciullo.
110 Assai lunga è la vita, s’ella è piena.
Piena di virtuose opere buone.
Un viver lungo, e voto, i’ chiamo breve.
Chi è, fuor, che nemico, o invidioso
Quel che si duol che troppo tosto sia
115 Giunto al porto il nocchier, che alla vittoria
Sia troppo tosto giunto il Capitano?
I figli vostri ebbon più breve essiglio
Dalla patria, a cui già tornati sono,
Che non aveste voi. Or, se piangete;
120 Non per lor, ma per voi si versa il pianto.
Come siam differenti in istatura,
Laqual nessun può far più lunga, o breve;
Così siam differenti in quello spazio
D’anni, che a viver ne prescrive il cielo.
ATRIO
125 Fossemi almen di duo rimaso un solo.
CONSIGLIERO
Più tema v’apportava un sol rimaso.
La sorte or non ha più strai da ferirvi,
Né voi più loco avete, in cui vi fera.
ATRIO
Di tanta mercè sola i giusti dèi
130 Mi avessero degnato almen, che a un tempo
Non mi fossero mancati ambeduo insieme.
CONSIGLIERO
Peggio era che l’amor, che in ambo dui
Fu misuratamente compartito,
Si sarebbe ridutto tutto in uno.
135 Onde ogni volta ambascia, quale or sente
La fragilità vostra, avria sentito.
ATRIO
Chi prima venne, andar prima dovea.
E chi dopo arrivò partirsi dopo.
CONFESSORO
Più lieta or se n’andrà l’altezza vostra,
140 Non lasciando, ma andando a rivedere
Quei, che l’aspetteran nell’altra vita.
Sgombrata di quel carco prezioso,
Che dietro si traea sopra le spalle;
E ch’or si manda innanzi. Or più secura
145 Caminerà senza voltarsi a dietro.
Ma cotesto, Signor, non è la morte
Pianger de’ figli; ma la vita vostra.
ATRIO
Quando da morte naturale spenti
Fossero stati, avrei men doglia assai.
CONFESSORO
150 Il morire a ciascuno è naturale.
E la morte è tutt’una. Ancor che molte
Sian le maniere. Onde, o nessuno more
Di morte violenta, o moion tutti.
Poiché tutti la morte a un modo preme.
155 Ma per uscir d’una prigion, che importa,
Che s’aprano le porte da sé stesse:
O fian per molta forza aperte, e rotte?
Ma quei, che elesser; che invitar la morte,
Come morir di morte violenta?
160 Violenta è la morte di colui,
Che suo mal grado more, e molto pena.
Non di colui, che vuol morire, e ’n breve
Spazio da questa vita si diparte.
ATRIO
Duolmi di questo sfortunato regno,
165 Che dopo me restar de’ senza erede.
CONFESSORO
Spesso al re manca il regno, al regno mai
Non manca il re. Cotesta cura agli altri,
Che verran doppo voi, lasciar dovete.
Purtroppo abbiam travaglio del presente;
170 Senza prender pensier dell’avvenire.
Pur, se tanta pietà del regno avete,
Tanti giovani egregii Adria sostiene,
Adottatevi alcun di lor per figlio.
Che prima conosciuto, e prima eletto
175 Sia, che diletto. E dalla elezione
Nasca l’amore. Il che avvenir non puote.
(Anzi il contrario avvien sempre) ne figli,
Dal padre amati pria, che conosciuti.
Ma ecco il Mago, e dietro a lui lo stuolo
180 De’ Sacerdoti in loro abiti sacri
Co’ libri in mano, che dal tempio uscendo,
Vengono a sepelir la pena vostra.
CORO
Ecco la mia signora, anzi non ella,
Ma il cadavero suo sopra la barra.
185 Tu donna, tu donzella,
Che sì superba vai di tua beltade;
Mira costei, che già sì fresca, e bella,
E viva, e sana, e lieta
Entrò nel suo palagio;
190 Come dopo lo spazio di poche ore
Ne vien portata fuore.
Odi, e vedi Orontea sotto atro velo,
Che spargendo ne vien lamenti al cielo.
[4.4]
Mago, Orontea, Gentildonna, Atrio,
Semicoro, Nutrice, Consigliere.
MAGO
Or, che cinta dell’ombra della terra
Vien la notte, andiam tutti a tor la figlia
Del re, per sepelirla. Voi tre soli
Restando, alzate con ingegni il marmo,
5 Che alla tomba real porge coperchio.
ORONTEA
Dunque tanta impietade in voi si trova,
Che la figliuola mia di casa tolta,
Da queste braccia, e dal materno aspetto
M’avete a mio dispetto?
10 L’esser reina vostra, che mi giova?
Ma non sarà così. Che così incolta
Vi seguirò dovunque andrete. E insieme
Con la figliuola mia sarò sepolta.
Qual sarà quell’Oreste,
Qual sarà quella rea,
Quella Progne, o Medea,
Che mi divida dal mio amato seme?
O figlia, a me più, che questi occhi cara,
20 Noi ti uccidiam con le parole vane.
Tu con la vera tua morte ne uccidi,
Con le minaccie, che da questa bocca
Mia vengono, io ti uccido. E tu mi spira
Del bevuto velen mentre ti bacio,
25 Onde e vendetta, e compagnia t’acquisti.
Ecco la prima speme
Del genero bramato, e la seconda
Degli aspettati poi dolci nipoti
Sì verde, e sì gioconda,
30 secca, e perduta a un tratto.
O come ’l nostro ben sen fugge ratto.
Così del regno de’ Sabini prendi
Lo scettro, e la corona?
Così si va a marito, e al maritale
35 Letto tra l’ossa morte?
Il palagio reale,
Che a te, novella sposa, apre le porte
Sarà la sepoltura
Solitaria, et oscura?
40 A tai splendide nozze t’accompagna
Lo tuo popolo, e’l padre,
E la tua mesta madre?
(Anzi non madre più, né men più padre.)
In vece delle faci maritali
45 Ardono i torchi mesti.
Questi pianti funesti
Risuonan d’Imeneo le chiare lodi.
GENTILDONNA
Già lungo spazio i sacerdoti fermi
Qui v’attendon, reina,
50 Tratti al suon della vostra alta ruina.
MAGO
Rendere, o re, o reina è tempo omai
Alla terra il terren di costei velo,
Gli occhi, e ’l cor, dalla figlia ergere al cielo.
ATRIO
Chiuda quanto più tosto il monumento
55 La figlia, e ’l nostro cor chiuda il tormento.
ORONTEA
Figlia, da che non puoi restarti meco,
Verrò al sepolcro teco.
Tu, pietoso feretro,
Tanto in te fammi loco,
60 Che con la figlia mia caper vi possa,
Sì che da lei mai più non sia ritmossa.
MAGO
Lumi, che portiam per l’aer nero
Rischiarino il sentiero
All’alma, che pur mò fece partita
65 Da questa nostra vita.
SEMICORO
Dalle, Signor pietoso,
Sempiterno riposo.
Goda di là nel secolo futuro
Giorno perpetuo e puro.
GENTILDONNA
70 L’ordine dell’essequie omai si stende.
Vanno innanzi spiegati i confaloni,
E d’Adriana assai più alti doni.
Ma ’l primo è lo stendardo, ch’oggi tolto
Fu al re Merenzio, e al prencipe Latino.
75 Non so, se per ventura o per destino,
NUTRICE
Ecco il dolente scettro, e la corona,
Che tu portar dovevi in testa, e ’n mano,
Ti son portati avanti in alto e in vano.
GENTILDONNA
Quattro maggiori prencipi del regno
80 Le generose spalle han sottoposto
A l’onorato peso del feretro;
E gli altri vengon poi piangendo dietro.
NUTRICE
I lumi, onde vai cinta d’ogni intorno
T’apran di là, figliuola, un chiaro giorno.
GENTILDONNA
85 Ecco, la pompa funeral s’invia;
Et il re sventurato
Col consigliero a lato,
E la reina mia
Con la nutrice appresso, e l’altre donne
90 D’Adria in oscure gonne
Ponsi con gli altri in via,
E noi ancor faccianle compagnia.
MAGO
Spirto quinci partito
Tal compagnia di quelle alme felici,
95 T’accompagni di là, qual or tra noi
Al sepolcro accompagna i membri tuoi.
SEMICORO
Dalle, signor pietoso,
Sempiterno riposo.
Goda di là nel secolo futuro
100 Giorno perpetuo, e puro.
ORONTEA
O figlia (se pur dir figlia mi lece)
T’accompagna colei dunque allo avello,
Che dovea andarti innanzi?
Tu dunque più di me ami il fratello,
105 Che ne lasciò pur dianzi?
GENTILDONNA
Non v’affligete alta reina nostra.
Che se la figlia vostra
Non è tra l’alme beate
Accolta omai nel bel sito felice,
110 Rinovata vita meglio, che fenice.
ORONTEA
E me lassa, a che guisa
Lascia nel mondo in cui fin qui vissuta
Tanti giorni non son, quanto in un solo
Giorno vi soffro duolo?
GENTILDONNA
115 Sono i martìri, e i mali
Medicina a’ mortali.
ORONTEA
O voi, che foste, o voi che sète madri,
A voi mi volgo sole,
Che sole il grave affanno mio stimate.
120 Deh, di grazia pensate
Qual esser debba, e quanto
Lo mio angoscioso pianto; in duo dì soli,
Duo unichi perdendo almi figliuoli.
GENTILDONNA
Or giunti siamo al porto
125 D’ogni miseria umana,
Alla casa, al seplocro d’Adriana.
NUTRICE
Fino i sassi han pietà della tua morte.
Ecco levarsi a gran tardanza il marmo
Del monumento, quasi, che si levi,
130 Contra sua voglia, e a chi lo trae resista.
MAGO
Sire, prendete l’ultimo commiato
Dalla figliuola vostra,
Pria che’l seplocro a vostri occhi l’asconda.
ATRIO
Figlia, poiché tu stessa a te facesti
135 La forza, che nessun fatto t’avrebbe;
Agghiacci col tuo corpo ogni tuo sdegno.
Pur se con colpa io son, né tu sei senza.
Io credei poco, e tu credesti troppo.
Io non credei, che tu per far mai fossi
140 Quel che facesti, e tu credesti, ch’io
Dovessi far quel, che per far non era.
Sposa io ti volsi far, per farti madre.
Tu facesti, che padre io non restassi.
Vivo ancor del real manto spogliarmi
145 Volsi, per adornarne il tuo marito.
E tu mi copri d’abito lugubre.
Io per teco restar, privarmi eleggo
Dello scettro, e donarlo al tuo consorte.
Tu per fuggir da me, la morte eleggi.
150 Questi mei merti andran somministrando
Conforto all’alma, che non può ritrarsi
Affato dal dolor di questa carne.
Restati in quel riposo, che a noi togli.
Lasciane in questa luce, che ne oscuri.
155 E quando tu di qua tornar non puoi,
Costà tra poco tempo aspetta noi.
CONFESSORE
Poi che si tosto a rivedere avete
La figlia altrove, omai sciogliete, sire,
Dal core il duol, le braccia dal feretro.
ORONTEA
160 Né tu restar, né venir posso io, figlia.
Il dolor crudelissimo tiranno,
Ch’io mora già non vuol, ma ch’io languisca.
Perch’io porti, vivendo, invidia a morti.
Io, crudel, fui cagion del tuo morire,
165 E tu (qual’è il mio merto, e ’l mi’ desio)
Esser non puoi del mio.
O felice Niobbe,
Che co’ figli perdesti anco la forma.
E in un fosti il cadavero, e’l sepolcro.
170 Tra morti gli accompagni,
E tra vivi li piagni.
Perché, crudel natura,
D’Altea, d’Agave ai figli non donasti
La vita de’ miei figli, e a mei la loro?
175 Non fòran quelle madri scelerate,
Né io fòra dogliosa,
Di viver lassa, e di morir bramosa.
Coteste mani al tuo petto composte,
Figlia, han guasto ogni nostro bel disegno.
180 Tra tanti fiori, il più bel fior perdiamo.
Perdiam tra tanti lumi, il lume nostro.
Cotesto volto al ciel converso il mira,
Quasi sua patria, e noi spinge in abisso.
L’abito bianco, ond’hai coperto il corpo,
185 D’atri pensieri a noi copre la mente.
Le fronde verdi, che sotterra porti,
Mostrano ben, che viene
Teco ogni nostra speme.
Questi mei baci prendi,
190 Ma perché non li rendri?
Questi, figlia, son tuoi,
E questi renderai a tuo fratello.
Io dianzi tenni te fanciulla in braccio.
E perché la mia vita sarà corta,
195 Tu tra le braccia tue mi terrai morta.
Figlia, vattene in pace,
Vattene in pace, figlia,
Anzi andiamo ambedue.
Tu (se pietoso sei)
200 Me sepelisci, e lei.
CONFESSORE
La reina, signor, non sa levarsi
Da pianger la figliuola.
Né altri ardisce moverla; se voi
Non gite ad abbracciarla,
205 E con dolce pietate indi levarla.
GENTILDONNA
Il re sostiene, e abbraccia la reina.
Ma non so qual di lor per trarne aiuto
Sia più forte, il sostegno, o il sostenuto.
ORONTEA
Ahi signor, qual di noi
210 Può dar conforto all’altro?
Siam pur senza figliuoli.
Siam pur rimasi soli.
GENTILDONNA
Ite donne, a soccorer la reina,
Caduta in accidente,
215 E ’l re che mal sostien duo si gran pesi.
Che a lui sol sopra stanno.
L’affannata mogliera, e’l proprio affanno.
NUTRICE
Figlia, se avvien, che morte or ne disgiunga,
Questa medesma spero, che per sempre
220 Tosto ne ricongiunga.
GENTILDONNA
Ecco, che con le faccie adietro volte
Per suprema pietà quei, che n’han cura.
La donzella al seplocro, e al lungo sonno
Danno con la maggior fretta, che ponno.
MAGO
225 Acconciatela a punto nel seplocro,
Come se fosse viva,
E non de’ sensi priva.
GENTILDONNA
O sventurato re, che delle mani
E della veste si fa muro agli occhi,
230 Per non veder colei, cui già vedere
Li fu sommo piacere.
MAGO
Vattene in pace al tuo viaggio estremo,
Che te, non dopo molto seguiremo.
Dalle, Signor pietoso,
235 Sempiterno riposo.
Goda di là nel secolo futuro
Giorno perpetuo, e puro.
MAGO
Chiudete il lasso. Voi spengete i lumi.
Voi ministri, portate dentro, al tempio
240 Gli stendardi, ove restino sospesi.
E voi Signori, or che l’essequie sono
Fornite, verso la magion reale,
Benedetti dal ciel, movete i passi,
Coi pianti, e coi sospir facendo tregua.
CORO
245 Di che ti alteri, o uom? con quale spene
Di stancar brami lungamente in questa
Valle di pianto, che vita si noma?
A che fine? a che bene?
Dove ’l corpo or sostiene,
250 Ora l’animo pene.
Or essiglio, or catene.
La fatica or ti pesta,
Il caldo or ti motesta.
Or il freddo t’infesta.
255 Or onda, ora tempesta
Or guerra, or fame, or peste, ahimè, ti doma
E godi o uom sotto si grave soma?
Il maggior don, che dar possan li dei,
È non far nascer gl’uomini, o di terra
260 Tosto levargli, allor, che nati sono.
Pensati, o uom, che sei;
Pensati, che esser dei.
Pensa; ove movi i piei.
Pensa, ove andaro i miei?
265 E pensa, che sei terra,
Pensa che sarai terra,
Pensa, che movi in terra,
Pensa, che andaro in terra.
E godi poi, se puoi, ch’io tel perdono.
270 Ma non chiuder gli orecchi a questo suono.
Tosto che nati, anzi per meglio dire,
Che siam concetti noi, non cominciamo
Della morte a imparar la trìta via?
Ogni notte il dormire
275 Non e un breve morirei?
D’ una in altra età gire,
Non è l’età perire?
Di che concetti siamo?
Con che pena nasciamo?
280 Con che noia viviamo?
E periglio moriamo?
Pensalo, e poi di’, se matrigna ria
Fu a l’uom natura, e madre a gl’altri pia.
Nessun altro animal nasce spogliato.
285 Chi con pel, chi con piuma si ripara.
Nessuno altro animal s’annoda in falce.
Chi nasce d’unghie armato.
Chi di denti è dotato.
Chi di corna adornato.
290 Chi di tosco ispirato.
Non fa case, od appara.
Non semina, non ara.
La terra, a noi avara,
Il tutto gli prepara.
295 Sol l’uomo ignudo, e disarmato nasce,
Del suo industre sudor si copre, e pasce.
Conosce l’util suo, conosce il danno,
Per sé si move ogni animal nascendo,
E sa, ciò che saperse gli conviene.
300 Gli uomini fermi stanno.
Nascendo, a imparar hanno
Tutto, sol pianger sanno
Il lor futuro affanno.
La donna, partorendo
305 Geme, talor morendo.
Ohimè, che augurio orrendo,
Quando al fanciullo, uscendo
Dal matern’alvo con ceppi, e catene
Come a reo, tutto’ l corpo avvinto viene.
310 Il fanciullo senrza arte, e senza ingegno,
Perché ’l latte aborrisca, e metta i denti
Parli e impari; qual soffre, e porge noia?
Nel giovinetto ha regno
Amor: non ha disegno.
315 Fermo, e senza ritegno,
Di furor, d’ ire pregno,
L’uomo ha i pensieri intenti
A gradi più eminenti,
A entrate, a discendenti,
320 Regge famiglie, o genti.
Il vecchio è sempre infermo, non ha gioia,
Senza sensi, e non può far, che non moia.
O felice animal, che i freni solve
Della vergogna a far ciò, che li piaccia.
Miser uom, cui l’onor pon sì rio freno:
325 La morte ti dissolve,
E in fumo, in ombra, e in polve
Il corpo al fin risolve.
E in vermi, e in serpi il volve.
La casa allor ti caccia,
330 Par, che a l’aer tu spiaccia.
L’acqua non vuol, che faccia
Dimora in lei. Le braccia
Apre sola la terra, e nel suo seno
T’inghiotte, qual pestifero veleno.
Il fine del Quarto Atto.
[5.1]
Mago solo.
Tutto il disegno, ch’io composi dianzi
Con Adriana, è già quasi successo.
Perché la innamorata accorta, e ardita
Ha preso il mio consiglio e la mia polve
5 Nell’acqua. Ond’ ha provisto a quella sete,
C’ha del suo amante, il suo bramoso core.
E con mentita morte oggi ha schernito
Non pure i suoi, ma ancor gli Erasistrati.
Che già per morta l’han pianta, e sepolta,
10 Resta or solo, che ’l prencipe Latino
Giunga a cavar costei fuor del sepolcro.
Acciò, che ’n lei distrutto il mortal ghiaccio
Non si rinovi poi ghiaccio di tema.
E quel che finto fu, vero non fosse.
15 Che s’ ella si vedrà fra i morti viva,
Non la troviamo poi fra i vivi morta.
E già stupisco, che ei non venga, o almeno
Il ministro che incontro li mandai
Subito con la lettera notata,
20 E soggellata di mia man, che’ l tutto
Avvisandoli vien di parte in parte.
Come promisi alla real donzella.
Che per non perder per sempre il suo amate.
Per molte ore soffrio perder sé stessa.
25 Ma ecco quel, che andò proprio a incontrarlo,
Ma vien solo. Udirò da lui il tutto.
[5.2]
Ministro, Mago.
MINISTRO
A colui, che affatica, par godere
D’ogni fatica sua l’intero prezzo,
E gli è grato il sudor, gradita l’opra,
Quando può conseguir quel fin, che’l mosse.
MAGO
5 Ministro, che novella mi rapporti
Del viaggio, e dell’opra, ch’io t’imposi.
E perché tre non siamo, anzi che dui?
MINISTRO
Signor, la mia rattezza è stata quanta
Desiar si potea, non che sperarsi.
10 Ma,
MAGO Temo questo ma, non male apporti.
MINISTRO
Avuto ho nell’andar la sorte avversa.
Ho raggiunto l’esstercito, che affretta
Dietro al suo duca in Lazio a gran giornate.
15 Ho domandato di Latino; e inteso
Che un messo pur allor l’avea chiamato:
A cui dietro spronando ello era gito,
Senza aspettare ’l giorno, o dirlo al padre,
Senza seco voler servo, o compagno,
20 Senza dir dove andasse, o dove, o quando
Fosse per ritornar. Sicché le genti
Dietro al padre ne van senza aspettarlo.
La lettera, che voi mi commetteste,
Che non si desse ad altri, che a Latino
25 (Perché spiegata, altrui non ispiegasse
La vostra mente) altrui fidar non volsi.
Ma la riportai meco, e ve la rendo,
Vergine com’io l’ebbi. La gran fretta,
Che mi deste al tornar, non mi die’ tempo
30 D’aspettarlo ivi, o di cercarlo altrove.
Tanto men non sapendo ove foss’ ito.
E sapendo, che più non tornerebbe
Là, dove le sue genti avea lasciato;
Che fuggìan tuttavia verso il lor regno.
35 E sperando incontrarlo nel ritorno,
E perderlo temendo nel cercarlo.
Il bisogno, che credo, che n’abbiate,
E la sollecitudine, e ’l desio
Di non far poi i passi mei imperfetti,
40 M’insegnar, ch’io lasciassi ordine a molti
De’ suoi, che quando il prencipe tornasse,
Gli dicesser, che un messo a nome vostro
Era stato con lettere a cercarlo.
Se più far si potea, signor, mi spiace
45 Non lo aver fatto. Quel che fei e basta
Piena mercede è d’ogni mia fatica.
Se vi pare or, ch’io resti, o che là torni;
A restare, e a tornare eccomi pronto.
MAGO
M’incresce assai, che non abbi trovato
50 Il prencipe, e che torni a me con quello,
Ch’io non vorrei, e senza quel che bramo.
Con la lettera mia senza Latino.
Temo non greve mal qua venga in vece
Di costui che non vien pavento, e tremo;
55 Che la fortuna non ancor satolla
Delle lacrime nostre, e de’ sospiri,
La tela anzi ’l tramar ne stracci a un tratto.
Che sarà? Che farò? Mira, et ascolta,
Se vedi, o senti alcun qui inorno.
60 MINISTRO Io vado.
MAGO
Se non appar alcun, vo trar costei
Dell’arca, e porla in più securo loco,
E me levar di tema, e pormi in pace.
E ben lo potrò far, poiché lo’ngegno,
65 Onde i ministri agevolmente alzaro
De l’arca il marmo, ancor non e disciolto.
Io lo spedii pur subito, ch’ intesi
Dal messo il falso annunzio della morte.
MINISTRO
Due persone in qua vengon sì ristrette,
70 E sì celate, che (quantunque splenda
Cinzia nel ciel) conoscer non si ponno.
MAGO
Il disegno m’è guasto, entriamo dentro,
E passati costor, tornerem fuori.
Che a un gran negozio mio ti vo compagno.
[5.3]
Latino, Messo
LATINO
Dunque credi, che qui siam giunti a tempo
Che sia la principessa già sepolta.
MESSO
Sepolta è già. Che tutta la cittade
Sta sepolta in silenzio. Onde il reale
5 Albergo è fatto un’altra sepoltura.
LATINO
Qual è l’arca real, che dovea accorla?
MESSO
Là volean por colei, che lungo spazio
Meritava di viver qui tra noi,
Che vi turba signor? Di che piangete?
LATINO
10 Cortese affetto, e tenero mi tocca,
Quando penso tra me, che una donzella
(Per non si maritar contra sua voglia)
È morta lietamente di veleno.
MESSO
Fu morta dal velen, ma più dall’ira
15 Contra color, che volean farla sposa.
LATINO
Perché qui meco non ti trovi alcuno;
E ’l far piacer a me non ti sia danno;
Meglio è che vadi, e qui mi lasci solo.
Io troverò il gran mago, e farò quanto
20 Ho a far con lui.
MESSO Signor se l’opra mia
Vi pur bisogna; a voi e a me non fate
Torto, di riputarmi per indegno.
LATINO
Basta quel che facesti, e più non chieggio.
25 E perché mai non seppi esser ingrato
Verso chi mi servì; ti rendo tante
Grazie, quante parole, e quanti passi
Hai speso nel portami l’ambasciata.
E poi ch’altro non ho, con che premiarti
30 Meco, ti dono questo manto; e voglio,
Che te ne vesta, e ’l porti in rimembranza
Lunga del primo, et ultimo servigio,
Che mi fai. Non so quando avrai più loco
Mai di servirmi, aiutami a spogliarmi.
MESSO
35 Dio mi guardi, signor, che mai si sappia,
Ch’io v’abbia tratto qui di notte solo,
E poi spogliato. Assai porto, se porto
La grazia vostra, e voi lasciar non debbo
Contra la dignità, senza la vesta.
40 E la nutrice si dorrebbe, ch’io
Voluto avessi il guiderdon da voi
Dell’opra del camin, ch’ella m’impose.
LATINO
Se nol prendi, io dirò che per nemico
Mi tieni. E se nol vuoi per sempre; tienlo
45 Fin che si riveggiam di novo insieme.
Poich’or mi grava più che non mi copre.
MESSO
Io dunque spoglio voi, non per vestirmi,
Ma sol per isgravarvi, e compiacervi.
LATINO
Quando ragionerai con la nutrice,
50 Rendile immense grazie a nome mio,
E dille, ch’udirà ben tosto nove
Pari a quelle, che udire ella mi fece.
E, che s’io non avessi a gire altrove
Sì tosto, le darei giusta mercede.
MESSO
55 Domani il tutto le dirò. Poich’ora
Tornar conviemmi fuor della cittade
A un gran negozio.
LATINO Va’ felice. Il cielo
Ti guardi da saper, ciò che sia affanno.
MESSO
60 E voi restate in eterno riposo.
[5.4]
Latino solo
Or, ch’io son sol, posso allargare il passo
Alle parole, ai pianti, e al fine all’alma.
In questo tempo della meza notte,
In profondo silenzio, e’n queto oblio
5 Giace, e riposa il tutto, io solo desio,
Mi lagno, mi tormento, e m’apparecchio
Al sonno eterno, in questo eguale a un cigno.
Non ho chi mi conforti a stare in vita,
E non ho chi m’aiuti a darmi morte.
10 Eri vidi per me l’ultimo giorno.
Ora veggio per me l’ultima notte,
Cui maggior notte sovragiunger deve.
O Luna, arresta la tua lampa, e fammi
Grazia, ch’io veggia anzi la morte mia.
15 Colei, che su’l mio pianto ha quella forza,
Che sovra l’onde hai tu dell’oceano.
O seplocro di quella, in cui sepolto
son io; ti stringo con le braccia, e strette
Poco dopo farò tra le tue sponde.
20 Un sol rinchiuder pensi, e duo rinchiudi.
Benché chiamar seplocro non ti debbo,
Ma erario, ove s’asconde il mio tesoro,
O mar di Spagna, ove l’mio sol tramonta.
Avess’io la virtù di quella fiera,
25 Che col ruggito suo ravviva i figli.
Che con sì alto tuon griderei; ch’io
scoterei questi marmi infin dal fondo.
O marmi, che ’l bel viso mi celate,
E col ciel vi partiste ogni mio bene;
30 Deh, per pietade, apritevi. Ond’io miri
Quell’oggetto, per cui cari ho sol gli occhi.
Se di mirarlo non avessi speme
Con levarne il coperchio, o marmi duri,
Vi piangerei sì lungo spazio sopra,
35 Che col lungo picchiar v’incaverebbe
Delle lagrime mie l’assidua pioggia.
O madre, se sapeste, ove or dimora
Il figlio vostro; so, che a ricercarlo
Verreste incontro a minacciose schiere.
40 Quand’io, da voi partendo, era sì spesso
Da voi baciato; o, chi v’avesse detto,
Baciatelo, reina, a voglia vostra,
Che a baciar, che a veder più non l’avete.
So, che non gusterete cibo alcuno,
45 Che di lacrime vostre non sia tinto.
So, ch’io sarò cagion del morir vostro.
E fu del morir mio cagion mio padre.
Qua mi condusse a prender queste mura,
E preso il primo giorno io vi restai.
50 Qua mi condusse ad arderle, e le fiamme
Riflettendo, si volser nel mio petto.
O sorella mia cara. O fida sposa,
Già non credei veder la morte vostra.
Ma voi la mia. Ma veggio or, che vivendo
55 Voi, morte non potea farmi morire,
Che sol mi fa morir col morir vostro.
Adriana, io son quel, che vi ha tradito,
Che agnella vi lasciai tra molti lupi,
E tortorella in mezo a gli sparvieri.
60 Dovea condurti i’ meco, ovunque i’ giva,
E con voi campar vivo, o restar morto,
Stringermivi nel sen dovea, qual donna
Stringe il suo non ancor maturo parto.
Né voi tolta mi foste dalle braccia,
65 Pria che le braccia mie tolte dal busto.
Voi ben me lo accennaste. Io nol compresi.
E voi più chiaro dirlo non osaste.
Quando il padre volea darvi marito,
Da tutti abbandonata, in mezo ai mali
70 Voi mi chiamaste. Io sordo non v’intesi,
Da poi chiamaste morte; ella vi udio,
E di me più pietosa vi soccorse.
Mi meraviglio sol, che ’l rio veleno,
Poi che si sparse per le membra vostre,
75 Non si cangiasse in manna, e non perdesse
Ciò che avea di mortal, maligno, e amaro.
Ma questo avvenne sol, perché quel core,
Che fu dal rio velen ferito, e morto,
Non fu ’l vostro, ma ’l mio, che vi donai
80 Del vostro in vece, e a voi si chiuse in seno
Ma il velenoso spasmo del mio core
Non so, perché non abbia tanta forza
In me, quanta il velen vero ebbe in voi.
Or vo torre il coperchio, aprir l’avello,
85 Trarne fora il cadaver d’Adriana,
Pria vagheggiarlo, e poi morirli sopra.
[5.5]
Latino solo assiso, col cadavero di Adriana in braccio, tratto
fuori dell’Arca.
La vista pur mi accerta, o vita mia
Dolce, che tu et io siam fuor di vita.
E veggio, e sento, e piango la mia morte,
E me la stringo in fra le braccia; e faccio
5 L’essequie, e sopravivo a me medesmo.
Son queste, ahimè, le nozze, è questo il letto,
Letto di duri marmi, ove a giacere
Sposi avevamo? È questo il bel convito?
Son queste le vivande; ond’egli è pieno,
10 Le lacrime, e ’l veleno?
Son questi i crespi crin, che mi legaro
Sciolti, e legati raddoppiaro il nodo?
È qttesto quel bel volto, ove Amor tenne
Suo dolce nido? Che già fu mio Sole,
15 Et or giunto a l’occaso innanzi tempo,
Apporta a’ giorni mei perpetua sera?
Bel viso, ancor che sii sì scolorato,
Non ti doler, che nel mio petto stai
De’ tuoi vivi colori adorno, e vago.
20 Son queste le tranquille, e liete ciglia,
Che già d’ebano furo, or d’ambro sono.
Già d’amor arco, et arco ora di morte?
Son questi quei begli occhi, che assignati
Furon fatali stelle alla mia vita,
25 C’ora oscurati, adducon la mia morte?
Deh, perché di mirarmi ora sdegnate?
Apritevi, occhi cari,un sol baleno,
E rimirate a cui giacete in seno.
È questa quella bocca, onde già usciro
30 Sì dolci accenti, e care parolette?
O potessi ispirarle del mio spirto
Tanto che fosse di mia vita a parte.
Come, o bocca, meschiasti il mèle, e’l tosco?
Perché ora a’ baci mei non corrispondi?
35 Forse odii quella bocca ingrata, et empia,
Che potè dirti l’altra notte, sposa
Restate, a Dio, per qualche dì vi lascio.
Lingua, perché ti stai gelata, e muta?
Deh moviti, e dì sola
40 Una dolce parola.
Et una sola volta mi saluta.
Bel petto, s’alla neve nel candore
Ti uguagliava, uguagliartele ben’ora
Posso in tutt’altre qualitadi ancora.
45 O belle man, che ’l cor già m’involaste,
E la mia vita in voi scritta tenete,
All’avorio mai più sì propriamente
Non potei pareggiarvi come or posso.
O nobil corpo, ov’hai mandato l’alma?
50 Ma dovunque sia gita, compagnia
Farà l’alma mia all’alma, e l’corpo al corpo.
Ecco, che pure ho in braccio
La mia reina eletta.
Ecco, che pure abbraccio
55 La mia sposa diletta.
E son (quantunque indegno)
Di chi mi sostenea, fatto sostegno.
O Latino crudel, perché pietoso
Teco non sei, donando quella morte,
60 A te, che la sventura tua ti nega?
Ecco la chiave del mio carcer’aspro.
Ecco il vaso, che meco ogn’ora porto.
E portan tutti i Prencipi, ove chiuso
Sta il veleno, e la morte, per usarlo
65 In ogni caso avverso, e periglioso.
Voi bramaste il velen, qual madre grave.
E nelle vostre viscere il cor mio
Riman segnato della stessa voglia.
Fammi grazia, o velen, di trarmi tosto
70 Di questa vita, e un altra grazia aspetta
Allor da me di sì bel dono in vece.
Tu, che nome acquistato hai di crudele,
Nel tor del mondo una sì bella donna,
Or titol di pietoso acquisterai,
75 Nel tor del mondo un così miser’uomo.
Adriana, perché senza voi resto?
Adriana, perché senza me gite?
Adriana, io cagion del morir vostro.
Adriana, del mio cagion voi sète.
80 Adriana, in voi troppo è presta morte.
Adriana, in me troppo è lunga vita.
Adriana, non ci ebbe un letto vivi.
Adriana, ci avrà morti un sepolcro.
Adriana, un amor bevuto abbiamo.
85 Adriana, un velen berremo ancora.
Gustate or, labra mie, quanto è soave
Tal bevanda, e accettate il dolce invito.
Soave, certo, fu la medicina,
Che alla salute mia render mi deve;
90 E liberar da questa viva morte,
Or che ho bevto il tosco,
Posso gettare il vaso,
E starmi lieto d’asprettar l’occaso.
Così mentre le forze ancor son ferme,
95 Compor mi voglio nel sepolcro, e ’n braccio
La mia donna locarmi, et aspettando
Star, che finisca in me morte per morte.
O Dio, che sento? Sento pur nel petto
Batterle il core. E parmi, che si mova,
105 E che spiri. Adriana, che è cotesto?
[5.6]
Adriana. Latino.
ADRIANA
Ahi lassa, dove sono? E chi mi stringe?
Quest’è mago, la fe’ così secura
Mi condurrete al mio Latino e intatta?
Violando a lui la fede, e la mogliera?
LATINO
5 O meraviglia inusitata e nova.
Avvien forse, che uscendo da me l’alma,
Va ad animar colei, che tanto ell’ama?
Deh, dolce donna mia, non conoscete
L’afflitto sposo vostro, qui venuto
10 Per morir presso a voi secreto e solo?
(Da poi che presso a voi viver non valse)
Perché tra tanti mali aveste almanco
Questa felicità l’anima sua?
Oltra, che strada più secura, e certa
15 Non vidi di passare a lochi lieti,
Che lo spirarvi nelle braccia care.
ADRIANA
Se già la vostra voce, e la mia vista
Il volto vostro, e la lucente luna
Non han giurato insieme di mentirmi;
20 Voi sète pur Latino, io son pur dessa.
Ma quale errore, o qual furor v’indusse
Ad assidervi qui? Non vi bastava
Saper per nostre lettere, com’io
Per involarmi al novo odiato sposo,
25 E agli ostinati mei fèri parenti,
Dovea fingermi morta col soccorso
Del mago, e poi che la finta bevanda
Digesto avessi, risvegliarmi (come
Or faccio) e a voi esser condotta in breve
30 Quando accettarmi voi voluto aveste?
LATINO
O cruda sorte, o sventurato amore.
Io di ciò vostre lettere non ebbi.
Dalla nutrice vostra solo un messo,
Velocissimamente a me mandato,
35 La sorte vostra mi apportò per vera.
ADRIANA
Quel dolor, che a tal nova voi provaste,
Prov’io nel sentir ciò. Ma pur godiamo,
Quando altro mal ancor non e successo.
Che così a tempo giunti siam, che ancora
40 Uscendo quinci, e in altra parte andati,
Vita insime menar lieta potremo.
LATINO
Eh, non sarà così! La sorte nostra
Troppo singolar ben n’avria concesso.
La sorte vuol, che voi con lo svegliarvi
45 Solo un poco più tardi, et io all’incontro
Col disperarmi un poco più per tempo,
Commettiamo un’error, che non ha menda.
E un momento ne tolga un lungo bene.
ADRIANA
E che vnol dir cotesto? Favellate
50 Sì, ch’io intenda;
LATINO Ahimè ch’io temo a dirlo
E pur convien, che lo sappiate tosto.
E voi chiedete grazia di sapere
Quel, che di non saper grazia vi fòra.
55 Non vorrei del dolor mettervi a parte,
Che serro dentro io sol.
ADRIANA Di grazia dite,
Fin d’ogni mio desir. Ma donde avviene
Che a voi la voce si indebolisce
60 E di cener si vien facendo il viso?
Rispondete, signore, e a qual persona
L’animo vostro rivelar volete,
Nol rivelando alla diletta sposa?
LATINO
Voi che ’l vostro morir per vero intesi;
65 Arsi di doppio incendio. E perché ’l core
Si sostenesse in mezo a tante fiamme
(Poi che non arde un cor tinto di tosco)
Il veleno composto, e misto in modo,
Che senza scampo, e senza indugio ancide,
70 Che ad ogni mio bisogno, io porto meco;
Presi. Il quale acutissimo già sento
Andar col suo rigor tutto occupando
Il corpo, e tutto corrompendo il sangue.
Né può molto tardar, che al cor non giunga.
75 Da una parte ’l morir (vedendo ormai
Il buon successo, a che da voi le cose
N’andavano indrizzate, e d’esser giunto
Il tempo di goderci apertamente,
Senza sospetto alla fortuna lieta)
80 Aggrevami, e mi aggreva, imaginando
In che duol senza me qui resterete;
Duol, ch’ io prima di voi pur mò provai.
D’altra parte la morte assai mi piace.
Poiché Adriana a questo sarà certa
85 Se l’amò il suo Latino, e le fu fido.
Poiché or conoscerete la mia fede,
Quando rimunerarla non potrete.
E che’l ben, che con voi goder non posso,
Senza voi, sposa mia, goder non voglio.
90 E che quel mal, che senza me vi oppresse,
Vo, che con voi me parimente opprima.
ADRIANA
Non volea di ciò si chiara prova.
Dunque per mia cagion, dunque in presenza
Mia, vi vedrò morir, dolce signore?
95 E consentirà il cielo (ancor che poco)
Ch’io viva dopo voi? Vorran le stelle,
Ch’io, che’n amarvi a par’ sempre vi venni,
In questo ultimo fin vi venga dietro?
Perché, la vita mia, senza alcun frutto
100 (Morend’io sola) a noi donar non posso,
Che più la meritate, e oprate meglio?
LATINO
Anzi, se l’amor mio, se la mia fede
Vi fu mai cara, viva speme mia,
Per questa, e quel vi prego, e vi riprego,
105 Che’n vita rimaner non vi dispiaccia.
Così consolerete il padre vostro,
Così la madre; e sarà il lor conforto
Quanto creduto men, tanto più grato.
Così gli ubbidirete (come a buona
110 Figlia conviensi) et al Sabino sposo
V’aggiungerete; riscotendo gli anni
A voi dovuti, e diventando madre
D’una onorata, e gloriosa prole.
In una vita fortunata, e dolce
115 Reggendo il regno d’Adria, e de Sabini.
E lasciando colui morto, e sepolto,
Che vivo di godervi non fu degno.
Vi prego ben, che quando al novo sposo
Darete in preda il delicato corpo,
120 Ch’io vi lasciai (né me ne pento) casto,
Rivolgiate da lui tal volta il core
Verso colui, che sol per amor vostro
Starà tra duri marmi, e crude serpi,
Mentre voi in gioiosi abbracciamenti
125 Vivrete col novello amato sposo.
Ond’io me n’andrò lieto.
ADRIANA Ah, Signor mio,
E voi credete, ch’io far possa questo?
Sì lieve mi stimate, ancor che donna?
130 E perché noi ancor questo medesmo
Consiglio non pigliaste, e non viveste
Senza me, con un’altra eletta sposa?
Se voi morir per la mia finta morte
Non ricusaste, io per la vostra vera,
135 Che farò? Ne morrò duemila volte
(Se tante si potrà) nonché una sola.
E se elessi venir con morte finta
A voi per qualche tempo, a starvi sempre
Di buon grado, verrò con morte vera.
140 Dogliomi sol, che’l ciel non mi dia modo
D’andarne innanzi a voi. Ma tosto, tosto,
Sì come io fui cagion di vostra morte;
Così sarò compagna.
LATINO Anzi io cagione
145 Son del vostro morir, reina mia.
Che vi tolsi il fratel. Deh, basti, ch’io
V’abbia ucciso colui, privone il padre,
Senza che uccida voi; di voi lo privi.
Perché la man, che l’omicidio fece
150 Porse la pena, e’l tosco all’omicida.
ADRIANA
Non disputiamo più della mia vita.
Che quasi egual misura
Deve aver con la vostra.
Ma sol, come sarà possibil mai,
155 Ch’io vi rimiri, ahimè, tra queste braccia
Non morto, ma morir, e andar morendo.
Qual lucerna, cui manca il nutrimento,
si spegne a poco a poco,
Né poter dar a voi, e a me soccorso.
LATINO
160 E pur convien, che sia.
Ch’io lasci l’una, e l’altra vita mia.
E già ogni mia forza, si estingue.
Già la virtù a poco a poco manca.
ADRIANA
Affidatevi in grembo alla cagione
165 Del morir vostro. Appoggiate la stanca
Testa al mio petto.
LATINO O mia gentil colonna.
Non resta altro a fornir il mio viaggio,
Che da voi prender l’ultima licenza.
170 Poiché la sorte, o il poco merto mio
Non han voluto, ch’io posseda voi,
D’ogni speranza mia principio, e fine.
D’ogni fatica mia requie, e mercede.
(Benché la morte mia non può dolermi,
175 Poiché in coteste amate braccia io moro)
Viva restate voi; perch’io non perda,
Quella ch’avrete ogn’or di me memoria.
Così vi raccommando la nutrice,
De’ nostri dolci amor fido ricetto.
180 Fatele voi quel ben, ch’io far non posso.
ADRIANA
Siate certo, signor, del morir mio
subito dopo voi, come del vostro.
LATINO
Ahi, ch’io perdo la vista, e la favella.
Già spasma il core, e giunge al fine estremo.
ADRIANA
185 Deh, signor mio, non mi lasciate ancora.
Restate ancora un poco.
LATINO Ahi, ch’io non posso.
Date, e prendete omai l’ultimo bacio.
L’ultimo abbracciamento, o cara sposa,
190 O quanto, quanto poco
Ci siam goduti in terra.
ADRIANA
Ci goderem per sempre in altra parte.
Aspettatemi pur senza dimora,
LATINO
O terra, o stelle, o luna
195 Per non vi riveder mai più, vi lascio.
Sposa, restate in pace. L’alma mia
Va donde venne pria.
ADRIANA
Ahimè, ch’egli si more, io son qui sola.
[5.7]
Adriana sola
Egli è pur morto, egli m’ha pur lasciato.
Ahimè, sposo, ahimè sposo. Ahimè marito.
Da dover fu il suo amarmi, e’l suo morire.
Finto parve il mio amor, come la morte.
5 Ma non si dirà più certo, ch’io finga,
Com’hai potuto dar la morte, o morte
A chi morte toglieva, e dava vita?
Come non ti cangiasti, o morte, in vita,
Presso la vita mia nel darle morte?
10 O grato, e ingrato, o dolce, e amaro peso,
O fortunato augel, che col tuo sangue
La vita rendi alla tua spenta prole;
Dammi cotesta tua virtù, che or ora
Svenandomi verrò di parte in parte.
15 Darò con la mia morte al morto vita.
Non posso. A me potrò ben dar la morte.
Vorrei che qui giungesse alcun pietoso,
Che con lui mi tornasse entro la tomba.
Vigor’ io non avrei per far quest’opra.
20 Convien che mio mal grado io viva, e aspetti.
Ma perché altrui pietà non mi disturbi,
Fingerò d’aver già bevto il tosco,
Et esser presso al fin. Ma ecco il mago.
Ora da lui avrò quel che non ebbi.
[5.8]
Mago, Adriana, Ministro.
L’uom, che ha negozio in man secreto, è grave
Quanto più sciolto esser vorrebbe, e questo
Più va cercando sviluparsi; tanto
Più vede attraversarsi impedimenti,
5 Che mal suo grado, il vengono turbando.
Or, che sciolto pur sono a gran fatica
Da quei, che men volea, che men credei;
Andiamo, onde tornati esser devremmo.
Ahi signora, che veggio? Con qual arte
10 Usciste del sepolcro? A preghi vostri
S’apriron forse i marmi? E chi è questi?
Che nel bel grembo vostro estinto giace?
ADRIANA
Dunque non conoscete il vostro amico?
Ah signore, signor. Sì ben mandaste
15 L’ambasciata, o la lettera a Latino?
Eccolo. Egli mi trasse del seplocro,
E stimandomi morta, il velen prese,
E morto cadde allor, ch’io fui risorta.
Il che si fe’ due ore, o tre più tosto,
20 Che non portava il tempo della polve,
Movendomi, e stringendomi Latino.
MAGO
O sfortunati amanti, o cruda sorte.
La lettera mandai. Costui portolla.
Ma non trovò Latino, il trovar prima
25 Color, che gli apportar gli annunzi tristi.
MINISTRO
S’io punto nel camin tardato avessi,
Avrei da sospirar, da pianger sempre.
MAGO
O prencipe gentile, o caro amico.
Come vi trovo, e perdo. E voi signora,
30 Che pensate di far? Che non è tempo
Di indugiar qui. Si che le genti armate
De’ ministri reali andando intorno,
Vi ci trovino posti a questo modo.
ADRIANA
Ho già fatto il pensier, già fatto l’opra.
35 Già bevto l’avanzo del veleno
(A cui non è rimedio, né dimora)
Avanzato al mio sposo, non potendo
Goder altro del suo, per darmi morte.
Accioché morte (che poteva sola
40 Dividermi da lui) non men divida.
Morte pietosa più de’ mei parenti.
Morte più tarda assai del mio desire.
Benché già sento al cor giunto il veleno.
Ma si tosto non mor, perché ’n sé tiene
45 Del suo amante l’imagine vitale.
A voi resta ver noi l’ultimo ufficio.
Acconciarne amboduo dentro all’avello.
Poi chiuderlo, et andarvene, e far tosto.
Or non restate più pensoso, e muto.
MAGO
50 O come tardi, e senza frutto giungo.
ADRIANA
Vi prego ben (se prego appo voi vale)
Che i padri nostri nol risappian mai.
E quando questo pur si risapesse;
Io vi prego pregarli a nome nostro,
55 A lasciar giunti doppo morte i corpi,
Come già i cori in vita, e ’n morte l’alme.
MAGO
Ohimè, che debbo far, che affatto siamo
Privi, voi di soccorso, io di consiglio?
ADRIANA
Pregovi ancor, che tutta questa istoria
60 Scolpir facciate in duri marmi: e porre
Dentro al nostro seplocro. Ove altrui occhio
Giunger non possa. E poi supplico il cielo,
Che qualche autor, mosso a pietà, negli anni
Avvenir la riduca in forma, ch’ella
65 Possa rappresentarsi a’ fidi amanti,
Che de’ caldi sospir, delle pietose
Lacrime loro, ornin la nostra morte.
E dalla nostra tomba questo loco,
Prenda, e conservi eternamente il nome.
MAGO
70 Promettovi di far quanto chiedete.
Meglio, che già non feci, ancor ch’io voglia
Tosto lasciar questa città dolente,
Piena di tante tragiche sventure.
ADRIANA
Or non s’indugi più, ch’altri non guasti il
75 Nostro disegno; e col mio amante in braccio
Aiutatemi a por dentro al seplocro.
MAGO
Guardimi Dio, che viva vi sotterri.
Succeda ciò che vuol, soffrir non posso
Peggio di quel che soffro.
80 Quinci non partirò, fin che partita
Non è da voi la vita.
ADRIANA
Sepelite costui di grazia almeno,
Che più regger nol può lo infermo seno.
MAGO
Questo, di che pregate, è ben ragione.
85 Aiutami al pietoso, e crudo officio.
MINISTRO
Mai più men volentier non vi aiutai.
ADRIANA
Mentre costor son occupati in altro;
Ago clemente, e solo
Rimasomi soccorso nel mi duolo,
90 Da me trovato a caso
(Mentre’l sen mi percoto) nella veste,
Con cui di seta reticelle, e d’oro
Eran da me conteste;
Trammi del mio dolore.
95 E s’egli senza me non può morire;
Trammi di vita fuore.
Passa per mezo il core.
Passalo, e ancora raddoppiando il colpo,
Passalo un’altra volta, e un’altra, or basta.
100 Aspettatemi, sposo, ch’io vi seguo.
MINISTRO
Ahimè, che avvelenata ella non era.
Ne ha posto in opra; e con non so qual ferro
Assi aperto nel core ampia ferita.
Et è già fuor di vita.
105 E un gran fiume di sangue si dilaga
Dalla profonda piaga.
MAGO
Lasso, che a ingannar gli altri le insegnai,
Et or con l’arte mia me inganna ancora.
MINISTRO
Ponianla nell’avel, che qui non siamo
110 Come omicidi colti. E ’l tutto in fretta
Facciasi, che già miro
Dal real tetto uscir drappel di donne.
MAGO
Riponianla. Rinchiudi ora il sepolcro.
Adriana, oprerò quanto promisi.
115 E poiché sia scolpita
La mesta istoria della tua sventura;
Tornerò a porla in questa sepoltura.
Imparate, donzelle,
Non maritavi, senza
120 Voler de’ padri vostri.
Però che ’l matrimonio senza questo,
Esser non può, se non dannoso, e mesto.
MINISTRO
Restate amanti, come star vi piace.
Né mai vi turbi alcun la vostra pace.
MAGO
125 Ora senza tornar più nell’albergo,
Sgombriam da queste mura per la porta,
Che a incontrar va l’essercito Latino,
II qual se incontrerem, ne darà il passo.
MINISTRO
Andiamo tosto. Udite, che dolente
130 Voce di qua si sente.
Et ecco apportator di triste nove.
Fuggiam ratto, signor, fuggiamo altrove.
[5.9]
Messo, Coro.
MESSO
Fugga, fugga ciascuno.
Fuggite uomini, e donne agli alti monti.
Benché monte sì alto esser non puote,
Che scampi alcun dalla crudel procella.
5 Lasci ciascuno il letto.
Sgombri ciascun la casa,
E da questa città ciascun sen’ voli.
Chi per suo bene è fuori,
Il pie’ non porti dentro
10 A pigliar pur la vesta, o il proprio figlio.
CORO
Che novo mal fia questo?
Che pianto, e grido mesto?
MESSO
Su cittadini, in fretta.
Che fate, che vi tiene,
15 Che non prendete una veloce fuga,
Adria lasciando, e le sue meste mura?
CORO
Messo, se non ti grava,
Che nova apporti prava?
MESSO
Non chieder altro, e fuggi.
20 Fuggi, e non chieder altro,
Donna, e teco ciascun di questa terra,
Né ’n dietro mai si volti.
CORO
Deh, fa, che ’l ver più chiaramente ascolti.
MESSO
Mezenzio uscito del paese nostro,
25 Dove gran parte di sue genti perde,
Non potendo con l’arme vendicarle;
(E come da’ suoi proprii or ora ho inteso,
Sognato avendo il figlio, il qual dicea.
Padre non mi vedrete più, che resto
30 Morto e sepolto nel nemico regno.
Fate del mio morir crudel vendetta
Contra il re Atrio, e ’l principe Sabino,
Che congiurar contra la vita mia)
Acceso contra noi d’ingiusto sdegno,
35 Dalla contraria parte, ov’ei camina,
Tagliar fece un’altissima montagna,
Schermo, et argine antico a tutte l’acque,
Che ponno apportar noia a questo regno,
Per inondarlo, e sepelir nell’onde.
40 Quelle trottando una sì larga porta,
Scendono ora con furia a falde, a masse
Precipitose a gara, a laghi, a mari,
Con istrepito tal, che ’l cielo assorda.
Spingon le prime, e son dall’altre spinte,
45 E spargendosi vengon per li campi.
Né perché ’l gran diluvio si dilati
Per ogni parte; la sua altezza scema.
Anzi alle nubi sì d’appresso giunge,
Che tor l’acque potran per farne pioggia,
50 Senz’ire al mar, senza chinasi a terra.
E tutta questa furia a scaricarsi,
Come in propria sentina, in proprio vaso,
Sovra questa città dritto ne viene.
L’erbe, i fruttici, e gli arbori son danno
55 Sì lève, che di lor non si ragiona.
Questo orribil furor dietro si tira
Gli armenti, le capanne, e i lor padroni,
Anzi le case, anzi le ville intere.
Gli animai d’acqua pieni, e d’alma voti,
60 Coi musi in alto, e coi pastori accanto,
Vengon giù tratti dalle rapid’onde.
Gli uccelli stanchi, sostenuti un pezzo
In su ’l valor dell’ale, al fin cadere
Si lasciano piangendo in grembo all’acque.
65 Non si ved’altro più, che in ogni lato
Acqua, e ciel, cielo, et acqua.
Dovunque passa lo spietato danno,
Non differiscon più la terra, e l’onde,
Il tutto a un guardo sembra un fiume solo,
70 E il fiume non ha rive, e non ha fondo.
Più non s’attende alla pietà del sangue.
Ciascun lascia i più deboli, e i più vecchi.
Il fratel la sorella. Il figlio il padre.
Il marito la moglie. E ciascun cerca
75 Di ricovrarsi alle più alte cime,
Che al fin poi resteran dall’acque oppresse.
Io con alata fuga mi dileguo
Dinanzi a questo impetuoso orgoglio,
Che molto non può star, che qui non giunga
80 Dove non sarà casa, o tempio, o torre,
Che molto inferior non le rimanga.
Sommergeransi i bei palagi nostri,
E tutti quei, che vi fian colti in mezo.
Conche d’acque saran quest’ampie loggie,
85 Queste piazze, questi archi, e queste mura,
E col tutto del tutto ogni memoria.
E così resteran molti anni, e molti.
CORO
Ahimè, piangiamo insieme
Il gran mal, che ne preme.
MESSO
90 Non lacrimate, donne, il vostro male,
Tutta piangete a un tempo la cittate.
Che ’n danno universale
Si disdicon le lacrime private.
Più tosto apparecchiatevi alla fuga.
CORO
95 E dove fuggiremo
Donne imbecilli, e stanche?
Sarem preda dell’onde, esca de’ pesci.
Loco infelice a te stesso rincresci.
MESSO
Anzi, non può fuggirsi.
100 Di qua l’acque han la strada,
Di là Mezenzio assedia ogni contrada.
Ma che vi dico, donne?
Udite già il rumor, che a noi s’appressa,
Qual di molte molina accolto suono,
105 O come di celeste orribil tuono.
CORO
L’udiamo, e ’l gran timor così ne ’ngombra,
Che a noi medesme impedimento siamo,
Né fuggir, né fermarci al fin sappiamo.
Ma sol batter le palme, e gridar forte,
110 Per la morte fuggir, chiamar la morte.
MESSO
Fate, che intenda il re con la reina
Questa sì gran ruina.
CORO
L’alte grida, e’ l concento
Delle palme percosse,
115 Il pon destar, se addormentato fosse.
La reina destar più non si puote,
Che ’n perpetuo riposo ha posto l’alma.
Entrata nel palagio, e nella stanza
De’ figli, mirar volse ad una, ad una
120 Le vesti lor. E giunta a quel ritratto
Ove stanno dipinti ambo duo i figli;
Fermossi immota, e’n quel dolente aspetto
Stata gran pezzo, torcendo le mani,
Vinta dal gran dolor, morta si stese
MESSO
125 O misera anzi pur lieta reina,
Morta innanzi il veder si gran ruina.
Sol mai non giunge un mal, giungono molti,
Sempre in drappel raccolti.
Per poco mai fortuna non comincia
130 A perseguire un misero, ella il preme.
E mentre ei piange, intanto
Gli apparecchia cagion di novo pianto.
Il fine della Adriana