L’INFELICE AMORE DEI DUE FEDELISSIMI AMANTI GIULIA
ROMEO SCRITTO IN OTTAVA RIMA DA CLIZIA NOBILE
VERONESE AD ARDÈO SUO.
ALLA ECCELLENTISSIMA SIGNORA
LA SIGNORA VITTORIA FARNESE DALLA ROVERE
DUCHESSA ILLUSTRISSIMA DI URBINO
Avendo io Saputo, poi che mi fu dato cura di far imprimer le
Rime presenti, che elle erano state promesse a Vostra
Signoria Illustrissima, mi è paruto, accioché escano fuora con
lor maggior onore, deverle pubblicare sotto il suo
onoratissimo nome. E tanto più ho procacciato lor questo
favore, quanto più ho conosciuto che dal cavalier Gherardo
Boldieri, il quale a Vostra Eccellenza le promise, non erano
per ottenerlo. Perché avendo egli riguardo alla grandezza dei
meriti di quella, e dell’obbligo che con essa tiene, so che a lui
pare, facendole sì picciol dono, che egli sia più suo onore il
tacerlo, che il farlo palese.
Di Vostra Illustrissima ed Eccellentissima Signora Servo
GABRIEL GIOLITO.
DELLO AMORE DI GIULIA E DI ROMEO
CANTO PRIMO
Di duo fedeli ed infelici amanti
Canto, anzi piango la spietata sorte!
E chi narrar potrebbe senza pianti
La mesta vita loro, l’aspra lor morte?
Di Giulia e di Romeo, fidi tra quanti
Mai servar’ fè nell’amorosa corte,
Il miserabil caso, Ardèo gentile,
Dir vi vuol Clizia vostra in suono umile.
Ma perché ogni mia forza possedete,
Come ogni poter vostro anch’io posseggio;
Se in man voi sol di me l’alma tenete,
Com’anco ha nel mio cuor la vostra il seggio;
E s’in me dopo Dio dominio avete,
A voi sol nel dir mio soccorso chieggio:
E col favor di voi, mio sacro nume,
Comincio. Sìami scorta il vostro lume.
Già cent’anni e cinquanta or son passati,
Che nella Città nostra unica e vera,
Mentre ella dagli egregi ed onorati
Principi della Scala frenat’ era,
Fur due famiglie, che ne’ tempi andati
Ebbero insieme inimicizia fiera,
Cappelletti e Montecchi, illustri e antiche
Case in Verona, e meno allor nimiche.
Che, benché già tra l’una e l’altra parte,
Come il peccato lor forse o la sorte
Lor empia volse, il furibondo Marte
Sol sangue avesse seminato e morte,
Stanche e lasciate omai l’arme da parte,
O del passato error col tempo accorte,
Insieme si vedean per gli occhi fuori
Mostrar men duri alcuna volta i cuori.
Non che però delle passate offese
Fusse l’interno ardore in lutto spento;
Ma’l gran Mastino lor Signor cortese,
Che al comun ben non mai si mostrò lento,
Sì al ben oprar avea lor l’alme accese
Con la virtute, a cui fu sempre intento,
Ch’ era talora, anzi sovente nato
Tra lor ragionamento non ingrato.
Senza aversi altra fedo o sicurezze
Date d’effetti o di parole insieme,
Vivendo in pace fean che l’allegrezze
Erano ognor nella cittade estreme.
Ma l’empie stelle a goder solo avvezze
Quando l’uom senza colpa afflitto geme,
Non cessar’ fin, che con meglio apparente
Destar’ furor vie più del vecchio ardente.
Già vicino al monton Febo splendea,
E dell’anno era il tempo più festoso
Che fu sacrato a Bacco e a Citerea;
Viva stagion, che tacito, amoroso
Fuoco ne’ petti ascosamente cerca;
E rende l’uso allor licenzioso
Sì l’uomo, che senza esserne schernito
Tutto si dona in preda allo appetito.
Avea tra i Cappelletti il più onorato
Grado per merto Antonio e per fortuna;
Né dalla bianca sua fazione amato
Sol era, ma l’amava ancor la bruna.
Ond’ei, per dimostrarsi a tutti grato,
(Sendo a ciò la stagion molto opportuna)
Dava in conviti e in danze a tutte l’ore
Diletto ai cittadini ed al Signore.
Fattosi un dì del Dio della battaglia
Il giuoco fier da i nostri cavalieri,
Che non eran vestiti a piastra e maglia,
Men ch’in amar umili, in arme fieri.
Acciò che’l bene al sommo intero saglia
Da tanti incominciato alti piaceri,
Presa l’occasion che offerta gli era,
Convitò ognun per la vicina sera.
Con alto suon di trombe, e di cavalli
Spessi annitriri, e di tambur rumori,
Tuttor cadendo fior vermigli e gialli
Dall’aria sparsi di soavi odori,
I cavalier da i marziali balli
Cinti le tempie d’onorati allori,
Ai loro alberghi accompagnati furo;
Né molto stette il cielo a farsi oscuro.
Già de’ nobili va la maggior parte
D’Antonio ad onorar la festa altiera;
Tulle le belle e nobil donne sparte
Per la città, vi s’adunar’ la sera.
Fra l’altre una v’andò, che sacra a Marte
Fu detta, bella assai, ma cruda e fera.
Dalla costei durezza, oh ria memorial
Ebbe principio la pietosa istoria.
Perché dall’amor suo spinto il maggiore
Dell’altra fazion Romeo Montecchi,
Par che più aitato da animoso core,
Che da ragion, seguirla s’apparecchi;
Né generando in lui nessun timore
Lo sparso sangue e gli omicidii vecchi,
Travestito, sicur si persuase
Poter entrar nelle nimiche case.
E cosi sol senz’ altra compagnia,
Per con men sicurezza esser sicuro,
Indrizzò i passi ove la sorte ria
Del suo sì picciol bene, e del futuro
Suo sì gran male, avea fissa la via.
Oh del mondo sperar fallace, oscuro!
Che più che l’uom tra noi ascende in alto,
Più nel cader fa ruinoso il salto.
Parve pensatamente, e pur fu a caso;
Che salit’ei nell’ampia sala a pena,
II Cappelletti, sin allor rimaso
In camera, uscì fuora, e dalla piena
Casa oltramodo forse persuaso,
Per ischifar qualche futura pena,
Quanto poté cortese intender fece.
Ch’ivi star mascherato a nessun lece.
Lietamente da tutti fu fornito
Ciò che ’l padron benignamente chiede.
Il giovin sol da doglia aspra assalito,
Del folle ardir, dell’error suo s’ avvede?
Ragionevol timor, sicur partito
Prender gli fa di levar quindi il piede;
Ma che intrepido resti Amor al tutto
Con ragion vuol, da ch’ei ve l’ha condutto.
Scoperse alfine, e non con poco incarco
Delle più belle donne, il suo bel viso.
Col figlio armato di faretra e d’arco
Scese Venere allor dal paradiso.
Quivi allo stretto inevitabil varco
Rimase più d’ un cuor ferito e anciso:
L’abito feminil, ch’indosso avea,
L’assimigliava a ninfa, o a immortal Dea.
Fra le molte saette argentee e d’oro,
Ch’ in un attimo infisse Amor ne’ cori,
La ricca più, con più gentil lavoro
Formata, eletta a più infiammati amori,
Drizzò in colei che nel femineo coro
Più degna esser pensò d’eterni onori;
Onde ne nacque affezion si forte,
Che non iscemò poi fortuna o morte.
Aveva Antonio una leggiadra figlia,
Della vecchiezza sua sostegno e speme;
Cui il giovane, ch’ a donna allor simiglia,
Già accesa ha nel suo amor con l’altre insieme.
Ella lui mira or pallida, or vermiglia,
E le bellezze sue stimando estreme,
L’immagin lor nell’anima riceve,
Mentre il fuoco d’ amor con gli occhi beve.
Poscia gran pezzo nello impresso obietto
Vivuta, mentre fu morta in sé stessa,
Sospirando mandò dal caldo petto
Di ripreso vigor certezza espressa.
La compresa cagion di tal rispetto
Allor fra sé di maledir non cessa;
Che tanto nel desìo s’inaspra il core.
Quanto difficultà vede maggiore.
Ne’ servigi d’amor dall’altra parte
Il cavalier fra gli altri amanti raro,
Esser a molte avea compreso in parte,
Ma più ch’ ad altra alla fanciulla caro:
Ond’ ei pensando quanto sacra a Marte
Gli avea mostrato ognor l’animo avaro,
Quindi spinto da amor, quinci da sdegno,
Nel cuor cangiò liberamente regno,
Cangiò regno nel cuor, dandone allora
Scettro e corona alla seconda amata.
Poi, ch’ aitato da lei, la prima fuora,
Che tiranna ne fu, n’ebbe scacciata.
Mira l’alta beltà che l’innamora,
E vie maggior dell’altra e vie più grata
Stimandola, di lei tutto s’accende,
E che anch’ ella ami lui speranza prende.
Mentre d’alto pensier, di fiamma ardente
S’empiva il sole e la terrestre luna;
Che assimigliar beltà tanto eccellente
Né so, né voglio a mortal cosa alcuna;
Fuor del pensier d’ognuno immantinente,
Non cedendo anco al dì la notte bruna,
Rizzossi ognuno, e con calpestio spesso
L’un si vide partir all’altro appresso.
D’ aspra saetta ai mal sortiti amanti
L’improvviso rumor trafisse il core;
Che nello estremo ben le menti erranti
Da freddo oppresse e subito timore,
Pensar’, quindi partendo i circostanti,
Dever esser disgiunti: quando Amore,
Pietoso a tanto duol, bramato e bello
Negli animi spirò giuoco novello.
Come cred’ io, da quello antico nato,
Di cui spesso è tra noi costume ancora
Porre alla donna l’uomo, e all’uomo a lato
La donna in cerchio; cosi s’era allora
Con le mani ogni amante ivi annodato;
E al suon di più istrumenti, che tuttora
Danzando ivi s’udìan, lor era avviso
Trovarsi nei piacer del paradiso.
Nel mezzo della nobil compagnia
Primo uscì con un torchio acceso in mano
Un giovin, che con vaga leggiadria
Una donna gentil prese per mano,
A cui con riverente cortesia
Dopo un breve girar sciolta la mano,
Consegnatole il torchio, il cerchio aperse,
E rinchiudendol poi fra duo s’offerse.
Quella un altro pigliò, del qual già amore
Nell’anima le avea l’effigie impressa:
Cosi nutriva l’un dell’altro il core
Un fuoco, un duolo, un’allegrezza istessa;
Sin ch’ una per desir soverchio fuore
Quasi di sé, in un subito dismessa
La donnesca paura, scelse ardita
Il nascosto Romeo, del cerchio uscita.
Ei tinto il volto del natio colore
Che veste il cielo allo spuntar del sole,
D’un dolce sguardo suo con lo splendore
Allo ufficio supplì delle parole;
E con pietà pensando al vano ardore
Di tal giovane poi, col cuor si dole;
Che servir non si può con fede a dui,
Né sé ad altri donar, sendo d’altrui.
Pur risoluto in un momento al gioco,
Nel mezzo entrò non men gentil che bello,
U’ si raccese in infinito il foco
Nato pur dianzi in questo petto e in quello:
Slegato poi da quella donna, il loco
Col pensier ferma ove riporsi, e snello
Prese un’altra, e per ordin la depose,
Poi cheto appresso alla sua Dea si pose.
Per coprir e scoprir gl’ interni ardori
Qual via non trova innamorato ingegno?
Per soffrir male e ben qual non gli amori
Prestano ai servi lor forza e sostegno?
La Giulia di sospetti e di terrori,
Di gelosia, di duol carca e di sdegno,
(Che così la fanciulla era nomata)
Fu in un’altra in quel punto trasformata.
E qual talor, poi che la nube scorse,
Si vider rai di vivo fuoco al sole,
Tal d’onesto rossor tinta si porse
Al giovane, ch’in sé sol ama e cole;
E stata tutta umil gran pezzo in forse,
Raccogliendo dal cuor dolci parole,
Le nascoste amorose fiamme ardenti
Gli scuopre sotto questi onesti accenti:
“Veramente, Romeo,” diss’ella, “poco
Più che voi restavate del mio core
Il ghiaccio a temperar col vostro foco
Ch’a me recò, per darmi vita, amore;
Marcuccio Verzio qui già a poco a poco
Con la sua fredda man, del corpo fuore
Mi traea l’alma; ond’io tante vi dono
Grazie, quant’ è della mia vita il dono.”
Di Giulia l’una man per sua sventura
De’ Verzii un nobil giovane tenea,
Detto Marcuccio, il qual di sua natura
Fredde le man la state e’l verno avea.
Loda il gentil Romeo la sua ventura
Del favor, che da Giulia ricevea;
Favore, onde ne nacquero l’interne
Fiamme, che ad ambi fur ne’ petti eterne.
E, racquetato alquanto il core oppresso
Dalla dolcezza, con tremante ardire
Cominciò con parlar dolce e sommesso,
Mentre alti suon fean l’aria tintinnire:
Deh, poi ch’ a me ’I parlarvi ha ’l ciel concesso,
Perché debbo ’l mio ardor non vi scoprire?
O me felice, o avventurosa sorte,
Vita nascendo a voi dalla mia morte!
Mi dier’ morte i vostri occhi, e mi privaro
Del cuor, quando pur dianzi gli mirai:
Essi l’alma per sempre mi legaro,
Si che più mio so di non esser mai:
Ma più ’l laccio e ’l morir per voi m’è caro,
Che vita e libertà per altra assai.
Deh dunque, ancor ch’io creda esserne indegno,
Ch’io v’ami e serva non abbiate a sdegno”.
A Romeo chetamente fu con quella
Modesta e riverente cortesia
Risposto dalla nobile donzella,
Ch’al loco, al tempo, e ad ambi convenia.
Si mandavan del cuor certa novella
I lor occhi e le mani tuttavia;
Che agevolmente amor ne’ gentil petti
Imprime ardenti ed onorati affetti.
Mentre vagando fra rose e viole
Godevan l’alme il ben del paradiso,
La vaga stella, che del venir suole
Portar della propinqua aurora avviso,
Tuttor poggiava, quand’ ivi parole
S’udir’ d’un uom, ch’in alto scanno assiso
Dando commiato a ognun, fine ai piaceri,
Ne’ petti raddoppiò fiamme e pensieri.
Né rallentar’ gli amanti con men doglia
L’avviticchiate man, vive catene,
Che dal corporeo vel l’alma si scioglia,
Certa di non mirar l’eterno bene:
Quinci allor nacque del morir la voglia,
Quinci s’incominciar’ le gravi pene;
Che a lor l’esser dall’altro l’un diviso,
Fu un cangiar con l’inferno il paradiso.
Restaro ambi al partir tremanti e smorti,
E dolor sì mortal lor punse il core,
Che parve ben che così acerbe morti,
Come ebber poi, lor nunziasti, Amore.
Ah! perché crudeltà tanta comporti
Ne’ tuoi più fidi servi? Deh, signore,
Non piaccia a te, che’l nostro amor decline
Unqua a sì crudo e miserabil fine.
Indi per riposar si ritrovaro
Chi qua, chi là nell’oziose piume,
Piume e riposo sol aspre ed amaro
A Giulia ed a Romeo fuor di costume.
Quivi ambidue in un tempo cominciaro
A pensar l’un dell’altro al vago lume,
E a sospirar, che lor posto nel core
Desir senza speranza avesse Amore.
Ma la giovane pria, ch’ era più molle
E meno atta a soffrir sì grave affanno,
Comincia: “Ahi lassa! Deh come amor volle
Rubarmi il cuor sotto si aperto inganno!
Misera la mia vita, ardir mio folle!
Ben disperato, anzi aspro e certo danno!
Debbo così miseramente gire,
Vedendol’ io, precipite al morire?
Ben sarei di felice alma fortuna
Diletta unica figlia, quando un nodo
Onesto marital duo corpi ed una
Alma giungesse con eterno chiodo.
Ma come aver poss’io speranza alcuna,
Poiché sin or, come ho già udito ed odo,
L’una e l’altra di noi famiglia visse
In odio sempre e in sanguinose risse?
In quel travaglio la confusa mente
D’uno incerto timor tutta s’empìa,
E dicea in sé: costui le voglie intente
Sol avrà al biasmo e alla ruina mia.
Tosto poi si riprende, e aver si pente
Del suo signore opinion sì ria;
Chè non le par che inganno o indegno affetto
Possa capir sotto sì dolce aspetto.
Mentre il caldo disìo, l’alto pensiero
A quel petto gentil l’alma divora,
Per l’orme stesse il medesmo sentiero
Romeo trascorse annoverando ogni ora;
Fin ch’ uscita dell’onde allo emispero
Nostro le trecce d’or mostrò l’aurora.
Allora all’alma stella, ch’anzi al sole
Suole apparir, drizzò queste parole:
“O della terza sfera eterna luce,
La cui somma virtù sopra la terra
Tanti e si degni effetti ognor produce,
Perché, spegnendo in noi l’odio e la guerra,
Gli uomini a pace e ad amicizia induce,
Deh quel tuo vivo ardor ch’ in me si serra,
Nella mia donna e in me tal fin sortisca,
Che le nostre famiglie insieme unisca.”
“Se gli antichi di noi già stoltamente
Insieme incrudelir’, sia loro il danno.
Se già dal bene ebb’ io torta la mente,
Pentito, da me stesso or mi condanno.
Deh per pietà mi riformi innocente
Quel che m’affligge il cuor soverchio affanno:
Sia dunque, sia ’l mio amor felice, o ammorze
L’ardor suo pria ch’ in me prenda più forze.
Indi ne’ tempii, alle finestre, e in quello
Che a lor loco migliore offria la sorte,
Rimirandosi il giorno, al lor ribello
Sperar aprìan del cuor le chiuse porte.
Ma seguendo poi l’orme del fratello
La luna, era il duol quel, quella la morte;
Che in pensieri, in sospiri, in pianti e in guai
L’ ore spendean, senza posarsi mai.
Fra molte notti poi, che senza alcuna
Quiete fur condotte dagli amanti,
Occorse in una di color men bruna
Per la caduta neve il giorno avanti,
Che Giulia, o per veder l’argentea luna,
O qualcun’ altra delle stelle erranti,
A caso avendo la finestra aperta,
Veder quivi le parve un’ombra incerta.
E stringendo degli occhi le palpebre.
Chiara si fe’ ch’ uom vivo era, e non ombra.
Onde, come natura è muliebre,
Di subito timor l’alma s’ingombra:
E già si ritraea: ma di latèbre
Romeo già uscendo, tal timor le sgombra,
Romeo tratto ivi pria da gravi omei;
E ben riconosciuto fu da lei.
Qual madre che si vegga d’improvviso
Giugner avanti caro unico figlio,
Che da lei lungamente fu diviso
Da diffinito capital esiglio,
Con l’anima l’abbraccia, e ’l cuor conquiso
Ha dal dolor; che da mortal periglio
Sa che ancor non è libero, o assoluto,
Onde cerca al timor, piangendo, aiuto:
Tal, veduto il suo amante, la donzella
D’ amorevol pietà tutta addolcita,
“Or qual, disse, vi spinge iniqua stella,
Qual qui travvi amorosa calamita?
S’ ogni speranza è al nostro amor ribella,
Perché porre in periglio ognor la vita?
Or che, dolce signor, per vie distorte
Cercar con biasmo altrui la propria morte?”
“Deh, madonna,” diss’ei, “sì ch’ire a morte
Mi veggio, e tosto giugnerovvi al tutto:
Ma, devendo morir, qual miglior sorte
Aver potrei, ch’ a morte esser condutto
Qui in sui vostri occhi innanzi a queste porte?
Che forse allor con viso non asciutto
Mi guardereste, e morto la pietate
Proverei in voi, che vivo mi negate.”
Mentre pensa più oltre afflitto e mesto
Seguir parlando, o risposta attendea,
Vide serrar, con improvviso e presto
Ritirarsi, il balcon dalla sua Dea.
Gli fu sì fin a l’anima molesto,
Sì lo trafisse, e al cuor piaga sì rea
Il subito di lei partir gl’impresse,
Che duol non è ch’al suo dolor s’appresse.
Chi vide uom’ mai, poiché gli cadde appresso
Lo spaventoso fulmine dal cielo,
Attonito restar fuor di sé stesso,
Tal che non sente più caldo, né gelo;
Pensi Romeo rimasto quello istesso,
Offeso allor da più pungente telo:
Né prima in sé tornò, che d’ogni intorno
Febo quasi spargea, nascendo, il giorno.
Onde per vie men frequentate e note
Vivo appena allo albergo si condusse;
Ma non prima nel mar tuffò le ruote
Il sol, ch’ indarno ancor vi si ridusse.
Pur fra molte per lui d’effetto vuote
Notti, ch’ a ritornarvi amor l’indusse,
Ecco in una al balcon vede apparire
La Giulia, e cosi l’ode irata dire:
“Ah! perché a tanto temeraria impresa
Riporvi osate ancor sì stoltamente,
S’ogni vostra fatica indarno è spesa?
Perché oltraggiar vi giova una innocente?
Deh se passar, senza vendetta, offesa
Alcuna o poche il ciel mai non consente,
Credete, quando offendermi cerchiate,
Che sien l’ingiurie mie non vendicate?
Certo, se a biasmo della stirpe mia
A quivi consumar le notti e i giorni
(Il che far non dovreste) odio v’ invia,
Non vo’ dell’altrui colpe aver gli scorni:
Ma se con puro amor pena sì ria
Prendete per piacevoli soggiorni,
Tremar mi fa il periglio, in cui vegg’ io,
Posta la vita vostra e l’onor mio.
Ma, perché più nello avvenir sicuro
Siate del mio voler casto e sincero,
Né senza lume entriate in loco oscuro,
Quando io m’accorga pur ch’ in voi pensiero
Nasca a vergogna mia, per Dio vi giuro
D’esservi sempre aspido sordo e fiero:
Quando m’amiate, come ragion vuole,
V’aprirò il cuor con semplici parole.
O sia che presso ogn’un naturalmente
Siano in pregio maggior le cose rare,
O pur dal ciel sien nostre voglie intente
A odiar quelle, ad aver queste care;
Io confesso il mio error, se onestamente
Dir si può errore il suo signor amare;
Allor che per mirarvi gli occhi apersi,
Me a me togliendo, a voi tutta m’offersi.
Indi risolta de le volte mille
Son d’or lasciare, or di seguir l’impresa;
Quinci dandomi speme di tranquille
Paci la fiamma in me d’amore accesa,
Quindi me impaurendo le faville
Non spente ancor di qualche antica offesa:
Senza conclusion son finalmente,
Qual vedete, confusa a voi presente.
E perché ognora mi trafigge il core
Vedervi in un periglio tanto e tale,
E in sì vane fatiche spender l’ore;
Oltre ch’alto timor sempre mi assale,
Che non ne sia macchiato anco’l mio onore;
Disposta son, perché segna men male,
Provando con mio rischio l’amor vostro.
Satisfar castamente al desir nostro.
Frate Batto Tricastro, de’ minori
Di san Francesco, è segretario intiero
Del cor, non che de’ miei passati errori:
Sendo voi, signor mio, fermo in pensiero
Ch’abbian debito fine i nostri amori,
Eccovi il sol fido istrumento vero;
Né più vi dico; ma fin che ’l ciel vuole,
Nel petto di noi tre stian le parole.”
Oh con che gioia, oh come intentamente,
Oh da qual maraviglia sovrappreso
Ha ’l gentil cavalier la santa mente
E ’l saggio dir della sua donna inteso!
Fu di sì grata offerta umilemente
Da lui debite grazie a quella reso:
Ond’ ambi d’un voler pari e sincero
Fermaro’ al loro intento ordine intero.
Quai fussero i pensier poi degli amanti.
Pensar può chi per prova intende amore;
Che di lor voglie il fin postisi avanti,
Stavan fra gaudio e duol, speme e timore.
Romeo conteso da contrasti tanti
Veder soffre a fatica il nuovo albore;
Che, d’abito mutato, a trovar tosto
Va il frate, a cui il suo amor non era ascosto.
“Padre,” gli disse, “da cui sol dipende
Or la mercè d’ogni fatica mia,
E dal cui buon giudizio si comprende
Quanto mi sia la sorte o buona o ria;
Deh, se voi per sua scorta il mio cuor prende,
Sìami la voglia vostra amica e pia:
Così tutte le grazie eternamente
Veder possiate ai desir vostri intente.
So che già dalla Giulia istrutto a pieno
Dell’onesto amor nostro esser devete.
Or volendo ambi che contratte sieno
Legittime tra noi nozze segrete,
Deh, padre, in ciò non ci venite meno;
In voi ci rimettiam. Dunque eleggete
Voi il tempo, in cui si stringa in santo modo
Fra noi col vostro testimonio il nodo.”
Così parlò Romeo con caldo affetto;
Stette stupito il frate ad ascoltarlo;
E perché in nodo d’amicizia stretto
È sèco, si dispon di contentarlo;
Ancor che, avendo al vecchio odio rispetto
De’ padri lor, sia periglio il farlo;
Ond’ a lui, per avergli obbligo molto,
Risponde in guisa tal con lieto volto:
“Inteso il voler vostro ho pienamente,
Onorato figliuol; sa il grande Iddio,
Ch’ebbi in servirvi ognor le voglie intente,
E sa quanto è ver’ voi l’obbligo mio.
Or col cuor lo ringrazio e con la mente,
Che occasion mi porga, onde poss’ io
Con rischio della vita e dell’onore
Mostrarvi apertamente l’alma e ’l core.
Eccomi al voler vostro ognor disposto.
Temprate ambi il desir con ferma speme;
Che vi prometto il giorno elegger tosto,
Qnd’io v’unisca santamente insieme”.
Così a Romeo dal frate fu risposto;
Ed ei, rendendo a quel grazie supreme,
Partissi pien di gaudio e di conforto.
Che durò, lasso! In lui tempo sì corto.
FINE DEL CANTO PRIMO
CANTO SECONDO
Che forza ha ’l ciel, se la malizia umana
Contra l’ordin di quello opra e dispone?
Se l’uom più puote, a che con speme vana
Del ciel pur l’opre sue l’uomo compone?
Deh pur so io, che sol da sopra umana
Virtù ch’ io ami voi vien la cagione,
Ch’anco ad amar me voi il cielo ha spinto,
Ond’ un sol nodo ha ’l vostro e ’l mio cuor cinto.
Dunque, misera me! Chi mi v’ ha tolto,
Volendo il cielo e voi pur farvi mio?
Chi v’ ha privo di me, s’avea risolto
Che fuste mio signore, il cielo ed io?
Io piango senza voi legata, e sciolto
Voi senza me vivete in pianto rio.
Quando spente fian mai tante facelle,
Se in ciel per noi non han poter le stelle?
Le stelle in noi (so ben che non vaneggio)
Avran poter, quando vogliam pur noi.
Voi il mio voler avete, io ’l vostro chieggio;
Ben l’ho, ma più che prima pronto poi?
Dunque almen le nostre alme ambe in un seggio
Unirà Citerea ne’ regni suoi:
Tempriam con tale speme il duolo intanto.
Ma tempo è omai ch’io seguiti il mio canto.
Giunti a mezzo il lor corso eran quei giorni,
Ne’ quai sempre al Cristiano obbligo fue
(Acciò del Re celeste in grazia torni)
Volontario accusar le colpe sue;
Quando gli amanti, a cui par che soggiorni
Troppo il tempo ch’unir deve ambidue,
Fermaro il giorno in cui col frate insieme
Cogliessin frutto della loro speme.
Onde alla madre umilmente parla
La Giulia un dì: “Deh madre mia, s’abbiamo
Sol quest’ alma d’entro, perché a farla
Delle sue macchie monda più tardiamo?
Quando il confessor nostro, per purgarla,
A trovar, come è debito, ir vogliamo?
Tempo è, che alla ragion cedendo i sensi,
Un giorno almen per l’alma si dispensi.”
Con quanta del suo cuor gioia e dolcezza
Ciò udisse la divota vecchierella,
Ne fer’ fede il bagnar per tenerezza
Gli occhi di pianto, e ’l perder la favella.
Ma riavuta: “O della mia vecchiezza
Sola speme e sostegno”, a lei diss’ ella,
“Or questo desir tuo sì santo e pio
Infinito ver’ te fa l’amor mio.”
E senza altro aspettar di tempo o d’ora,
Dalla sua più secreta cameriera
Pietro innanzi chiamar si fece allora,
Pietro ch’antico e fedel servo l’era;
E dissegli: “Farai là nell’aurora
Di man col confessor nostro in maniera,
Ch’ei di sé copia non prometta altrui,
Perch’ esser Giulia ed io vogliam con lui”.
Pietro, già d’ogni occulto desidero
Di Giulia e di Romeo prima avvertito,
Non prima illuminò questo emispero
Febo di raggi lucidi vestito,
Ch’a trovar n’andò il frate al monastero;
E l’ordine con esso stabilito,
Alla padrona poi saper fe’ tosto,
Ch’era il Tricastro al suo voler disposto.
Onde lieta oltra modo con la madre
Dopo ‘l prandio la Giulia entra in cammino,
E tosto fur presenti al santo padre.
Egli, poi che con capo umile e chino
Le accolse, in testimon le sante squadre
Del ciel chiamando, lor fe’ del divino
Giudizio orrendo e della eterna gloria.
Con non picciol comento, lunga istoria.
Dato fine al proemio, ed entrato al fine
In un’ di quei lor chiusi usati ostelli,
U’ benché; come all’ aquila vicine
Colombe, o come presso al lupo agnelli;
Sian salve; ancor frequentali le meschine;
Colpa dei padri, mariti, e fratelli;
Prima umilmente ad isgravar la vecchia
D’ ogni peccato l’alma s’ apparecchia.
Entrò poi Giulia, ch’ivi era aspettata
Da Romeo, dentro ascoso un pezzo avanti:
Tosto ch’ ad opra far sì desiata
Si vider giunti insieme i lieti amanti,
Fu l’alma d’ ambidue tanto alterata,
Che pria di fuoco, e poi freddi e tremanti
Rendendo i corpi lor, quasi fur privi
Di vita: e ben per lor se morìan quivi;
D’ambi vedendo le corporee salme
Il saggio frate senza spirto in vita,
Prese d’uno e dell’altro ambe le palme;
E lor con lieta fronte e voce ardita
Disse: “dappoi ch’il cielo, o nobili alme,
A tanta gioia, a tanto ben vi invita,
Prendete ardir; che in vece oggi di Dio
Sempiterno gioir vi promett’ io.”
Indi volto alla timida donzella,
Venuta già qual pallidetto acanto;
Così con bassa voce a lei favella:
“Onorata figliuola, io sempre quanto
Padre ami figlia, o frate ami sorella,
Amata ho te; ma se del voler santo,
Ch’io credo esser in te, non sei avara;
Or ben mi sei come la vita cara.
Ho già in parte da te, ma da Romeo
Or qui presente ier più a lungo inteso
Quanto restiate, già gran tempo feo,
D’onesta fiamma l’un dell’altro acceso;
Com’ei lontan da ciascun pensier reo
Per te fusse, e al tuo onor mai sempre inteso
Ieri ben conobb’ io, che con lo stesso
Cuore il suo buon voler mi fece espresso.
Dissemi ancor, che risoluti al tutto
Sète ambidue di córre onestamente
Del vostro amor, senza più indugio, il frutto;
Ond’oggi, acciò che della vostra mente
Io testimone sia, mi avete indutto
A dever a tal’ opra esseer presente:
Or bramo udir che di voler conforme,
Giulia in Romeo, di Giulia si trasforme.”
Giulia, già di vigor ripreso alquanto,
Trasse un grave sospir di mezzo il core,
Indi alzando i begli occhi disse: “Ah quanto
Tempo è ch’ in lui m’ha trasformata amore!
Cosi consenta il ciel, che seco tanto
Viva contenta insìn all’ultim’ore,
Quanto d’esser or sua contenta sono:
Già gli diei l’alma, e ’l corpo ora gli dono.”
Così scoperse Giulia la sua mente;
Onde raccolse la bramata forma
La disposta materia facilmente.
Romeo seguendo la cristiana norma,
Come si suol con assentir presente,
Or quella il dito d’aureo cerchio informa;
E con nodo fedel d’una parola
Duo furon poscia in una carne sola.
Indi con un soave bacio fatto
Cambio insieme dell’anime e dei cori,
Di ritrovarsi fu tra lor contratto
La notte a disfogar gli interni ardori.
Chiusa una grata poi, ch’al primo tratto
Il frate aperta avea, Giulia uscì fuori,
E con la madre insieme fe’ ritorno
A casa poi, fornita l’opra e ’l giorno.
Già cominciava l’ora avvicinarsi
D’esser insieme allo amoroso assalto;
Già con moto frequente in sen tremarsi
Sentono i cori, e gir or basso, or alto
Poi, cessato il calor, pian pian restarsi
Di ghiaccio, e immoti come freddo smalto.
Oh qual timor nel duolo, Amor, ne dai,
Se tremar nella gioia anco ci fai!
Già Romeo di quell’armi a tempo armato,
Con le quai più la notte ir s’assicura,
Prende, dal suo amor solo accompagnato,
Il bramato cammin senza paura;
Già giugne al loco, u’ crede esser beato,
Né sa l’iniqua sua sorte futura.
Quivi la sposa, che buon pezzo innante
L’ aspetta, accoglie lui tutta tremante.
Chi dirà ’l gaudio estremo ch’ei sentiro?
Chi le soavi lor parole rotte
Or da questo or da quel dolce sospiro?
Ch’ i baci spessi, dal cui mel condotte
L’alme alle labra fuor quasi n’usciro?
E chi l’alta dolcezza che la notte
Congiunti in un gustaro ambi egualmente?
Dillo, Amor, tu ch’ a ciò fusti presente.
Dirò ben io, che quella notte affatto
Divennero ambidue moglie e marito,
E ch’ in dolce vigilia satisfatto
Avendo in parte al senso e allo appetito,
Di trovarsi altre volte a sì dolce atto
L’ordine tra lor due fu stabilito:
E ben vi si trovar’; ma tempo breve
Durò la gioia lor fugace e lieve.
Però che, mentre i miseri consorti
Senza sospetto alcun sicuramente
Spesso in questi notturni almi diporti
Disfogavan d’amor la sete ardente,
Ecco cangiarsi in ciel le instabil sorti:
Fortuna rea di ben oprar si pente;
E ’l già tant’anni oppresso, a poco a poco
Sorge dai petti, avvelenato foco.
Dico ch’ un dì Tebaldo, ardito e forte
Giovin de’ Cappelletti, in compagnia
Di molti altri, assalì presso alle porte
Dei Borsari il gentil Romeo per via,
E sangue, sangue ognun gridando, e morte,
Cominciar’ pugna dispietata e ria;
Né si sa certo qual la cagion fusse,
Che a zuffa sì crudel Tebaldo indusse.
II Montecchi gentil, che innanzi agli occhi
Mai sempre avea l’amata sua’ mogliera,
Pria che da giusta collera trabocchi
A incrudelirsi in quella turba fera,
Tenta l’ire allentar, lascia che fiocchi
Molto velen dalla nimica schiera;
Ma non giovando ciò molto, né poco.
Gli fu forza ammorzar col foco il foco,
Eran già i suoi dalle ferite tutti
Tinti di sangue; ei per pietate e duolo
Divenuto crudele, scopre tai frutti
Del suo valor, che del nimico stuolo
Non lascia appena due di sangue asciutti:
Virtù d’un nobil petto, opra d’un solo;
Che quanto in l’opre un vil divien più vile,
Tanto più ardito sempre un cor gentile.
Fuggita la vil turba e quasi spenta,
Tra i padron si ridusse la battaglia.
Tutto schiumoso il fier Tebaldo tenta
Di mille solo un colpo far che vaglia:
Fa l’amor della moglie a Romeo lenta
La man; ma sì ’l nimico lo travaglia
Che al fin per dar a sé medesmo aita
Con una punta a lui tolse la vita.
Morto il pastor, disperso il gregge in fuga
Ne va; s’ alcun pur vi riman del gregge;
Fredda paura orribilmente il fuga;
Che non ha la paura ordin, né legge.
L’offesa fazion non prima asciuga
Le piaghe al morto, che piangendo chiegge,
Sotto apparente di giustizia velo,
Del suo oltraggio al signor vendetta e al cielo.
E perché della prima impressione
Suole appagarsi questo e quel signore,
Pensò di non potersi con ragione
Oppor Romeo del principe al furore;
Onde a non girgli innanzi si dispose:
E benché un separarsigli dal core
L’alma, il lasciar la moglie esser gli deggia,
Convien che per men mal l’esilio eleggia.
Intanto del Tricastro al monastero
Salvossi, e quindi alla sua sposa scrisse,
Che l’ucciderebbe il duolo acerbo e fiero,
Non le parlando innanzi ch’ei partisse.
Fu Pietro della carta il messaggero:
Ond’ella afflitta e mesta, pria ch’uscisse
Tre volte il sol di Gange, in guisa fece.
Che al desir del suo sposo satisfece.
Andò al loco a trovarlo, ove da lui
Con infelice augurio fu sposata.
Tosto che vide l’un la faccia altrui,
Restar’ gran pezzo, ahi coppia sventurata!
Privi di sensi e immobili amidui
Ma la smarrita in lor virtù tornata,
Lagrime spesse e sospir gravi fuore
Spinge de’ petti loro alto dolore.
E tra i sospiri e i pianti a Giulia move
Dall’anima tai detti: “Ah! qual ria sorte
Fa, che tanti il cuor nostro affanni prove?
Chi fa del ben di noi l’ore sì corte?
Ahimè, signor, pur vi partite? e dove
Me misera lasciate? ah! se la morte
Mia non v’ è cara, a voi grave non sia,
Che vosco, ove n’andrete, io venga e stia.”
Allor Romeo, con faccia lacrimosa
Gli occhi al ciel volti, sospirando disse:
“O del mio ben fortuna invidiosa,
Tu, tu, che per mie mani altri morisse
Festi, acciò privo della dolce sposa
Sendo, la vita mia tosto finisse;
Ma se da lei dividi or questa scorza,
Mai dividerne il cuor non avrai forza.
Ma crediate, mio ben, ch’io quel meschino,
Sforzato, uccisi per salvar la vita,
Vita che ’l volontario mio destino
Sempre a spender per voi lieta mi invita.
Or se da voi, ch’avete in me domino,
Merto impetrar in questa mia partita
Alcuna grazia, per l’eterna fede
Che in nome vostro in mezzo al cuor mi siede,
Qui vi piaccia restar, bene sperando,
E darmi buono augurio di speranza;
Che se ben fia questo mio corpo in bando,
Non è per cangiar mai l’anima stanza:
Ma che gir meco voi debbiate errando,
Non avranno le stelle unqua possanza;
Ch’ or troppo esser porìa biasmo il fuggire
Il padre vostro a voi, per me seguire.
Convien che sia l’accesa fiamma spenta,
Sia la ragion superiore al fine.
Pur quando o non succeda, o vada lenta
Oltre al nostro desir la cosa; inchine
La sorte u’ vuole il suo favor; consenta
Più che può mal; che voi delle vicine
Cittadi in una allora a vostra voglia
Verrete un dì nostra onorata spoglia”.
Così parlò Romeo; ma perché l’ora
Fuggìa tuttor furtivamente a volo,
Lor disse il frate: “Omai troppo dimora
Facciam; né si conclude, e ’l dolor solo
Fa che non siate risoluti ancora.
Io ch’amo ognun di voi come figliuolo,
Vi dirò fedelmente il parer mio,
E sceglier il miglior vi inspiri Iddio.
Tu, Giulia, rimarrai; tu più sicuro,
E men lunge che puoi, prendi l’esilio.
Perché in qual caso occorra o chiaro o scuro,
Potremo insieme aver facil consiglio.
Qui in util vostro, come scoglio duro
All’onde, Pietro ed io saremo. Or, figlio,
Prendi, e tu, figlia, ardir; che in le grandi opre
Il valor de’ magnanimi si scopre”.
Allo accorto parlar ubbidienti
Ambi restar’dal labil tempo astretti;
Cosi, l’un dall’altrui collo pendenti,
Ambi di pianto si bagnaro i petti,
E al lor mesto partir con preghi ardenti
Lasciaro esecutor di loro effetti
Il frate; il qual più insieme, ahi fiera sorte!
Non gli rivide fin alla lor morte.
Chi l’infinito duol narrar potria,
Con cui lascian l’un l’altro i fidi sposi?
A casa di cuor priva ella s’invia;
Egli senza alma, poi c’ha i raggi ascosi
Il sol, prende ver Mantova la via.
Da indi in qua sempre ebber lagrimosi
Gli occhi ambidue non mai si rallegraro,
Ma per men male ognor morte chiamaro.
Ma, perché il sempre lagrimar scemava
Più a Giulia la beltà di giorno in giorno,
Che del morto cugino si scusava
Vedersi ognora il tristo spirto intorno
La madre che più là forse pensava,
Per darle lieto natural soggiorno,
Da materna pietà vinta e dal duolo;
Fu col marito un dì da sola a solo.
E tutta umile: “O fratel mio”, diss’ ella,
“A me più che la propria vita caro,
Per quella dolce affezion, per quella
Fede onde i fati insieme ci legaro,
Quel che io vi dico o qual moglie, o sorella,
Piacciavi udir con viso dolce e chiaro;
E quando poi pur vi spiacesse, in dono
Della mia fedeltà darmi perdono.
Solo di tutto il viver nostro pegno
La Giulia abbiam, che già corre i venti anni,
Per cui tant’io son di cordoglio e sdegno,
Quanto piena è tuttora ella d’affanni:
Se lei il morto Tebaldo attristi, o segno
Di qualche suo desir sia che l’affanni,
Non so; ma della usata sua beltade
Con mio grave dolor troppo discade.
Forse cosa desìa che vergognosa,
Per coprirla ad altrui, soffre in sé stessa;
Io quando eguale al grado nostro cosa
Ci occorra, son d’opinione espressa,
Che d’uomo a lei conveniente sposa,
Come molte altre son, divenga anch’essa:
Cosi, forse allegrandola, verremo
Quel debito a pagar che seco avemo”.
Non biasmò il Cappelletti la mogliera,
E lodò la virtù della figliuola,
Che ’l suo intento alla madre in tal maniera
Detto abbia, senza pur farne parola.
Onde con dir, che far’ lo vuole, e spera
Che tosto fia, la moglie ne consola;
Né san ch’ a Giulia morte, ed a lor tanti
Causin con opra tal sospiri e pianti.
Non molto andò, poi che qualcuno intese
Doversi maritar donna si bella,
Che al conte di Lodron, che la richiese,
Promessa fu la nobile donzella.
Onde lieta la madre a far palese
Ratta alla figlia andò questa novella;
Sperando, ahi sciocca speme! ogni sua noia
Cangiar, con tal annunzio, in festa e in gioia.
“Cessin,” le disse, “i tuoi sospiri omai,
Rasciuga omai, figliuola, il pianto amaro;
Che Dio pietoso de’ tuoi tanti guai
Ti porge un don, che non potria ’l più raro
Fanciulla altra tua par bramar giammai.
E perché, come a te, m’è ’l tuo ben caro,
Quasi pensar non so qual maggior fia
O ’l tuo piacer, o l’allegrezza mia.
Aver puoi facilmente alla memoria
Un giovin conte di Lodron, che adorno
D’arme, di gemme e d’or, ma più di gloria,
Fece in giostra quest’anno a tanti scorno:
Quel, di cui la virtù d’eterna istoria
Fia a noi subietto e alle città d’intorno,
La tua d’ogni altra più felice sorte
Vuol ch’ei ti sia fratel degno e consorte.”
Qual pauroso lepre, s’improvviso
Giove talora orribilmente tuona,
Da subito timor così conquiso
Resta, che quasi l’anima abbandona;
Tal le guance di rose e ’l latteo viso
Impalliditi a Giulia, poi che suona
L’aspra novella per le orecchie al core,
L’interno appalesaro aspro dolore.
Onde l’accorta madre avendo alquanto
Risposta indarno dalla figlia attesa,
Da maraviglia prima, e poi da tanto
Nova mutazion essendo offesa,
Seguì dicendo: “Adunque, figlia, il pianto
Non cessa in te per l’allegrezza intesa?
Dunque presta e disposta ognor non sei
Al voler di tuo padre, e ai piacer miei?”
Ma né per aspro o dolce altro suo detto
Aver poté da lei risposta mai;
Sol lagrime e sospir le uscìan del petto;
Ond’ irata partissi, avendo omai
Che la figlia ami altr’ uom preso sospetto;
E perché caso era importante assai,
Né por l’onore a rischio a nessun lece,
Saper la notte al suo consorte il fece.
“Signor,” gli disse, “io temo non cercato
Rimedii al mal di Giulia abbiam contrari;
Io le ho delle sue nozze annunzio dato,
Sperando che con gioia alla mia pari,
E con maggior da lei fusse accettato:
Ma udito a pena l’ebbe, che sì amari
Pianti, e singulti mandò fuor sì spessi,
Come se morte a lei nunziato avessi.
S’abbia pensier a Dio forse sacrarsi,
O le incresca a lasciar l’amate case,
Non so; ma quanto può con lingua farsi,
La mia al voler nostro la suase:
Non mi disdisse no; ma di lagnarsi
Quanto fu lungo il dì mai non rimase.
Debbo il tutto mostrarvi aperto fuore,
Poiché del tutto voi sete signore.”
Si maraviglia ai detti della moglie
Antonio, e fa più d’uno stran pensiero.
Grave gli par, ma per non crescer doglie
A lei, le mostra il caso esser leggero.
Dicendo: “io non vo’ creder ch’ alle voglie
Nostre s’opponga Giulia, essendo intero
In lei l’usato senno; or non ti dia
Questo più affanno, e mio tal carco sia.”
E perché altr’ uomo er’ ei di quel ch’or s’usi,
Fece alla lingua la sua donna il nodo:
Egli in un solo i suoi pensier confusi
Ristretti, fisse al suo volere il chiodo.
Poi ch’ebbe il ciel duo giorni aperti e chiusi,
Con un dolce virile accorto modo
Colte la figlia e la mogliera sole,
Lietamente lor fe’ queste parole:
“Giulia, questa tua madre ha tanta cura
Del suo piacer, che mal pensa allo altrui;
E parle, perché sei nostra fattura,
Che tu viver ognor debba con nui:
Ma io, perché prodotti la natura
N’ha l’uno all’altro, sempre intento fui
Al tuo, come al mio bene; e però visto
Quel ch’or bisogni a te, v’ho già provisto.
Già, se no ’l sai, d’un nobile e cortese
Giovane fatta sei novella sposa,
Il cui valor per tutto è già palese.
So che a ciò non sarai tarda o ritrosa:
Né perché a te cangiar letto e paese
Convenga, dee parerti aspra la cosa;
Perché ’l tuo sposo è tal, ch’ove tu sia
Seco, a te paradiso il loco fia.
Francesco di Lodrone egregio conte
È questi, il qual ne verrà tosto a noi.
Rasserena col cuor gli occhi e la fronte
Rendi alla faccia i vivi color suoi.
Al bel nostro giardin tra ’l fiume e ’l monte
Fuora della città gli onori tuoi
Fien pubblicati ed opra ho già fatt’io,
Che fia in tutto contento il tuo disio.
Quel ch’ a voi far in ciò, donne, appartiensi,
Vorrei che senza indugio s’eseguisse,
Mentre quel faccio anch’ io ch’ a me conviensi”.
Partissi Antonio poi che così disse.
Oh quanto occupò ’l duol l’anima e i sensi
Di Giulia! Ella le luci in terra fisse
Tenute ognor, fin che fu’l padre quivi
Lassa converse in lagrimosi rivi.
Lo impetuoso duol mai non sofferse,
Ch’esprimer pur potesse una parola.
Fur della madre le virtù disperse
Dalla pietà che l’anima le invola.
L’una nell’altra sol gli occhi converse;
E accompagnate dalla doglia sola,
Dai sospir soli, e sol dal pianto amaro,
Senza favella immobili restaro.
CANTO TERZO
Benchè del cielo i dodici animali
Scorsi veloce il sole abbia tanti anni,
Non però fine ancora han l’immortali
Mie pene, e non ristor gli alti miei danni.
Ma se amor, ch’arde noi con fiamme eguali,
Dar mai vuol refrigerio ai nostri affanni.
Deh più non tardi; ch’ è ben tempo omai
Che della sua pietà ci scopra i rai.
Sia fine al duolo e alle fatiche estreme.
Cessino i fieri a noi contrari venti,
Goda il suo frutto la nostra alta speme,
E faccia i desir nostri il ciel contenti.
Deh se unite fur mai nostre alme insieme,
Né in noi quei primi ardor son anco spenti,
S’é mia la vostra, e vostra la mia vita,
Viviamo ambi due vite in una vita.
Né ci prenda timor, perché fortuna
Spesso all’alma gentil volga le spalle.
Non sempre il sol da nube oppresso imbruna;
Ride talor la più profonda valle.
E quando uscir pur ci convenga (ch’una
Volta forza è) di questo angusto calle,
Oh che eterno gioir, che dolce laccio
L’un dell’altro finir la vita in braccio!
Beate alme, a cui viver fu concesso
In vita e in morte eternamente unite!
Morissi oggi io, pur ch’io vi fussi presso!
Fusser sì dolci morti mie infinite!
Or che adempìr il debito promesso
Par ch’in tutto il voler vostro mi invite,
Il pietoso lasciato ordin seguendo,
Men che possibil sia spiacervi intendo.
So che aver con pietà dovete a mente
Come la miserabile donzella,
E la madre di lei mesta e dolente,
Duo statue parean senza favella;
Quando allentato il duol: “Dunque consente
Giulia al morir della sua vecchierella?”
Disse la madre; “e la figliuola mia
Mi pone in doglia si crudele e ria?
Se per quelli alimenti de’ primi anni
A questo petto sei punto obbligata;
Se mai per tanti sopportati affanni
Sei per mostrarti a questo ventre grata;
Figlia, tanta durezza non t’ inganni;
Non esser figlia a te medesma ingrata;
Manda una dolce tua parola fuore,
Né accresca ’l tuo tacer più ’l mio dolore.”
Ah! che dee Giulia far da passioni
Tante e sì gravi combattuta il petto?
Vorria risponder, ma con che ragioni
Fia al materno voler da lei disdetto?
Consentirle non può, né le ragioni
Dir vuol, che far le vietan questo effetto;
Pur mentre in tal contrasto si confonde,
Disperata alla madre al fin risponde:
“Io so, disse, o mia cara genitrice,
Quanto obbligata a voi sia la mia vita;
E che l’oppormivi io mi si disdice,
Nata essendo di voi, da voi nutrita:
Ma, se ad alcun (come cred’ io) non lice
Senza grazia special dal ciel sortita
Da sé oprar ben per satisfarvi in parte
Ecco che del cor mio v’apro una parte.
Di voi la voglia biasimar non posso,
Ma né lodar ancor quel che mi spiace;
Par, poi che tanto a far di me s’è mosso
Il padre mio, convien soffrirlo in pace:
Ma, acciò il mio cuor dal duol sia alquanto scosso,
Né muora anch’ io per far quanto a voi piace,
Quello, a che non mi spinge il proprio zelo,
Chiederò umil, con vostro mezzo, al Cielo.
Forse mi tiene alcun mio error sì trista,
Dal qual pentita devrei ritrarmi;
Però con voi desidero alla vista
Del spirital mio padre appresentarmi;
Che con tal mezzo ho speme che resista
Al senso la ragione, e consolarmi:
Benché (sallo Iddio sommo) sol procuro
A voi piacer, né di me punto curo.”
Se alla madre fu cara tal proposta,
Se senza replicar messa ad effetto.
Credendo averla al suo voler disposta,
Pensilo ognuno. In sì bramoso effetto
L’avea già scritto, e subita risposta
Avutane da Antonio suo diletto;
Onde sol convenia di ritrovarsi
Col frate, e sol col frate consigliarsi.
Condutta il dì prefisso al sacro loco,
De’ suoi consigli segretario vero,
Mezza morta gridò con parlar fioco:
“Padre, se ’l Ciel non ci rimedia, io péro.
Ma poiché fu tanto affanno un tanto gioco
Cangiato, e ’l caso mio sapete intero,
Tosto dal saggio padre ai mesti figli
Nella imminente morte si consigli.
Né, perché molle giovanetta io sia,
La mia vita arrischiar vi paia duro;
Che, per Romeo, soffrir ogni aspra e ria
Pena, e gir nello inferno m’assicuro.
Sua sposa è Giulia, e d’altri mai non fia:
Segua che vuol, periglio alcun non curo;
Né si turbi del Ciel l’alta potenza;
Che pria voglio morir, che viver senza.”
Intento è ’l frate, pien di maraviglia,
Della fanciulla al periglioso sdegno;
E l’un da sé discaccia, e si rappiglia,
Dal duol confuso a nuovo altro disegno.
Spinto al fin fuora un sospir grave: “O figlia,
A che passo per te dubbioso or vegno?
Quinci ’l mio biasmo e ’l tuo mi fa paura,
Quindi ’l voler salvarti m’assicura.
Ma perché ’l tempo fugge, e conosciuto
Ho nel tuo cuor deliberato ardire,
Dirò ciò ch’io vo’ far per darti aiuto,
E quello ancor ch’ a te convien patire,
Io ho un liquor, che se da te bevuto
Fia, duo dì quasi ti farà dormire;
Ma porratti in periglio tanto estremo,
Che con tutto il tuo ardir ne temo e tremo.
È mio parer che nella prima notte
Che giugnerai di fuora al tuo giardino,
Sendo voi donne in camera ridotte,
L’acqua, che dentro un vaso piccolino
Darotti, uscita da sacre erbe e cotte
Con temperato fuoco di verzino,
Ardita prenda, e con maniera accorta
T’acconci sì, che tu rassembri morta.
Nel digerir del cibo proverai
Cosa maravigliosa; che in un tanto
Alto e profondo sonno passerai,
Che non altro fu mai sordo altrettanto,
Con occulta virtù così starai
Tutta fredda tante ore, ch’ io mi vanto
Far che sepolta sii; né trovo altr’ io
Rimedio alla tua morte e al dolor mio.
Ciò a Romeo farò noto, sì che meco
Quivi a tempo serà per liberarti;
E ne andrai, tratta dalla tomba, seco.
Bramo, e ’l sa Dio, col vivo sangue aitarti.
Qui ti piaccia aspettar fin ch’ io ti reco
L’acqua, che’l cuor dal duol potrà lavarti.”
Detto sì avea partito appena, quando
Col segreto liquor tornò volando.
Dato, e riposto quello, e pienamente
L’ordin fermato, Giulia indi partìo;
E, trovata la madre, allegramente
Disse: or conforme al voler vostro è ’l mio.
Cosi allo albergo ritornar’ contente,
Ove di piacer vano ognun s’ empìo:
Oh fallace sperar, oh doglia, oh sdegno
Fuor di ragion d’innamorato ingegno!
Già Antonio allegro, e da ciascuna parte
Sicuro, l’opra accelerava al fine.
Già di tai nozze per Verona sparte
Eran più voci, e in ogni suo confine;
E già con pompa apparecchiarsi ed arte,
Degna di genti egregie e pellegrine,
Vedea la nuzial sperata festa,
Ch’in esequie a cangiarsi fu sì presta.
Ma, perché ’l dì ch’in ciel salì Maria;
Quivi il conte venir con pompa altiero
Devea di nobil gente in compagnia,
Gir Antonio pensò con la mogliera
Fuora al giardino alquanti giorni pria,
E la figlia menar; perch’ ivi spera,
Ma in van, poterle dar gioia e diletti.
Mentre il non vero suo sposo s’aspetti.
Ond’ella, innanzi ch’indi si partisse
Con augurio sì pessimo, ogni cosa
Al fido frate occultamente scrisse.
Pietro fu ’l messo, al qual la perigliosa
Sua fiera inteozion non però disse.
Indi condutta, ahi sventurata sposa!
Da nobil compagnia fu al tristo loco,
Ove in vita restar devea sì poco.
Qual uom serìa sì crudo, a cui spirasse
Aura d’ amor mai refrigerio al core,
Qual tigre ircan, poi ch’altri gli sottrasse
I cari figli, in più rabbioso ardore,
Che in dolcezza, in pietade or non cangiasse
La maggior crudeltà, il maggior furore?
Che non piangesse una si acerba sorte,
Sì fedel vita, e così ingiusta morte?
Quivi con lieta e sontuosa cena
In mezzo una dipinta primavera,
Fra bei ragionamenti, all’ombra amena,
Lietamente conducono alla sera
Il dì, cui in altra parte il sol rimena,
Indi da fuochi accesi in bianca cera,
Fra le tenebre splender d’ogni intorno
Si vide un nuovo e non men chiaro giorno.
Né molto dopo ognuno a riposarsi
Andò chi in questo, e chi in quell’altro letto,
Volle in le piume ancor Giulia colcarsi,
Per non far il suo intento altrui sospetto;
Ma a lei non però lasciano appressarsi
Sonno i contrasti interni del suo petto:
Ch’ or temendo il periglio impallidisce,
Ora il ben suo sperando il tutto ardisce.
Quando le par che già s’appressi l’ora
Che dar devea principio e fine all’opra,
Ascendendo già il sol verso l’aurora,
Forza è che ’l fuoco interior discuopra:
Onde in furor quasi di senso fuora,
Pigliato il vaso e voltolo sozzopra,
Tutto il liquor, che l’ultima bevanda,
Lassa! Le fu, nel ventre ardita manda.
Postolo poi vicino a sé da parte.
La tema e ’l duol sol con la speme aita;
Indi o mossa dall’ira, o pur ad arte,
S’alza nel letto, e con la voce ardita:
“Io dunque,” disse, “andrò per forza in parte
Nimica? Deh, ch’ indarno or mi marita
Il padre mio; e vedrà tosto effetto,
Per cui fia sempre poi senza diletto.”
Due donne a sorte in camera con quella,
Ma non nel letto stesso erano allora,
Della madre di lei l’una sorella,
L’altra seco vissuta quasi ognora.
Destolle ambe di Giulia la favella,
E pensar’, come a molti avvien talora,
Che sognando parlasse; ond’elle poco
Di ciò curando, al sonno ridier’ loco.
Giulia, che attenta ciò vede, prosume
Poterle riuscir quel che volea;
Onde, spento un che sempre acceso lume
Tener la notte in camera solea,
Si ruba cheta alle infelici piume,
Che sol per sempre allor premer devea;
E cheta a quelle poco poi ritorna
De’ suoi più ricchi vestimenti adorna.
Lo stomaco a mandar già cominciava
Freddi e nascosti spiriti al cervello;
E pietoso ed umil s’apparecchiava
Al sagrificio il mansueto agnello.
L’interno ardor cantando disfogava
Nel primo albor questo e quel vago augello;
Quando l’assalse un sonno così forte
Che poco forte è più quel della morte.
Già dava segno il cielo in oriente
Al mondo del solar vicino lume,
Ed usciva al suo ufficio diligente
Col suo gregge il pastor, come ha costume;
Quando le due compagne chetamente
Lasciaron liete le morbide piume,
E Giulia nella camera sepolta
Lasciaro in sonno star l’ultima volta.
Era la nobil compagnia levata
Dai pigri letti e tutta la famiglia;
Sola la troppo in crudel punto nata
Giulia chiuse tenea le belle ciglia:
Onde alla madre, essendo già passata
L’ora ch’esser devea desta la figlia,
Subita doglia e insolito tremore
Per così lungo sonno agghiacciò il core.
Si ch’ ella e la sorella curiose
Più dell’altre, in la stanza prime entraro,
E in voci dolcemente corrucciose
Sì lungo sonno a Giulia improveraro.
Quando mostrò l’empie cagioni ascose
Per le aperte finestre il giorno chiaro,
Allora i pianti e i gridi alti di quelle
D’improvviso salir’ fin alle stelle.
Poi che s’udir’ le dolorose strida;
E piena di furor corse la fama
Le triste case, e le arrabbiate grida
S’innalzavan tuttor, fuor di sé; chiama
Quella soccorso in van; che ’l ciel l’uccida
Questa, in dispregio a sé medesma, brama:
Fremon di femminil lamenti i tetti,
Che fur pur dianzi a tanta gioia eletti.
Stata gran pezzo a un marmo indifferente
La disperata madre, incominciaro
Per gli umidi occhi a uscir profusamente
Gli aspri interni dolor col pianto amaro.
Già ’l volto, tutta di furore ardente,
Con l’ugne si dilacera; e discaro
Sendole il viver, priva di conforto
Battesi con le pugna il seno a torto.
Si caccia a tutte innanzi, e scapigliata
Chiamando lei, cui morta esser si crede:
“Figlia”, dicea, “dunque hai così ingannata
La vecchia madre tua? questa mercede
Mertar’ le mie fatiche, figlia ingrata,
E ’l nutrimento che ’l mio sen ti diede?
Tu con la morte tua l’afflitta madre
Ucciso hai, crudel figlia, e ’l mesto padre.”
Comune il duolo e ’l pianto a ciascun era;
Fu maraviglia sol che ’l padre, udita
Avendo la novella acerba e fiera,
Vista morta la figlia, e tramortita
Sopra di lei l’amata sua mogliera,
Trafitto il cuor da tanto aspra ferita,
Come cade uom da fulmine percosso,
Quivi non cadde della vita scosso.
Pur, benché ei sia più ch’ uom mai fusse afflitto,
Dalla pietà più spinto e dall’onore,
Che da speranza alcuna, pel più dritto
Cammin verso Verona a gran furore
Spinge più messi; a quel portar fa scritto
Sì crudel caso; a questo con maggiore
Impeto dietro grida, ch’ivi tutti
Sieno i medici saggi a lui condutti.
E perché un miglio a pena lontan era
L’effetto rio dalla città successo,
Trovossene in un tempo ivi una schiera
Che non avrebbe ad Esculapio cesso.
Ma nessun fu però di così intera
Scienza, a cui saper fusse concesso
S’era morta, o dormìa; se per veleno
Era venuta, o da sé stessa meno.
Pur da qualcun di lor quivi veduto
Essendo a canto al letto il vòto vaso,
Stimato fu che di sugo premuto
Da cicuta era pien, postolsi al naso:
Ma fu da tutti unanimi creduto,
Anzi concluso in così fiero caso,
Che a volontaria morte, o per dolore
Giunta era Giulia, o per soverchio amore.
Poi che parve a ciascun pur morta al tutto,
Di mesta e nobil gente in compagnia
Fu ’l suo bel corpo alla città condutto;
E quivi, mentre ’l dì da noi partìa,
Verona empiendo d’incredibil lutto,
Con la pompa ch’ a ciò si convenìa,
Fu del divo Francesco al sacro tempio
Sepolto il sol di vera fede esempio.
Già ’l Tricastro in ver Mantova espedito
Con lettre la mattina un frate avea,
Per le quali Romeo fusse avvertito
Di ciò che fatto s’era, e far devea:
Ma l’empio suo destin, che stabilito
Avea già ’l dì della sua morte rea,
Fe’ ch’ei della città quel giorno uscisse
Pria che ’l nunzio fedel vi comparisse.
Giunto ivi il frate, che di propria mano
Porger volea la carta al cavaliero,
Cercollo il giorno invan, lo aspettò in vano
Finché Febo lasciò questo emispero.
Romeo, che da tal messo era lontano,
Venir intanto per dritto sentiero
Venir vede un, ch’ in fretta un destrier caccia,
E sol d’avvicinarsigli procaccia.
A gran passi il corrier più si fa presso,
Tal che quasi Romeo lo raffigura:
Men lunge gli par Pietro; dello istesso
Scorge vicin più chiara la figura.
Chieder che nuova porti a lui concesso
Non è dalla sua subita paura;
Fisso con gli occhi languidi lo mira,
E, senza motto far, trema e sospira.
Fu Pietro il primo a dir con mesto suono:
“Ahimè! Dunqu’io quell’infelice augello,
Che portar suol le rie novelle, or sono?
Date alla lingua mia, se annunzia quello
Che più offender vi può, signor, perdono;
Che, perché al cor vi sia mortal coltello,
Perché col suo parlar vi dia la morte,
Vivo mi trasse a voi l’empia mia sorte.
Ah, devea pure occidermi il dolore,
Pria ch’apportassi a voi sì acerba doglia!
Chi fia così d’umanitade fuore,
Che di sì fiero caso non si doglia?
Ieri la vostra Giulia, il vostro core,
Dal padre suo con ostinata voglia
Fu sotto crudelissimo destino
Fuor di Verona condotta al giardino,
Per darle il non legittimo marito,
Come credo ch’ a voi sia manifesto.
Or quivi in piacer vani il dì fornito,
Staman, poi che fu ognun dal sonno desto,
Nel letto si trovò, con infinito
Dolor di tutti (oh caso empio e funesto!)
Trovossi morta, senza pur sapersi
Di che accidente fu, Giulia giacersi.
Tutti i rimedi possibili ai venti
Gittati furo; e la vid’io, la vidi
Alla città fra lagrimose genti
Condor seguita da angosciosi gridi:
Onde a nuove portarvi sì dolenti
Disperato staman correr provvidi;
Che, devendo il bel corpo esser sepulto
Stasera, volli a voi non fosse occulto.”
Del giovin non usci l’alma del petto,
Che trovò dal dolor chiusa l’uscita:
Pur, dopo breve spazio, in sé ristretto,
Quanto più il debol cor gli porge aita,
In sì mortal necessità costretto
Da interna passione aspra infinita,
Volge tra sé più morti, e, per di pene
Più tosto uscire, alla più rea s’attiene.
E d’ oro una catena, in sì gran doglia,
Si trae dal collo, e fa ch’ in don la prenda
Pietro, c’ha più che d’or, di morir voglia;
Sì par ch’alto dolor l’alma gli offenda.
Indi ’l prega piangendo, ch’allor voglia
A Verona tornar fin che ’l sol splenda,
Ed al Tricastro dir, che ad aspettarlo
La notte stia, perch’ ir vuole a trovarlo.
Così con questo affettual pensiero
Da sé espedito il servo ubbidiente.
Divenuto a sé stesso odioso e fiero,
E al suo desiderato fine ardente,
All’albergo tornò presto e leggiero.
Quivi avea provveduto occultamente
Pria di più velenose medicine
Pel suo forse previsto acerbo fine.
Affrettavasi il dì verso la sera
Quanto il suo fier desio verso la morte:
Onde, postasi in sen quella matèra
Per cui più l’ore sue potea far corte.
Con quella velocissima maniera
Che usar si soglia in caso che più importe,
In ver la patria sol, senza dimora,
Calca l’orme di Pietro intatte ancora.
O che sicuro rendesser Mastino
De’ nostri vecchi le bontadi intere,
O che oltramodo affrettasse il cammino,
Ch’ ambedue le ragion ponno esser vere;
Basti che, spinto dal suo fier destino,
Senz’esser conosciuto, nelle altere
Porte entrò di Verona il giorno a tempo.
Anzi per lui pur troppo anco per tempo.
Quivi carco di ferro e d’istrumenti,
Che gli eran uopo al tristo tempo, armato,
Avendo omai delle terrene genti
I sensi il sonno tacito occupato,
Solo con passi dubbiosi e lenti,
Per non esser da alcun forse sturbato,
Cheto prese il cammino, ove sapea
Che Giulia sua riposo eterno avea.
Gli arrise sì colei, che fin allora
Gli era stata crudel, fortuna rea,
Che senza alcun disconcio in la terza ora
Giunse ove la sua sposa si giacea.
Or bene i lassi spiriti rincora,
Che per freddo timor l’alma perdea;
Perché ne’ casi estremi un nobil core
S’aita al fin col proprio suo furore.
Se di ardir pieno o di confusione,
Se spinto da maggior forza o da ingegno,
Non so; so ben ch’ in un momento pone
Fra sasso e sasso uno ed un altro legno;
Prende l’acciaio, e poi fa che risuone
Sopra la viva pietra, che dà segno
Che cuopre la natura il freddo e ’l foco
Con nascosta ragione in ogni loco.
Ecco che al solfo acceso il lume accende.
Che certo ’l fe’ del dubbio in che avea ’l core.
Allor, senza altro più pensar, discende
Giù nel sepolcro pien d’ alto furore.
E perché al tutto darsi morte intende,
Non potendolo uccidere il dolore,
Acciò non gli impedisca alcun quest’opra,
Tratti i legni, si chiude il marmo sopra.
FINE DEL CANTO TERZO
CANTO QUARTO
Queste fien ben lagrime triste, questi
Seranno ben gravi sospiri ardenti,
Questi versi fien ben languidi e mesti,
Seran ben questi dolorosi accenti.
Deh, fin che dei duo amanti io manifesti
La morte miserabile alle genti,
Muse, aitate sì la voce mia,
Ch’interrotta dal pianto ella non sia.
Poi che si vide alla sua donna a canto
Vivo il misero sposo esser sepolto,
Ah con che languidi occhi, oimè con quanto
Tremor rimira il suo leggiadro volto!
E, nel mirarla, il cuor di dolor tanto
Sente assalir, così il vigor gli è tolto,
Che, “Oimè!” Gridando, pallido e smarrito
Sopra ‘l petto le cadde tramortito.
O felice Romeo, se, terminando
Allor la vita, fine al mal suo dava!
Ora il fuggito spirto in lui tornando,
La sposa abbraccia, e lei col pianto lava.
Le dà gli ultimi baci, e rimembrando
I primi, ah quanto duol l’alma gli aggrava!
E in mezzo ai baci e al pianto l’infelice
Queste in languido suon parole dice:
“O dolce compagna, mentre ’l ciel volse,
Deh, chi sì tosto ha te di vita priva?
Ah, chi sì crudelmente mi ti tolse.
O fida sposa, a cui più l’esser viva
Senza il tuo sposo, che la morte dolse;
Poi che me della vita il duol non priva,
Né viver senza te posso, né voglio,
Ecco che con mie mani me ne spoglio.”
Tai detti usciti a lui di mezzo il core,
Le braccia a lei dal collo ambe disgiugne,
E colmo di rabbioso alto furore,
Ch’ ad occidersi tosto il sprona e pugne,
Trae di seno il mortifero liquore;
Poi senza indugio (ah misero chi giugne
A sì rio passo!) tutto l’inghiottisce,
Né di morte il terror già lo smarrisce.
Anzi, com’egli del suo bene acquisto
Fatto abbia, o allor per racquistarlo sia,
Tornar lieto al meschino il viso tristo
Si vede, qual fu già al buon tempo pria;
E baciando il bel volto a quella, e ’l misto
Sen di neve e di rose, tuttavia
Prega umilmente le virtù supreme
Che l’alme e i corpi lor stian sempre insieme.
La virtù acuta del liquor mortale
Le interiora a roder cominciava,
E l’anima da Dio fatta immortale’
Lieta a partir dal corpo s’affrettava.
Avea accoccato già l’ultimo strale
Morte in su l’arco, e per ferir si stava;
Quando, del sugo già digesto spente
Tutte le forze, Giulia si risente.
Pian pian si desta, ode lamento, e lume
Vede, né ancor ove si sia comprende.
Trovarsi sopra un uom oltre il costume,
Fa che a raccor più i sensi sparsi intende.
Cosa alla vista par, ch’altro prosume
La mente, il senso e la ragione intende.
Ma, perché sempre al mal volgiamo il core,
Pensa ch’ivi sia alcun suo disonore.
Onde, dopo alti raddoppiati stridi,
Pensando dal Tricastro esser tradita:
A cui, disse, ’l tuo onor, Romeo, confidi?
Chi in tal periglio or la tua Giulia aita?
Sentì il misero amante i mesti gridi;
Fu da lui nominar la sposa udita:
Ond’egli l’alma, che la fral sua scorza
Quasi lasciata avea, ritenne a forza.
Resta sì di stupor, sì d’orror pieno,
Vivendo lei, cui morta avea creduto,
Ch’ogni crin se gli drizza, e gli vien meno
La voce allor ch’ usarla avria voluto.
Ma in sé tornato, pensa che ’l veleno
Non sia stato mortal, ch’ella ha bevuto,
E che però non l’ha di vita priva,
Benché fatta parer l’abbia non viva.
Onde a lei, che da sé gridando intanto
Lui rispignea con minaccioso volto,
Disse: “Deh, vita mia, lasciate il pianto,
Sono il vostro Romeo con voi sepolto;
Che, poi ch’esser voi morta ho udito, a canto
A voi morir anch’io mi son risolto;
E però prima non mi sono ucciso,
Per morir vostro, e non da voi diviso.
Ma non vi avendo estinta quella morte
Che, per servarmi fè, darvi tentaste;
Deh fuss’ io almeno a trarvi di qui forte,
O in più sicuro loco vi trovaste;
Che avria ’l mio fine assai felice sorte,
Sperar potendo che viva restaste.
Ma, oimè! Che non ne uscendo per voi stessa,
Ho tema non d’orror qui siate oppressa.
Deh dunque per salvarvi ogni opra fate;
Forse fortuna in favor vostro fia.
Deh vivete, potendo; e Dio pregate,
Che se disgiunti n’ha la sorte ria
Qua giù, ci unisca in ciel la sua pietate.
Così la rara fè vostra e la mia,
Ch’ esser d’eterno esempio in terra debbe,
Là su quel premio avrà che qui non ebbe.
E già predir, morendo, all’alma sento,
Ch’esser dal nostro malsortito amore
Dee tra i nostri parenti ogni odio spento.
Or tempri questo annunzio il gran dolore,
Che per la morte mia vi dà tormento.”
Così dicea; quando ella, di stupore
Piena e di duol, riconoscendo il fido
Sposo, gli tronca il dir con alto grido.
“Ahi,” grida, “ahi lassa me! vivrò dunqu’io,
Morendo voi che la mia vita sete?
Morrete voi pel finto morir mio,
E che io non debba uccidermi credete
Pel vostro morir vero? Oh fato rio!
Oimè! voi dunque inteso non avete
L’ordin che fra ’l Tricastro e me si pose?
Dunque egli, ah frate iniquo! a voi l’ascose?”
Ei risponder vorria, ma gli son tolte
Già dal morir le forze e le parole;
Cade il debil suo corpo, e due e tre volte
Ricade, mentre rilevar si vuole.
Ella, l’egre di lui membra raccolte
Nelle sue braccia, invan si lagna e duole,
E coi crin d’or rasciuga il freddo umore,
Che col spirto dal viso gli esce fuore.
Spirava l’alma il misero; ella al seno
Se lo strignea per dargli aita, e insieme
Lasciando allo angoscioso pianto il freno,
Con le labbra cogliea le parti estreme;
Quando mosso a pietà nel ciel sereno
Il grande Iddio, cui fin sì acerbo preme,
Mandò un de’ suoi fidi messi in terra
A scioglier l’alma da sì ingiusta guerra.
II Tricastro ansioso intanto, invano
Romeo oltra ’l dever avea aspettato,
Perché dal maluscito di sua mano
Avviso e l’uno e l’altro fu ingannato.
Ma, acciocché poscia in accidente strano
Giulia non entri in periglioso stato,
Solo se n’ uscì fuor del monastero,
E all’arca se n’andò cheto e leggero:
La qual d’un basso lamentarsi piena
Sentendo prima, e di gridi alti poi,
Biasma in sé stesso con pietosa pena
Il tardar tanto ed i rispetti suoi.
Poscia alzando il coperchio: “Omai raffrena.”
Disse, “il pianto, e pon fine ai dolor tuoi;
Ecco, Giulia, il fedel tuo frate, e or ora
Avrai, eh’ è presso, il tuo consorte ancora.”
E mentre da improvvisa maraviglia
Oppresso gira gli occhi al picciol lume
Si volge a lui la spirital sua figlia
Impetuosa con orribil lume:
“Oh infelice colui, che si consiglia
Con chi del saper suo troppo prosume!”
“Ah,” disse, “or gloriar ben vi potrete
Dell’alta impresa, ch’eseguita avete!”
“È questa la pietà, l’aita, è questa
Manto, ove i’ mi devea lieta e felice
Goder il mio signore? Oh manifesta
Estrema crudeltà! Giulia infelice!
Che altro che morir omai ti resta,
Se con Romeo non più viver ti lice?
Ecco il meschino, ecco Romeo qui meco;
Voi l’uccideste, e la sua Giulia seco.”
E rivolti negli occhi al suo signore
Delle sue luci lagrimose i rai:
“Alma mia,” gli dicea, “tu dunque fuore
Del sen della tua Giulia sola andrai?”
Poscia tremando, né potendo il core
Capir la schiera de’ suoi tanti guai,
Soffogata dal duol, con viso smorto,
Cadde in sul petto tramortita al morto.
Ah qual divenne il frate! Ah quanto, prende
Stupor di cosa a lui si orrenda e nova!
Alta del caso fier doglia l’offende,
Tremar fallo il periglio in ch’ei si trova
Come viva calcina s’apre e fende,
S’avvien che innondi lei subita piova;
Cosi par che con impeto il dolore
Apra e fenda al meschin nel petto il core.
Stupido, sbigottito adunque, giunto
Quasi al morir, gran pezzo immobil fue;
Poi, da paura impressa al cuor, compunto
Che si scoprisser l’occulte opre sue,
Dispon quivi lasciar quel ch’ è defunto,
E vivo trarne fuor l’un di lor due;
Onde, slacciata a Giulia con ardita
Mano la gonna, all’alma sua diè aita.
Ridotta in sé medesma, quanto il duolo
Volle però della concetta morte,
Benché assalita da infinito stuolo
Dei nati omei, delle speranze corte;
Appena sollevatala dal suolo,
E sciolta dallo estinto suo consorte,
Mosse (qual negli estremi usar si suole)
In van debil soccorso di parole:
“Figlia mia”, cominciò, “figlia, per cui
Di viver sol la vita mia s’ addoglia;
Deh, perché in questa tomba appresso a vui
Omai morto non m’ha l’aspra mia doglia?
Dunqu’io sola cagion, misero! Fui,
Benché (’l sa ’l grande Iddio) contra mia voglia,
Che ’l mio amato Romeo sia giunto a morte,
E forse io teco più spietata sorte?
Ma se’l valor, ch’in te fu sempre, or hai,
Se vaga sei dei soliti onor tuoi;
Salvar la fama almen disponti omai,
Se pur la vita conservar non vuoi.
Pensa, quando siam qui colti coi rai
Del novo sol, che si dirà dipoi?
Debito è ognor di generoso core
Prezzar, se non la vita, almen l’onore.
Deh, allo uscir fuor di questa tomba oscura,
Per onor d’ambidue, non esser schiva.
Non è cosa però sì a creder dura,
Che sii stata in error sepolta viva.
Fia del morto Romeo sol mia la cura;
Tutto farò perché tu, figlia, viva.
E qual si può viltà maggior udire;
Che malgrado del ciel voler morire?
Deh non voler, perdendo il corpo, in preda
A Lucifero dar la immortal’ alma.
Alla più degna parte il senso ceda;
Qui sta d’ogni opra tua la vera palma.
Spera che a te d’aiuto Iddio provveda,
Per sostener del tuo dolor la salma:
Vivi, a lui dedicando gli anni tuoi,
Fin ch’ei ti chiami fra gli eletti suoi.”
Con queste ed altre in van parole tenta
Persuaderla il frate a restar viva:
Risposta indarno attende, e si spaventa
Veggendo lei sì di conforto schiva.
A lui con faccia orribil s’appresenta
Del suo fallir la pena. Ella, ch’ è priva
Di speme, furibonda tuttavia,
Pur cerca al suo morir trovar la via.
Concetto dentro delle furie il foco,
Giulia colma di duol, di rabbia accesa;
Di morir ferma, con languido e fioco
Gemer s’accinge a così orrenda impresa.
Volge i sanguigni lumi a sceglier loco
Ove la morte non le sia contesa;
E seno a sen congiunto, e faccia a faccia
Col morto sposo suo, stretto l’abbraccia.
Mentre accoppiar i baci ultimi finge.
Ed al frate tuttor le spalle volta,
Il suo Romeo con la sinistra cinge,
E tutta in sé tien l’anima raccolta;
Con l’altra man chiude le labbra, e stringe
Le nari sì, ch’indi allo spirto tolta
La via di star per troppo spirto in vita,
Scoppia; e dà insieme al duol fine e alla vita.
FINE DEL CANTO QUARTO ED ULTIMO.