Shakespeare’s Narrative Sources: Italian Novellas and Their European Dissemination

La Hadriana – Modernised

LA ADRIANA

TRAGEDIA NOVA

Di Luigi Groto Cieco d’Adria

 

In Vinegia, Appresso Domenico Farri

MDLXXVIII

 

Luigi Groto Cieco d’Adria all’illustrissimo San Paolo Tiepolo riformator dello Studio di Padova, e Procurator di San Marco

 

Il più savio consiglio che possa cader nel petto d’un padre è il non tenersi lungo spazio in casa le figliuole giovani, ma subito che son mature alle nozze, sgravarsene, e collocarle il meglio che può. Questo avviso avendo io dagli altrui essempii apparato e apunto da questa tragedia stessa, l’ho osservato in questa tragedia medesima. E battendo risoluto di collocarla, ho proposto meco di offerirla a Vostra Signoria lllustrissima per tre cagioni: per merito suo, per beneficio dell’opera, e per interesso mio. Il merito suo è tanto, che merita dominio sovra le fanciulle reali, come è questa. Merito che quando il mio intelletto era gravido di questa fanciulla, pria che la partorisse, disegnasse donargliela. E meriterebbe che se le muse proprie, se Apollo medesimo proponesser di scrivere, le donasser gli scritti loro. Il beneficio dell’opera sarà tale che ella ne diverrà più pregiata, più dolce, più sicura, più alta, e al fine immortale. Le mani di Vostra Signoria tengono della virtù di Mida. La sua bocca serba in parte la qualità delle pecchie. Onde quest’opera di piombo e d’assenzio ricevuta dalle sue mani, proferita dalla sua bocca, diventerà d’oro e di mèle. La Natura, poi che ha prodotto i frutti sugli alberi, intendendo l’acerbità loro, gli spiega al sole accioché maturati da quel raggio celeste piacciano al gusto. Io, la natura imitando, volgo questo mio frutto acerbo al sole della vostra virtù. Colui che non vuole udire il gracchiar notturno delle rane in un lago, vi fa comparir la notte nel mezo un lume. Io, per acquetar qualunque mormoratore pensasse biasimar questa mia fatica, li pongo avanti gli occhi lo splendore del vostro nome. Le cerve cacciate, non potendo in altra guisa involarsi ai denti de’ cani, rifuggono all’uomo. Questa mia figlia, quasi tenera cerva, per ischifare i morsi de’ maligni laceratori degli altrui scritti, in mansueto gesto accomanda sé stessa alla virtuosa umanità di Vostra Signoria Clarissima. Le rondini, per campare i figli da tutti gli altri animali, eleggono nelle nostre case le più alte travi, a cui sospendono i nidi. Io, per campar questo mio parto da qualunque fiera il pensasse offendere, lo appendo al vostro altissimo nome. Il prencipe di Scozia, poi che ebbe ornato quel pino dell’armi da lui raccolte, stimò d’assicurarlo maravigliosamente col titolo che diceva Armatura d’Orlando Paladino. E a me parrà d’avere assicurato quell’opera col nome di Vostra Signoria Eccellentissima in fronte. Metabo, re de' Volschi, per liberar la pargoletta figliuola da ogni pericolo, la dedicò alla sorella del Sole. Io, che non men amo la mia Adriana, che quel re sì amasse la sua Camilla, con accorto consiglio la dedico a Vostra Signoria Clarissima. Le statue d’ariento, o di cera, mentre prattican nelle botteghe degli artefici lor genitori, son mosse e maneggiate da tutti, ma poi che l’altrui voto le appende a qualche religiosa altezza, niuno le move più. Cotal privilegio attendo io da questa dedicatura a questo mio parto. Tanto fu il saper di Pitagora che niuno ripugnava al parere approvato da lui per vero. Tanta fu l’autorità del favoloso Giove presso i Gentili che niuno contradiceva a cosa commandata da lui per buona. Cotal ventura sentirà la mia opera col testimonio onorato di Vostra Signoria Illustrissima, piena d’autorità e di sapere. La Natura, quanto più profonda il piè dell’albero verso il centro, tanto più leva la sua chioma poi verso il cielo. E io, quanto più conosco il mio parto umile nello stile, tanto più cerco renderlo alto nella dedicatura. Prometeo, poi che ebbe formato quella sua effigie di terra, bramoso di darle vita, la appressò al sole. Opi, quando ebbe partorito Giove, accioché non fosse divorato dal tempo, figurato in Saturno, il diede in guardia ai Cureti. Giove, poi che fu nato Ercole, per farlo immortale lo appese al petto della lattante Giunone. E io, vago di procacciar vita, e una vita trionfatrice del tempo ed emula della immortalità, a questa mia figlia la appresso, la dò in guardia, e la appendo a Vostra Signoria Eccellentissima. Siché, se questa mia Adriana cederà alla mia Dalida sua sorella nella primogenitura, ad Altea nell’antichità della istoria, a Canace nell’eccellenza dell’autore, a Cleopatra nella illustrezza delle persone, a Gismonda nella nobiltà dello Scrittore dalle cui novelle è tradotta, ad Orbech ne’ discorsi morali, a Rosimonda nella brevità, a Sofonisba nella novità dello stile, alle figliuole di Sofocle nell’arte, a quelle di Euripide negli affetti, e a quelle di Seneca nelle sentenze, non cederà ad alcuna nella dignità della persona a cui si consacra. L’interesse mio fia sì grande che io locando in tal parte il mio parto acquisterò nome di savio, quale acquista il cocodrilo mentre conduce l’uova sì in alto che non vi giungon l’acque del Nilo. E se io sarò conosciuto sciocchissimo nel comporre, sarò almen riputato accortissimo nel dedicare. Rammentisi dunque Vostra Magnificenza Clarissima che le rose e gli usignuoli (ancorché nascano tra le più incolte spine) son però graditi da ciascun sesso e ciascuna età, e con questa mente gradisca questa mia tragedia intitolata Adriana. Parte dalla principessa introdottavi, parte dalla mia patria (percioché fabricando questi miei cittadini sontuosi palagi, né potendo la mia povertà fabricar fuor che una picciola casa, né cedendo io lor di grandezza d’animo, ho statuito rinovar tutta intera la patria mia nell’antica eccellenza in cui già fioriva), parte da più secreta cagione intesa da pochi, pur intesa da alcuno. Ma udiamo ormai la Adriana. Così fosse questa eloquente come quella per cui è allevata, e quella fosse stata pietosa e fedele come questa in cui è rinata, fosse questa bella come quella, e quella mia come questa.

 

Di Adria, il dì 2 di novembre.

MDLXXVlll.

 

 

Persone che parlano.

Adriana, infanta.

Nutrice.

Orontea.

Messo.

Coro di Gentildonne adriane.

Latino, prencipe.

Atrio, re.

Mago.

Consigliere.

Gentildonna.

Semicoro di sacerdoti.



La Scena è in Adria, l'antica.

 

PROLOGO

Se mai tragedia agli occhi vostri offerta

indi pietoso umor per forza irasse,

propizii spettatori, questa ch’oggi

viene a farvi di sé dolente mostra

5 può trar dal petto vostro e dale ciglia

un’Etna di sospiri e un Mar di pianto.

Tra per l’autor ch’a voi la ordisce e trama,

pien a ogni oscuro e tragico accidente

che chiusi avendo in nube eterna gli occhi,

10 meravigia non è s’eterna pioggia

di lacrime ne sparge e altrui le move.

E per color che ’n lei vanno introdotti

i più fedeli e più infelici amanti

che trafigesse mai lo stral d’Amore,

15 anzi d’Amor non già, ma stral di Morte.

E al fin per la città, dove s’adempie

la mestissima istoria. Poiché questa

è la vostra città d’Adria. Non quella

ch’oggi mirate, ma quell’Adria antica

20 che mandò il nome a quell’ingrato Mare

che ’n guiderdone a lei tolse la vita

allor ch’ella ridea nel più bel fiore,

e con le mura spaziose ed alte

sembrava di volersi infra le braccia

25 stringer il mondo e sostener il cielo.

Dove or contrita in trita (e ita a l’aure

in preda) poca e lacrimosa polve

(o quanto può questo girar di tempo)

piange il suo grave danno in grembo a l’acque,

30 e l’acque e ’l danno accresce a sé col pianto.

E qual fosse la sua prima grandezza

sol ponno ora insegnar le sue ruine.

Anzi già le ruine ancora sono

ruinate e perdute. E d’Adria il nome

35 su alle umili, e con umide penne,

a pena s’alza sovra le paludi

dela cittate a sé stessa sepolcro.

E dove prima le carrette altere

velocissimamente solean correre,

40 or navi incedon tarde a remi lenti.

E i lochi dove le feconde spose

degli olmi già porgeano a lor coltori

il dolce latte e le cortesi braccia

e del suo biondo crin fea Cerer copia,

45 stann’oggi armati di nodose canne.

Dove pascean le gregge, il pesce or pasce.

Dove solcò l’aratro, or solca il remo.

Questo pensier nel pensier vostro impresso

de’ movervi a pietà di questi amanti

50 che però per sé stessi anco pon farlo.

Anzi fu dolce il giogo il qual congiunse

la reina del Rodope al nipote

d’Egeo. Bench’egli assai soffra vedendo

morta colei che lui soccorse, ed ella

55 da speme sciolta e a duro laccio avvinta,

amandolo, in amandolo si muti.

Con lieto auspicio il frigio Enea s’unìo

a la sidonia vedova reina

bench’ella avesse dal crudel pietoso

60 la cagione e la spada onde s’uccise,

ed ei fuggisse il certo e ricercando

lo incerto andasse infino ai regni bui.

Giocondo fu lo indissolubil nodo

con cui Piramo e Tisbe accoppiar l’alme

65 come accoppiate avean le mura e i tetti,

e come i padri avean disgiunti i cori.

Benché come un medesmo stral d’Amore

li trafisse, così fosser trafitti

da una spada medesima ancor di morte.

70 Sotto felice sella Ero e Leandro,

malgrado di quel mar che tien l’Europa

divise e l’Asia, giunser l’alme e i corpi.

Quandunque come gli arse un foco stesso,

li sommergesse una medesim’onda.

75 Rispetto ale funeste, oscure faci

con cui si maritar gli amanti ch’oggi

vi mostrerà l’apparecchiata scena,

la cui istoria, scritta in duri marmi

(ma men duri però dela lor fede)

80 trovò l’autor, con queste note chiusa:

“A te che troverai dopo tanti anni

la scoltura di questo acerbo caso,

si commette che tu debbi disporlo

in guisa che rappresentar si possa,

85 porgendo un vivo essempio in quella etate

d’un amor fido ai giovani e ale donne.

Benché più lungo spazio ti convenga

stringer di tempo che non porta l’uso,

del che per iscusarti hai qui licenza

90 d’aggiungere una parte anzi il principio”.

Così dicea. Godete dunque omai

Adria qual la godero' i nostri padri.

E poiché sula porta del palagio,

con la nutrice sua, veggio Adriana,

95 a lei volgete l’animo e la faccia.

 

Il fine del prologo.



 

 

[1.1]

Adriana, Nutrice.

 

 

ADRIANA

Riguarda atorno ben, cara nutrice,

s’alcun vedi onde possa esser raccolto

il nostro ragionar.

NUTRICE          Siam sole affatto.

Che, come sai, col re Atrio tuo padre

5 son tutti quei che maneggiar ponn’arme

contra nemici nostri usciti in campo

oggi fuor dele porte ala giornata.

E poi con Orontea tua genitrice

tutte salite son le gentildonne

10 dela gran rocca ala più alta ampiezza,

per mirar di là su qual fin sortisca

l’aspra battaglia e a lor parenti armati

forze aggiunger co’ voti e con la vista.

ADRIANA

Vorrei depositar ne’ tuoi orecchi

15 il profondo tesor d’un mio secreto,

e che mi promettessi di guardarlo

sotto chiavi di fede e di silenzio.

NUTRICE

Come di te depositarie fide

fur queste braccia, così fìa il mio petto

20 de’ tuoi pensier. Sì ch’io lascierò trarmi

pria la lingua di bocca o il cor del seno,

che da questa o da quella il tuo secreto.

ADRIANA

Ahimè, che a palesarti quanto feci

di vergogna mi sento arder la faccia.

NUTRICE

25 Non convien, figlia, vergognarsi a dire

quel che non s’ebbe ad operar vergogna.

Ma il segno non è rio che quando luce

qualche favilla dentro al cener freddo,

v’è speme ancor di risvegliarvi il foco.

ADRIANA

30 Tu sai che varie nimicizie antiche

sparser semi di guerra tra Mezenzio,

re di Lazio, e mio padre, re di questo

nobil paese d’Adria. Onde colui

qua venne a stringer la bell’Adria nostra

35 di duro assedio e numerose schiere,

e a far prova di prenderla con l’arme.

E la preme e la oppugna or più che mai.

NUTRICE

Così nol sapess’io. Così partita

foss’io dal mondo pria che ’l re crudele

40 fosse giunto a guastar questo bel regno.

ADRIANA

Il dì ch’ei con l’essercito qua giunse,

desio mi nacque di salire al sommo

dela gran torre, ov’or mia madre ascese,

onde si scopre a molte miglia in giro,

45 per indi rimirar le squadre armate

spiegarsi e accamparsi ala campagna.

Così in mal punto senza te v’ascesi.

NUTRICE

Cader non può se non colui ch’ascende.

La saetta celeste altro non tocca

50 per lo più che materia alzata ad alto.

ADRIANA

Ahimè, che ’l tuo parlar purtroppo è vero.

Così salita, vidi. Ahimè, che vidi?

Vidi quel che ’l veder poscia mi tolse.

Così stata foss’io circa quel giorno

55 che la parte più lucida del corpo    

trae spesso, a quel ch’io veggio, in notte l’alma.

NUTRICE

Non rileva che sian cieche le luci,

ma che cieca non voglia esser la mente.

Or’ dimmi apertamente, che vedesti?

ADRIANA

60 Io vidi il primo e l’ultimo mio male.

NUTRICE

Ahimè, ch’io tremo. E che mal fu cotesto?

ADRIANA

Fu il mio male un piacer senza allegrezza,

un voler che si stringe, ancorché punga.

Un pensiner che si nutre, ancorché ancida.

65 Un affanno che ’l ciel dà per riposo.

Un ben supremo, fonte d’ogni male.

Un male estremo, d’ogni ben radice.

Una piaga mortal che mi fec’io.

Un laccio d’or dov’io stessa m’avvinsi.

70 Un velen grato ch’io bene per gli occhi.

Giunto un finire e un cominciar di vita.

Una febre che ‘l gelo e ’l caldo mesce.

Un fèl più dolce assai che mèle o manna.

Un bel foco che strugge e non risolve.

75 Un giogo insopportabile e leggiero.

Una pena felice, un dolor caro.

Una morte immortal piena di vita.

Un inferno che sembra il paradiso.

NUTRICE

Il gir per tòrte e disusate strade,

80 scopre una conscienza che non osa

apparir ne la via publica, aperta.

Tu sei innamorata a quel ch’io intendo.

ADRIANA

L’hai detto tu, non io. Né sai mentire.

Era Amor ne l’essercito e fu ’l primo

85 a dar solo l’assalto alla cittade.

Mi saettò da lungi, ancorché cieco,

e la più alta parte dela rocca

prese quel giorno a colpi di saette.

NUTRICE

Rocca guardata mal, facil si perde.

90 Ahimè, che questa novità m’ha morta.

Piaccia a Dio ch’erri la presaga mente.

Or segui, donde trasse Amor gli strali?

ADRIANA

Visto mi venne il prencipe Latino,

a l’arme conosciuto e ad altri segni

95 figlio del re Merenzio, tutto armato

dal capo in fuori.

NUTRICE       Era scoperta solo

quella parte che offender ti potea.

Ma tu, per tua sciocchezza disarmata

con armato guerrier gisti in battaglia.

ADRIANA

100 Che le schiere ordinava.

NUTRICE                E tu le tue

lasciasti al’or disordinate e sparse.

ADRIANA

Per la lunga fatica avea le guancie

accese in vive fiamme.

NUTRICE                 E tu nel petto

le ricevesti.

ADRIANA  E un bel destrier superbo

105 con gli sproni e col fren, facea far prove,

qua mai non fecer Cillaro o Pegaso.

E al cor mio freno, e sproni al mio desire,

strinse in quel punto.

NUTRICE             Ohimè come ti perdo

oh cieca diligenza de’ mortali,

110 che sotto chiavi tien chiuso l’argento,

e le figlie donzelle a freno sciolto

lascia vagar senza custode alcuno.

ADRIANA

Dapoi che lungo spazio contemplato

l’ebbi, cacciata dalla notte, scesi

115 non qual salii. Portai legato il core.

NUTRICE

Chi sé stissa legò, scioglier si puote.

ADRIANA

Colmi gli occhi portai di novo pianto.

NUTRICE

Se commiser l’error, soffran la pena.

ADRIANA

Da indi in poi, né dì, né notte alberga.

120 In queste luci breve oncia di sonno

NUTRICE

Pur che’n te la ragion troppo non dorma.

E io credea che per la patria fossi

tanto ansiosa. O come un vizio brutto

sotto vel di virtù spesso s’asconde.

ADRIANA

125 Spinta al fin dal desio, presi partito

di far palese al prencipe il cor mio,

vedendomene offrir l’occasione.

NUTRICE

Così, non ti bastò rimaner vinta

se te per vinta ancor non confessavi.

ADRIANA

130 Tu conosci il gran mago e sacerdote

della Luna, alto mastro in più scienze,

curvo dal peso del senno e degli anni,

che già venne di Persia a questo regno,

ma stette prima in Lazio alquanto tempo,

135 e ’l palagio real visita spesso.

Che talor con mia madre e talor meco

ragiona solo, e solo ha libertate

d’uscire al campo a parlar con nemici

e tornar dentro. A costui dunque apersi,

140 provocata però prima da lui,

lo qual dicea che ’n ciò stava la pace,

il mio concetto. Ed egli mi promise

di rivelarlo al principe, e lo fece.

NUTRICE

Destati, o padre, a guardia di tue figlie,

145 a non fidarti d’uom d’alcuna etade,

a non fidarti pur di te medesimo.

La paglia è sempre paglia, il foco, foco.

Il qual conviene, o che arda o almen che tinga.

Or qual ti riportò costui risposta?

ADRIANA

150 Che avea trovato il prencipe disposto

non men di me. Che quel medesmo giorno

mirandomi nel’alto del castello,

era per me caduto in fiamme pari.

NUTRICE

Vorrei che avesse anzi trovato ghiaccio.

155 Temo coteste riscontrate fiamme

non adducano incendio troppo grande.

ADRIANA

Tosto il mago col prencipe compose

che ne venisse a me nella cittade.

E oprò con un di quei ch’hanno le chiavi

160 con cui s’aprono e chiudono le porte,

che introducesse il prencipe la notte,

ma sconosciuto e in abito de’ nostri,

pur che venisse sol col brando solo,

a un’ora ferma e ’l rimandasse a l’alba.

NUTRICE

165 So che tutti al tuo mal venner concordi.

Ma purché tal concordia non produca

discordia grave. E tu vi acconsentisti?

ADRIANA

E che potev’io far, s’era conchiuso

già quando fui richiesta del mio voto?

170 Se non vivo io, ma vive in me colui

ch’io amo più di me? S’io non favello,

ma in me favella Amor qual Febo in quelli

che gli oracoli altrui rendono in Delfo?

Io fui contenta.

NUTRICE     Ben contenta fui,

175 dicesti, che or non sei forse. E se or sei,

non sarai forse lungamente.

ADRIANA                     Taci,

di grazia, e annunzii non mi far sì tristi.

Nella cittade il principe introdotto,

indi a due notti o tre

NUTRICE            So che il consiglio

180 del mal noto non va quando si cova.

ADRIANA

le porte entrò del mio giardino

NUTRICE                              Ahi lassa,

pur che più adentro ancor non s’introduca.

ADRIANA

e quivi mi trovò fra i fiori e l’erbe.

NUTRICE

E non fuggisti allor l’orribil serpe?

ADRIANA

185 Chi può fuggir il cor, la vita, e l’alma?

Cominciommi a parlar sì dolcemente,

che così non parlò mai lingua umana.

NUTRICE

Dolcissimo è il cantar delle sirene.

ADRIANA

A’ piedi mi cadeo per adorarmi.

NUTRICE

190 Come viva Pantera, o volpe cade.

ADRIANA

Tutto diede sé stesso in mio domino.

NUTRICE

Così fe’ Giove, o semplicetta Europa.

ADRIANA

Sovente sparse un copioso pianto.

NUTRICE

Rompon dai duri sassi le fontane.

ADRIANA

195 Più volte sospirò sospir di foco.

NUTRICE

Da le più fredde felci il foco è tratto.

ADRIANA

M’astrinse la sua fe’, quanto si puote.

NUTRICE

Vi diè la fe’ che dar suole un nemico.

ADRIANA

Testimonii chiamò Giove e Giunone.

NUTRICE

200 Testimonii che irar non lice in prova.

ADRIANA

Giurò quanti altri dei vivono in cielo.

NUTRICE

Chi giura assai sa che di fede è indegno.

ADRIANA

La morte s’augurò se mi tradiva.

NUTRICE

S’augurò quel che ognun di noi aspetta.

ADRIANA

205 Le man mi prese e le sposò d’anella.

NUTRICE

Ciò sposarle non fu, ma fu legarle.

ADRIANA

Ecco l’anel che mi lasciò per arra.

NUTRICE

Anzi per premio di quanto ebbe, forse.

ADRIANA

L’oro mostra un amor fino e perfetto.

NUTRICE

210 L’oro dice: “Così Danae fu vinta”.

ADRIANA

Mostra il ritondo amor che non ha fine.

NUTRICE

Così vuol dir, principio unqua non ebbe.

ADRIANA

Mostra il diamante inviolata fede.

NUTRICE

Mostra il diamante indomita durezza.

ADRIANA

215 E con le braccia al fin mi cinse il collo.

NUTRICE

Fu l’ultima catena onde t’avvinse.

ADRIANA

Poi mi baciò, come sua cara sposa.

NUTRICE

T’avvelenò, qual Lotofago o Circe.

ADRIANA

Così di me si prese ogni possesso,

220 salva la castità che ancor mi serbo.

Così continuando, a ritrovarmi

ogni sera ne viene cheto cheto.

NUTRICE

E che segno ti dà, quand’egli viene?

ADRIANA

Io discendo ogni sera all’ora usata

225 nel giardino a veder s’anco è venuto.

E chi prima vi giunge attende l’altro.

NUTRICE

Qual padre mai, qual madre, o qual marito

può promettersi figlia o sposa casta,

s’io che costei sempre accompagno e guardo

230 così da lei schernita oggi mi trovo?

Chi menavi compagna a cotest’opre?

ADRIANA

La cameriera mia, morta stamane,

caduto sopra lei l’arco di pietra

che parte sostenea de’ nostri tetti.

NUTRICE

235 Così foss’ella morta molto prima.

ADRIANA

Ora fidar non mi volendo d’altri,

a parte chiamo te del mio secreto.

NUTRICE

Non di secreto più, ma di periglio.

ADRIANA

E perché il tuo consiglio anco mi porga.

NUTRICE

240 Vano è chiamare il fisico o il chirurgo

quando l’infermo ha già spirato l’alma.

ADRIANA

Tanto ci resta ancor, cara nutrice,

che ben potrà cader sotto consulta.

Tu, che sì spesso allor ch’io pargoletta

245 stava per traboccar, man mi porgesti;

porgimi ora consiglio, ond’io non cada.

NUTRICE

Sovra il passato non si dà consiglio.

ADRIANA

Dallo su l’avenir, che  così chieggio.

NUTRICE

Persuaso voler non si consiglia.

ADRIANA

250 Nova farò forse a me stessa forza.

NUTRICE

Dico che tu commetti un grave fallo

contra Dio la cui mente è che rendiamo

ubbidienza a quei che ne dier' vita.

Contra la nobiltà del regio sangue

255 che te produsse in così chiaro lume

e da te prenderà la prima macchia.

E il peccato è maggior tanto più chiaro,

quanto è più chiaro ed è maggior chi pecca.

Contra il padre e il fratel, cui soli tocca

260 darti la dote e sceglierti lo sposo.

Contra te stessa, che su ’l gioco arrischi

l’onore, il qual perdendosi una volta,

non mai più, non più mai può ricovrarsi.

Rese Esculapio a Ippolito la vita,

265Pelope li dei, ma a donna mai

la perduta onestà non rese alcuno.

E non ti scusi amor che amore ha solo

quanto il nostro voler gli allarga impero.

Credi, figlia, che un giovane in cui more

270 l’Amor qual foco di paglia, un nemico,

ch’altro non può bramar che tua vergogna,

un prencipe ch’altrui forza non teme,

un figlio posto in potestà del padre,

poi ch’abbia spento quell’ardente sete

275 che ‘l cor gli accese a la stagion più verde,

servar debba a una femina la fede?

Mal credi, se ciò credi, e se ti fidi

ch’egli è signor. Ricordati che a punto

sembra al’ora al signor d’esser signore,

280 quando può la sua fe’ dare e ritorsi.

Promessa fatta a forza non ha forza.

Egli quasi prigion’ nela tua terra,

anzi prigion dela bellezza tua,

non per molto osservar, molto proferse.

285 Ma per molto impetrar, molto promise.

E pur che seco goda il suo diletto,

né si diletti palesarlo al mondo.

E quando la promessa non ti attenga,

con chi osa sarai farne querela?

290 Cui chiederai soccorso o almen vendetta?

La tua nutrice potrà pianger teco,

il mago consolarti, e il portinaio

andarti publicando per infame,

ch’esser non può che anch’ei non sappia il tutto.

295 Ma se dai segni uscendo ti lasciasse

non pur macchiata, ma col ventre grave?

Ricordati, Adriana, d’Adrianna,

che col nome non segua anco la sorte.

La qual, poiché tradito ebbe il fratello,

300 tradita fu per premio dallo sposo.

Poi che tratto ebbe lui del labirinto,

fu da lui posta in un maggior, senza altra

speranza di poterne uscir giamai.

Ella concesse a Teseo fama e vita.

305 Teseo la fama a lei tolse, e per lui

non istette a torle anco la vita.

Rammentati, Adriana, di Medea,

la qual, poiché alo ingrato, infido Greco

del’aurea spoglia e dela spoglia opima

310 dela sua castità fe’ doppio dono,

e di sé viva e del germano morto,

sprezzata al fine e spinta su dal letto

che comprato s’avea cotanto caro.

Adriana, rimembriti di Scilla,

315 che, poiché al re di Creta offerta fece

dela purpurea chioma e dela vita

del nocchio padre, al fin da lui respinta

e mutata in augel, soffre la pena

dela grave da lei commessa colpa.

320 A noi col volo è nunzia di sereno

e a te sia con lo essempio consigliera.

Sovvengati di Issipile, Adriana,

che né con la beltà, né col piacere,

né con lo scettro, né col ventre grave

325 tener valse appo sé l’amante infido.

E se né per ragion, né per essempi

ti movi, che pur mover ti devresti,

movati almen l’autorità di questa

vecchia, che travagliato ha tante volte

330 per tuo riposo, e sì spesso ha vegghiato

per lo tuo sonno. Or fingi che Latino

t’ami e sia quel fedel ch’ambe vorremo.

Che sarà poi? Che né il suo padre a lui,

né’l tuo a te lodar vorrà giamai

335 coteste lor malgrado occorse nozze?

Veggio quel che vuoi dir, vuoi dir che spesso

il maritaggio è padre della pace.

Più spesso, forse, è padre della guerra.

Lo sdegno ha messo troppo alte radici.

340 Or con le spade in man ferman gli accordi,

scrivendo ai corpi lor col sangue i patti.

Invece dela tibia maritale

suonan le trombe. In cambio d’Imeneo

s’invoca Marte. In luoco di ghirlande

345 si portan elmi, e per facelle, spade.

In questo assalto al fìn convien che i nostri

o perdano o rimangan vincitori.

Se vincitori fian, n’andrà Latino

cacciato quinci a gran fretta lontano,

350 per più non riveder queste contrade.

Se perderan, Merenzio fìa signore,

e allora non vorrà che ‘l figlio sposi

colei che avrà per prigionera e schiava.

Ma fingiamo che ‘l padre di Latino

355 a cotal parentado ancor discenda,

che farà il tuo sì offeso e disdegnato,

e a ragion con Merenzio, e con Latino,

e teco più, se ciò mai si sapesse?

Chi farà ardito mai fargliene motto?

360 Tu no. Che se ‘l rossor non ti accendesse,

di marmo avresti e non di carne il viso.

Io no, che inghiottirei prima la morte,

che mai mandassi fuor questa parola.

Altri no, per rispetto, che a tuo padre

365 e per odio che poi porta a’ Latini.

Or facciamo che sian tutti concordi.

Non pensi tu che sempre il tuo Latino

avrà di te sospetto, avendo in mente

quanto con lui oprasti? Onde non nuoce

370 mai alla donna star dentro a' suoi segni.

Ma per recarti più vicini effetti,

quanti in periglio trai, cieca, non vedi.

Metti prima in periglio te medesma.

O ch’il tuo amante ti disnori e lasci,

375 o che il padre o il fratel ti trovi e ancida.

Così perda la fama e in un la vita.

Metti in periglio anco il tuo amante, ch’egli

trovato qui da’ tuoi, la notte solo,

ti sia su gli occhi orribilmente ucciso.

380 Metti in periglio or la nutrice tua.

Benché se per nutrirti io diedi il latte,

madre, la patria, e 'l regno. Che Latino

trovando a suo piacer le porte aperte

dela cittate e del giardino adduca

385 seco gente con armi e contra il patto

sforzi le entrate, e la città soggioghi,

mandando allora il tutto a sacco e a sangue.

Mira quanti perigli e quanti danni

tu sola porti, e ancor non v’apri gli occhi.

390 Però déi alla piaga, mentre è fresca,

proveder con rimedii apparecchiati,

pria che forza maggior prenda col tempo.

Lasciando al tutto il mal concetto amore,

tenendo te nele tue regie stanze,

395 e lasciando Latin nele sue tende.

ADRIANA

O sventurata me, che dunque faccio

quinci frenata da’ consigli tuoi,

quindi spronata dal crudel tiranno

ch’è amaro ed è da noi chiamato amore?

400 Perderò dunque la vita, e la fama?

Lascerò dunque il mio amator più caro

a me che l’onor mio, che la mia vita?

Per cui solo son’io cara a me stessa?

Trarrò l’amante mio dunque in periglio?

405 Lascierommi morir priva di lui?

Porrò la mia nutrice in questa nave?

Porrò, per salvar lei, me sola in mare?

Tradisco il padre mio, donde ebbi il sangue?

Lascio il mio sposo, da cui spero il seme?

410 Darò la morte a chi mi dié la vita?

Torrò me dunque a chi mi da sé stesso?

Sprezzo chi meco ebbe commune il ventre?

Lascio chi meco avrà commune il letto?

Sprezzo colei, da le cui viscere esco?

415 Lascio colui, nel cui cor vivo impressa?

Tradirò il mio paese, dove nacqui?

Lascierò il mio signor, nel cui cor vivo?

Ahimè, che questi esserciti fan guerra

minor d’intorno a queste belle mura,

420 che al cor mio intorno i mei varii penseri.

Ma io, per dirti il ver, cara nutrice,

non volea che così mi consigliassi.

Ben consigliata esser volea del modo

che può darmi ottenuto il mio desire.

NUTRICE

425 Il consiglio che punge il voler nostro

ne par malvagio, e quel che l’unge, buono.

Ma ciò toccava dal principio al mago.

ADRIANA

Insieme abbiam così composto, ascolta:

egli mostrando che Latino colpa

430 non abbia in questa guerra e predicando

le sue virtuti e i suoi regii costumi,

da indi innanzi si è ingegnato sempre

porlo in grazia a mia madre e l’ha impetrato.

Ella già l’ama e i suoi be’ modi ammira.

435 Fermato abbiam, quando ne paia tempo

a queste nozze, usar l’opra di lei.

Promette il mago ancor levar Merenzio

(non so già con qual arte di eloquenza)

oggi dal fatto d’arme, anzi, che’n tutto

440 non sia battaglia più tra questi regni.

Far che Merenzio vada e che Latino

acciocché sappia ogn’or quanto qui segue,

o conosciuto o sconosciuto resti,

o in Adria, o fuor (ma ben poco lontano).

445 O sotto specie di trattar la pace,

o di fornire altro negozio finto,

finché si posson maturar le nozze.

NUTRICE

Quel che quando successo ancor non fosse

degno di biasmo e di disturbo fòra,

450 quando è successo poi, convien lodarlo,

però (poiché tant’oltre andata sei)

m’avrai seconda, ove m’avresti avversa,

se ‘l ritrarti o’l turbarti avesse loco,

ma riponiam queste parole in serbo.

455 Ecco tua madre, e più donne con lei.





[1.2]

Orontea, Adriana, Nutrice.

 

 

ORONTEA

Figlia, non sospirar, non han possesso

sospiri di timor ne’ petti alteri,

come i venti non l’han ne’ monti eccelsi.

Spero, mercè del ciel, che i nostri (a cui

5 pone arme giuste giusta causa in mano)

fian vincitori, e gli avversarii vinti.

ADRIANA

Quel che sperar dic’ella, io temer chiamo.

ORONTEA

E i capitani loro il figlio, e ’l padre

in rotta, in fuga, e forse a morte andranno.

ADRIANA

10 Dove crede assaldar, punge la piaga.

ORONTEA

E quei che ad occupar la terra nostra

venner, l’occuperan coi corpi morti,

o via fuggendo e nel lor Lazio ascosi,

raddoppieranno al lor paese il nome.

ADRIANA

15 Oh dela fuga lor foss’io compagna.

ORONTEA

Pur quando il punto incerto dela guerra

cada contrario ale speranze nostre,

e del resto facciam, la mano audace

col ministerio del benigno ferro

20 ne scioglierà di servitù e di vita.

ADRIANA

Voi volete prestar conforto altrui,

madre, e n’avete più d’altri bisogno.

Come quegli assediati, che lanciaro’

fuor dele mura al campo de’ nimici

25 il pane ed essi ne rimaser senza.

Scorgo ben’io le luci, scorgo il volto

scolpirsi fuor di simulata speme

dentro vero dolor premere il petto.

ORONTEA

E qual madre fu mai barbara, a cui,

30 sentendosi in battaglia i suoi più cari,

il carissimo sposo e ’l dolce figlio

a cui si teme in lieta pace ancora,

non tremasse nel sen pauroso il core?

ADRIANA

A me duo cori aver fòra bisogno.

35 Poiché per ambedue le parti io temo.

Né so qual brami, o vincitrice o vinta.

Né se mi voglio vedova o pupilla.

ORONTEA

Favella almen, sì ch’io t’intenda, e possa

Confortarti, figliuola.

ADRIANA                Il male altrui

40 mal sana infermo delo stesso male.

NUTRICE

Come vi par che segua il fatto d’arme,

se pur il fatto d’arme è andato innanzi,

reina? E qual successo omai possiamo

questo giorno sperar dela giornata?

ORONTEA

45 Segno ancor non si scorge onde si possa

ritrar certo timore o certa speme.

Il sa solo colui che sempre il seppe,

nele cui man la vita e la salute

nostra e del nostro stato io raccomando.

50 Deh, Signor degli essercitii e de’ regni,

fa’ che i Latini, i quai nelle lor forze

fidati a’ danni son del regno nostro,

sian dalle forze tue cacciati e vinti.

Fa’ che ‘l sangue ch’or piove in sulla terra

55 per noi oggi produca oliva o palma.

Fa’ che queste mie man che disarmate

e al ciel devote io levo a te pregando

oprino più che tante armate mani

degli avversarii nostri combattendo.

60 Tu, che formasti in noi gli orecchi e gl’occhi,

odi e vedi quel danno che n’afflige.

NUTRICE

Perché scendeste dalla rocca pria

che si scoprisse il fin dela battaglia?

ORONTEA

Vinti da gran pietà questi occhi mei

65 rifuggiro’ il mirar sì duro aspetto.

NUTRICE

Fin dove di mirar vi diede il core?

ORONTEA

Fin che appiccato il fatto d’arme vidi

d’appresso sì che più non potea sciorsi.

NUTRICE

Deh narratelo a noi reina, ancora,

70 e gli occhi nostri sia la vostra lingua.

ADRIANA

Dite, madre, vi prego, che ben dirlo

saprete voi che tanta esperienza

del mondo avete, stata or tra le mura,

or nel mare, or ne’ campi, or ne le selve,

75 come vi andò rotando la fortuna.

ORONTEA

Dapoi c’oggi spirar di qua dal mezo-

dì l’oziose ferie della guerra,

e al’ora destinata alla battaglia

prefissa già tra l’uno e l’altro duce,

80 Marte la porta sanguinosa aperse

e poi che ‘l mago (quanto a me ne parve)

fece opra con Merenzio di ritrarlo,

e da lui riportò dura ripulsa

tosto tocchi tamburi ai campi intorno

85 con fretta tanta, tal ribombo, e orrore

chiamarono i pedoni, e argute trombe

con tal tenor lontan, tanta rattezza

getta sella sonar, tutti a cavallo,

a cavallo in un chiaro audace suono

90 che al gran romor fremean l’aria e la terra.

E corni vivi per l’umano spirto

pur con egual virtù, tumulto eguale

faceano udirsi altrui con chiuso tuono,

cominciar' da ogni parte a uscir le genti

95 trarsi appresso i cavalli e vestir l’armi

con espedita, infaticabil opra.

Come allor quando in aria si concipe

o del Borea, o dell’Austro un grave spirto,

che prima usan confondersi le selve

100 e con socchiuso orror, mormorio muto,

fischian le foglie e fremono le fronde.

Finché prende poi corso e forza il vento,

e l’animoso fiato apre e allarga,

così le nostre e le avversarie schiere

105 faceano, mescolandosi in sé stesse,

e ponendosi in punto alla giornata.

E noi ascese in cima all’alta torre

sotto gli occhi avevamo ambe le squadre.

Le nostre, chiuse dentro la cittade,

110 e le contrarie, fuor distese al campo.

Cui rimembra d’aver veduto mai

di qua e di là su l’una e l’altra riva

d’un fiume reso torbido e superbo

da strutte nevi e da dirotte pioggie,

115 che mezo colmo ponga agli occhi muro,

e stia per traboccar fuor dele sponde,

e dilagarsi o al’una o al’altra mano,

le ville intere starsi non volendo,

che dal canto lor rompa il commun male?

120 Imagini costui che tale a noi

s’appresentava a una rivolta d’occhi

lo spettacol de’ nostri e de’ nemici.

Tutti si cinser di ferrigna scorza

che percorsa dal sol gittava un lume,

125 che da lungi abbagliava altrui la vista.

Qual sule prime faci dela sera

la funesta cometa apparir suole

e traendosi dietro un lungo crine

tinto di sangue e sfavillando foco

130 scote gli scettri e turba lo corone.

Tal ne scosse e turbò l’armata luce,

luce che rifuggir le luci nostre.

NUTRICE

Renda tal lume a noi giorno di pace.

ORONTEA

Alora l’uno e l’altro capitano,

135 montato in un corsier, va per lo campo,

e prevede, e provede ove bisogna

con gli occhi, con la lingua, e con le mani.

E rammentando quanto poco sia

quel che si è fatto in questo tempo per lo

140 adietro, torna innanzi agli altri, alora

còre aggiungendo, e per l’orme medesme,

alora agli altri innanzi, torna adietro.

Raggira il campo atorno, e torna ov’era

qual rondinella che al’amato nido,

145 depositario de’ suoi dolci pegni,

vede appressarsi il predatore, e mossa

da sollecito studio, affetto pio,

o volge intorno il mal difeso parto

or su, or giù per l’empia casa geme.

150 Non altramente il mio signore e l’altro

faceano. E, ascesi al fine in alto poggio,

agli esserciti lor raccolti intorno

fecero un parlamento militare

che udirsi non poteo però da noi.

NUTRICE

155 O rispondan gli effetti ale parole.

ORONTEA

Io mi ricordo sol che ’l mio signore

con mano, orando, ne mostrò a soldati,

i quali intenti e taciti ascoltaro’,

e poiché giunse al fin, levaro’ un grido

160 che da ogni cavo speco Eco rimise.

Gridaro’ “andiamo!” e “diamo!”, Eco soscrisse.

NUTRICE

Piaccia al ciel, bella ninfa, che risuoni

così le voci dele gioie nostre.

ORONTEA

Come talora avvien che la villana

165 adduce al tetto ceppi, pur non tolti

dala nativa madre, ancora pieni

le verdi membra d’amoroso succo,

e soffiando fa forza a farne foco,

che fuma prima un pezzo e poi che uscito

170 e digesto è l’umore in un baleno

scoppiano in chiara fiamma e ’n larga vampa.

Così le squadre udendo il mio signore

raccolsero nel petto a poco a poco

ardire e sdegno, e ’l tutto poscia a un tratto

175 essalar' fuori e fuor chiesero uscire.

NUTRICE

O fìa il numero e ‘l grido al tornar pari.

ORONTEA

Tutti n’andar sotto le insegne loro

alzate e tremolanti all’aure fresche.

Come al cader del Sol l’api tornando

180 a casa carche di sudata preda

ciascuna si ricovra al suo ricetto,

il prencipe mio figlio fu lasciato

dentro a guardia e difesa delle mura.

NUTRICE

Così non abbia che difender oggi.

ORONTEA

185 Furon tirate in ordine le schiere

sì che alcun non uscìa fuor del suo segno,

qual dotto agricoltor negli alti monti

dispon le viti in disegnato quadro

e col compasso lor prescrive il filo,

190 e ad ogni pianta parte giusto l’inter-

vallo, perché lo spazio egual comparta

della gran madre il succo al nutrimento,

la terra a le radici, e l’aria all’ombre.

NUTRICE

Tornin le schiere nostre in forma eguale

195 e l’altre sparse poi si traggan dietro.

ORONTEA

Ecco aperte le porte, ed ecco fora

l’essercito a l’essercito nemico

incontro armato d’aste, d’archi e spade.

Quando i Giganti per pigliar le stelle

200 e metter legge al ciel fatto prigione

givan ponendo sopra monte monte

e un di lor venìa di qua col Pindo

sugli omeri pien d’arbori e di selve,

e l’altro li venìa col Pelio incontro,

205 come talor dipinti io gli ho veduti,

potevano sembrar queste due fronti

d’esserciti che l’aste alte portando

venivano a incontrarsi a meza strada.

Una nube di polve alzossi al cielo

210 e ’l Sole e ’l giorno chiuse a tutti gli occhi.

Indi una notte folta di saette

ratto pendé su l’uno e l’altro campo.

La qual cessata e aperto l’aere un poco

sembraro' estrici allor tutti gli scudi.

215 L’uno da l’altro essercito lontano

era quanto va a punto una saetta.

Ma questo tratt’a un tratto via sparire

vedemmo, e affrontate già le schiere

come s’alcun duo fochi a un tempo accenda

220 l’uno a faccia dell’altro d’ambo i capi

di valle che ’l valor suo tutto spenda

in folta messe d’infeconde canne.

La sparsa fiamma arde lontana alquanto,

ma poi tutta in un punto aggiunta in uno

225 di duo, diventa in modo un foco solo,

che l’un dal’altro più non si discerne.

Così parver gli esserciti confusi.

NUTRICE

E confusero in noi timore e speme.

ORONTEA

L’aste alor rupper risolute in pezzi

230 che tanto verso il ciel volaro’ in alto

che a pena aquila arriva a tanta altezza.

E mille per contrario uomini allora

giù nel piano avresti visto cascare.

Tratte in un tratto mille spade foro’

235 che balenando in alto ferian mosse

col taglio i corpi, e con la luce gli occhi.

E facean quell’aspetto di lontano

che fanno in ciel le stelle o in aria i lampi

la siate sul principio dela notte

240 serena che rio tempo o caldo aspetti.

NUTRICE

Segua tal lampi a noi giovevol tuono.

ORONTEA

Poi che furon gli esserciti meschiati

vedeansi varie imagini di morti

e di colpi s’udiva un suono eterno,

245 e alcune mal concordi e fioche grida

di color che morian d’ambe le parti.

Ond’io più non potendo sostenere

l’orribil vista, me ne son partita.

NUTRICE

E noi per questo siam rimaste al basso.

ADRIANA

250 Madre, vedete di mio padre un messo

che affrettandosi a noi dritto ne viene?

ORONTEA

Ahi, che smarrito egli mi sembra in faccia,

non è tal faccia di letizia segno.

E su le membra par ch’io tremi tutta.

255 Deh non mi abbandonar, Signor del cielo!



 

 

[1.3]

Messo, Orontea, Adriana, Nutrice.



MESSO

Qual fìa sì crudo cor, sì ingrata lingua,

che dar possa ala nostra gran reina

nova tanto severa? E pur tu quello

déi esser, poiché ad esser ti costringe

5 l’uom che di sol costringerti ebbe forza.

Di tante grazie ch’ella m’ha impetrato

con la sua lingua fortunata e saggia,

mal tu le renderai, mia lingua, merto.

S’io doveva recar tal ambasciata,

10 perché non nacqui io muto? Se gran premio

attende quel che grate nove apporta,

qual gastigo attend’io dala reina?

ORONTEA

Non odo altro che ’l suono, e tremo a udirlo,

di chiedere e di udir temo, e desio.

MESSO

15 Ecco, che’n su la porta del palagio

la infelice m’aspetta, d’udir vaga

quel che l’ha da accorar tosto che l’oda.

Qual proemio farò? Con che principio

le comincierò a dir la sua sventura?

ORONTEA

20 Ahimè, che ’l cor di gran dolor presago

a sé richiama il sangue, e ’n sé si stringe

in vista d’uom che grave colpo aspetti.

Deh messo affretta insieme il piè e la lingua.

Qual nova mi rapporti del figliuolo

25 e dello sposo mio?

MESSO                 Vi apporto nova

qual si puote miglior, sacra reina,

che guadagnato la vittoria abbiamo.

ORONTEA

Tu che ‘l ben mi donasti, donami anco,

sommo Dio, stil con cui renderti possa

30 grazie de l’una e l’altra grazia avuta.

MESSO

Ma intero un ben non venne mai. Trovossi

sempre in mezo alle rose qualche spina.

ORONTEA

Ahimè, che tu m’ancidi. Dunque, ancora

non fornisti di dir? Che v’è di male?

MESSO

35 Udite pure.

ORONTEA E tu spaziati tosto.

Poi che aspettato stral, mentre s’aspetta,

trafige molto più che quando giunge.

MESSO

Mentre più ardeva la battaglia, apparve

fuor del bosco un incognito guerriero,

40 in candid’ arme e sconosciute insegne,

che n’andò dritto al prencipe Latino

sfidandolo a battaglia singolare.

Il prencipe accettò la giostra tale

che arrestar fece l’uno e l’altro campo

45 a riguardarla. Andò la pugna un pezzo

di qua e di là sopra bilancia pari.

Al fin Latino alzò la spada e diede

al cavalier non conosciuto un colpo

sì smisurato e crudo che gli aperse

50 lo scudo e l’elmo, e scendendo nel capo,

li fece una profonda e larga piaga.

E sceso per troncar la testa affatto

al campion dela selva già caduto,

poi che slacciato gli ebbe l’elmo e mostrò

55 a noi l’amato viso, là traendo

molta furia de’ nostri suo malgrado

li fu levato vivo delle mani.

ORONTEA

Poiché ha scoperto il viso e a voi è noto

fa’ che anch’io riconosca il cavaliero.

MESSO

60 Questo è il punto reina, questo è l’agro,

questo è l’amaro calice che a bere

io v’appresento. Il cavalier del bosco

era il prencipe nostro, il vostro figlio.

ORONTEA

Ahimè, che dici?

MESSO          Quel che dir mi spiace,

65 come prima mi spiacque anco vederlo.

ORONTEA

Non rimas’egli a guardia delle mura?

MESSO

Rimase. Ma sentendo uscito il padre

né potendo temprar l’ardente spirto

e ’l desio giovenil di far battaglia,

70 commesse a un altro il loco suo. E vestito

d’armi mentite e peregrine insegne

per una porta adultera uscì fuori.

E preso e fatto un lungo e vario giro

per boschi, riuscì dove sì male

75 riuscir li dovea l’assunta impresa.

ORONTEA

Dunque, ahi lassa, colui che tu mi narri

sì maltrattato è il mio figliuolo?

MESSO                               È desso.

ORONTEA

Ah empio ferro, onde imparasti l’arte

di far duo colpi a un tempo: il capo al figlio

80 ferire e ’l cor traffigere ala madre?

Dunque ne la commun vittoria e gioia,

io sola piangerò, ridendo gli altri?

MESSO

Pur troppi avete nel dolor compagni,

e la vittoria sanguinosa costa

85 pur troppo caro prezzo ed è dolente

forse non meno al vincitor ch’al vinto.

ADRIANA

Oh speranze di vetro! Oh fratel mio!

ORONTEA

Ah spietato omicida! Ah reo Latino!

Piaccia al ciel che tua madre, s’hai pur madre,

90 senta quel che sent’io materno affanno.

ADRIANA

Ciel, non udir questi dannosi preghi

ma fa’ che ’l dolor nostro in gioia torni.

NUTRICE

Ecco, Adriana mia, quanta ragione

ebbe colei che ti lattò fanciulla

95 di non voler lattar le tue speranze.

ORONTEA

Oh occhi di diamante, dunque sète

aridi sì che non versate tante

lagrime per lavar l’acerba piaga

quanto versa dal capo il figlio sangue?

ADRIANA

100 Stata foss’io nel mezo tra la spada

del feritore e ’l capo del ferito,

facendoli del mio pietoso scudo.

Oh per cotal cagion morir felice!

ORONTEA

Ma segui e dimmi omai, cortese messo,

105 in quale stato e ’n qual loco ei si trova,

e quale speme abbiam dela sua piaga.

MESSO

Vedendo i nostri il lor principe carco

di sangue, si infiammaro’ ala battaglia.

Come leone il qual quando si vede

110 insanguinato, allor ruggendo fèro,

rodesi e corre incontro al ferro ardito,

e divenuto più crudel si sforza

di vendicar la sua con l’altrui morte.

Presero tanta audacia e tanto sdegno

115 che poser tosto in rotta

i miseri Latini

troncando lor le forze,

e li cacciaro’ in modo

che tutti universalmente fuggirono

120 sbandati, scompigliati e fracassati.

ADRIANA

Vittoria rea, che ’l vincitor fai mesto.

MESSO

Al governo io restai di vostro figlio,

che intendendo la strage de’ nemici

e la salute sua già disperata

125 da fisici e chirurgi che avea intorno,

levando al cielo e a Dio gli occhi e le mani,

in mestissimo suon grazie li rese

e disse allo Signor: “Poiché ti piacque,

che Latino e la Parca a un tempo il ferro

130 alzassero a troncar questa mia vita,

grazie ti rendo. Che quantunque i’ muoia,

veggio del mio morir però vendetta.

Indi ti prego che gli anni dovuti

al corso natural che perderò

135 io, a quei del padre e della madre restino

aggiunti, che non men mi fìan vitali:

tu, padre mio, perdonami l’errore

che feci giovanilmente poi ch’io

e conosco, e confesso, e provo, come

140 l’uscir dele tue leggi, e dele mura,

mi fece parimente uscir di vita.

Prestami un’altra grazia, sepelisci

il cadavero mio fuor dele mura,

dov’apunto la giostra si commise.

145 Perch’io, che vivo dentro, non le volsi

guardar, le guardi fuor sempre ora morto.

Tu, mia già lieta, ora dolente madre,

armati meglio il cor contra l’affanno

che ’l capo io non mi armai contra Latino.

150 Tu, mia cara sorella, se mai caro

avesti il compiacermi, e pur l’avesti,

non ti legar con matrimonio altrui

se non a chi ti dia per sopradote

dele tue nozze il capo odioso e reo

155 di colui ch’è cagion ch’io t’abbandoni.

Torna Merenzio, onde partisti, e ’nvece

di guadagnarti un altro regno, perdi

con l’essercito tuo l’unico figlio.

Ma tu, Latino, c’hai tinte le mani

160 ancora del mio sangue, piaccia al cielo

che dal mio sangue nasca la tua morte.

Poi cada e muoia in mezo a tuoi nimici,

e procuri tu stesso il tuo morire,

e sii sepolto in peregrina terra”.

ADRIANA

165 Ahi, che non posso udir sì meste note

del mio caro fratel. Ponle in silenzio.

MESSO

Questo diss’egli e più parole assai,

le quai mi commandò ch’io ridicessi.

In tanto morte andava scolorando

170 il già sì bello e colorito viso,

e ’l colore e ’l calor venìan mancando

come purpureo fior che ‘l curvo aratro

abbia passando tronco, il qual perduto

le sue vaghezze e ’l bel colore smorto,

175 al fin venendo meno

cade alla terra in seno.

Or così era labile e vicino

a morte il figlio vostro quando il padre

giunse carco di spoglie di nimici,

180 e sè gli pose sospirando sopra.

Chiese il prencipe allora ambedue voi,

per mirarvi e morirvi in fra le braccia.

Ma ricusando il re di far chiamarvi,

anzi ordinando espressamente a tutti

185 che cotal morte a voi celata fosse,

pregommi occultamente il figlio vostro

che tosto che potessi io vi avisassi

il tutto. Il che li fu promesso, ed egli

ala promessa i languid’ occhi aperse,

190 gravati già da la propinqua morte.

Poi li rinchiuse in sempiterna sera.

ORONTEA

Dunque di questo cielo il dolce lume

non fère più negli occhi a mio figliuolo?

MESSO

Del corpo no, se n’è ben gita l’alma

195 dove i suoi occhi un più bel sole illustra.

ORORNTEA

Oh figliuol, tu sei morto, e io son viva?

Ah cruda man che ‘l figlio ancidi, e crudo

più, poiché non ancidi anco la madre.

Ti fa crudele uno omicidio, e dui

200 ti farebbon pietosa. Oh figliuol mio!

Ma come mio, s’io t’ho perduto? Ah figlio,

che ai parenti serrar dovevi gli occhi,

come senza lor chiuderli ten' vai?

Anzi lor li rinchiudi in notte e ’n pianto.

205 Può essere, oh dolor, che tanta forza

non abbi nel mio cor quant’ebbe il ferro

nel capo di mio figlio e non mi uccida?

Che faccio di questi occhi che non denno

mirarti più? Che fo di queste orecchie

210 che più non t’hanno a udir? Di queste braccia

che non ti abbracceran mai più? Di queste

labra con cui baciar più non ti debbo?

Più preste fur le man dell’omicida

a spegnermi il figliuol, che voi, mie mani,

215 a batter questo mio rugoso petto,

a stracciar questo mio canuto crine.

Ecco, Adria, caduto il tuo sostegno,

il terror de’ nemici e ‘l pregio nostro.

ADRIANA

Tu, fratel, fosti messo a custodirne,

220 e di custodi tu bisogno avevi,

che dietro non corressi a la tua morte.

MESSO

Io non mi meraviglio che tal morte

sia da voi pianta, che Latino stesso

la piange sì che confortar nol puote

225 né ’l padre, né quanti altri son con lui.

ORONTEA

Vittoria al vincitor peggior ch’al vinto,

ché se così vinciamo un’altra volta,

abbiam perduto. Che rileva avere

salvato il regno e perduto l’erede?

230 Oh figliuol, fu minor la doglia assai

del partorirti che l’affanno d’oggi.

Ma che dirò di me ch’oggi ti cinsi

dell’armi, onde sì mal fosti difeso?

NUTRICE

E io, misera donna, ti lattai,

235 prencipe illustre, a crudeltate e a gloria

de’ tuoi nemici, con tante fatiche

in tanti anni? Noi dunque t’allevammo

accioché in un instante andassi poi

a cader sotto la nemica spada?

MESSO

240 Diemmi anco il figlio vostro la camicia

che si spogliò pria che tornasse il padre,

dele man di costei vago lavoro,

lacera tutta e del suo sangue aspersa,

e mi pregò che dopo la sua morte

245 io la rendessi a voi, ché la serbiate

in eterna memoria di vendetta

dela sua morte, e di non far mai pace

né tregua con Latini. Ecco, la spiego.

ORONTEA

Ah cor mio, non ti spezzi a quest’aspetto?

ADRIANA

250 Lassa, quand’io formai questi trapunti,

con l’ago mio medesmo il cor mi punsi.

ORONTEA

Quanto caro mi fosti, o nobil velo,

mentre copristi le leggiadre membra.

Or tanto più m’affligi e mi rincresci,

255 né ti posso mirar non le coprendo,

u lasciasti colui, ch’oggi vestivi?

Orribile tintura, empi lavori

che traesti dal sangue e dalla spada.

Ti serberò nel’opra a me commessa

MESSO

260 Tutti i soldati, poi che vider morto

il lor signore, in man del re giuraro'

con solenne e terribil giuramento

a Latino la morte e perseguirlo

per tutto il regno.

ORONTEA        Anch’io giuro il medesmo

265 ADRIANA Oh sperar nostro, come sei fallace.

NUTRICE

Oh creder nostro, come ne lusinghi

ORONTEA

Or dov’è il mio figliuol?

MESSO                    Lo sposo vostro

l’ha fatto sepelir fuor delle mura

nel loco ov’egli si lasciò morendo.

ORONTEA

270 Oh misera Orontea, condotta a tale

che a la terra invidiar costretta sei

poich’ella abbraccia il figlio a te negato.

Dassi il figlio alla Madre universale

e alla madre propria si contende.

275 Nove mesi il portai, sì dolce peso,

e un’ora oggi tener nol posso in braccio.

Voglio andar a trovarlo, a trarlo fuori

del sepolcro e baciarlo, e pianger tanto

ch’io vi perda le lacrime o la vita.

MESSO

280 Se pur gite, reina, almen mostrate

che altronde udiste il suo morire.

ORONTEA                              Andiamo.

Ahi, ch’io cado. Ahi, ch’io moio. Aiuto! Ancelle!

NUTRICE

Deh che facesti? Ecco la mia reina

285 fuor di sé. Conducianla tosto dentro.

ADRIANA

Infelice Adriana, se tua madre

piange tanto la perdita d’un solo,

tu che far déi, che duo perdesti a un tempo?

Anzi tre. Che perdesti anco te stessa.

NUTRICE

290 Nel perder delo sposo hai questo bene,

che puoi dolerti almanco apertamente,

e sotto vista d’un pianger un altro.

 

 

CORO

Qual vive in acqua o in terra

sì selvaggio animale

295 che potesse ascoltar gli amari lutti

e ’l gran duol che si serra

nel palagio reale

con riposato cor, con occhi asciutti?

Ivi s’accolgon tutti

300 gradi di gentildonne

in angosciosi gesti e ’n nere gonne,

e fanno alti lamenti

che a fender vanno i venti.

Mogli, madri, e donzelle,

305 con grida ch’ a ferir saglion le stelle

dela giornata d’oggi

sì saguinosa e fera,

piangon dirottamente i mesti casi.

Dove per piani e poggi,

310 nel fiume e alla rivera

sono i più cari lor morti rimasi,

piangon gli acerbi occasi

di tanti uomini illustri,

bramati fin che Febo il mondo illustri.

315 Hanno un conforto solo,

che son molti nel duolo,

ché al misero è gran bene

altri compagni aver nelle sue pene.

Straccia le bionde chiome

320 la vedova consorte,

battendo a torto l’innocente petto.

Chiama l’amato nome

di colui ch’ empia morte

le fura, interrompendo ogni diletto.

325 Piange ’l diserto letto,

i pargoletti figli,

privi d’anni, d’aiuti e di consigli.

Al bel seno stringendo

che per altro piangendo,

330 del lor danno ignoranti,

accompagnano a caso i mesti pianti.

Stassi da un’altra parte

la sconsolata madre,

scossa in un’ora della dolce prole.

335 Dove Bellona e Marte

la battaglia e le squadre

essecra con pietose, aspre parole.

Appresso lei si duole

la tenera sorella

340 e l’estinto fratel per nome appella.

Sparsa pel collo il crine

tien le sedie vicine

piangendo il morto padre

la figliuola con note amare e adre.

345 Ma chi non si dorrebbe

la strage contemplando

che l’aria infetta e d’orror empie il piano?

Dove ‘l Tartaro crebbe

al regio mar portando

350 tributo assai maggior col sangue umano.

Dove vien di lontano

da spilonche e da rupi

turba di cani, orsi, leoni e lupi

a una funesta cena,

355 di cadaveri piena,

che tutto ’l campo preme

di vinti e vincitor confusi insieme.

Non è selva a lo ’ntorno

che non mandi gran frotte

360 d’augelli a questa abominosa mensa.

Così gli uomini il giorno

e le fiere la notte

sfogan nel sangue human la rabbia immensa.

Cinzia riguarda e pensa

365 fuggir da questo cielo,

e le stelle tirarsi agli occhi un velo

per non mirar vivande

sì brutte e sì nefande.

E lacerati quivi

370 dai morsi i morti e dagli affanni i vivi.

Del sangue altrui e nostro

il terren caldo ed ebro

pon tema e doglia in chi passa o dimora.

A questo orribil ostro

375 s’aggiunge il fioco e crebro

gemito di color che’n pene ancora

non son di vita fora.

Chi dunque non si lagna

e ‘l pianto universal non accompagna?

380 Chi, piangendo altri, è in riso

di sé tien poco avviso.

Uom non è chi trar puote

nel commune dolor secche le gote.

 

Il fine del Primo Atto.



 

 

[2.1]

Latino solo.

 

 

LATINO

Con che faccia, audacissimo Latino

andrai innanzi ala tua Dea, del suo

solo e caro fratel fresco omicida?

La man del sangue ancor vermiglia e calda

5 di quel che è nato da uno stesso ventre

e lattato con lei da un petto stesso

ardirai porle al collo, o porle in seno?

A chi di tanto ben la spoglia è carca,

contra ogni creder suo di tanta noia

10 credi, sciocco, che dar vorrà piacere?

Stimi tu di trovarla sì pietosa

che se t’avrà ben per l’adietro amato,

or l’amorosa fiamma in fiamma d’odio

e di sdegno non cangi, come spesso

15 cortese foco a cui lieta famiglia

si scalda e coce gli opportuni cibi

si cangia in tanto ardor che tutta abbruccia

la casa e ciò che vi si trova dentro?

S’ora te le appresenti non fìa a punto

20 un rinovare in lei l’affanno, come

l’omicida appressandosi a l’ucciso

dal cadavero uscir costringe il sangue?

Credi tu ch’abbia voglia la infelice,

la sconsolata giovane d’uscire

25 a udir parole e prattiche d’amante,

anzi crudel nemico, a chiari segni

ella che stassi a pianger con la madre

colui che amar dovea come sé stessa?

Ma fingi ch’ella a suo costume venga.

30 Con qual cor, con qual occhio mirerai

la tua luce di tenebre vestita,

la gioia e ‘l riso tuo sommersi in pianti.

Lo tuo conforto sconsolato e mesto.

Lo tuo ben di te schivo, la tua speme

35 disperata e le tue fatali stelle

girarsi dal tuo aspetto in altra parte?

Potrete, occhi, mirar turbato il volto

d’ira e di doglia, minaccioso il ciglio

del mio bel Sole e lacrimosi gli occhi?

40 Potrete, orecchi, udir gli accenti irati

de la mia cara Donna allor quand’ella

queste mi dica o simili parole

quando pur di parlarmi il cor le soffra?

“È cotesto il bel premio, ingrato amante,

45 che tu mi rendi? Invece de la vita

ch’hai da me, dare al mio fratel la morte?

Bel pegno certo delle nostre nozze.

Invece dell’amor ch’io ti portava,

odiasti e uccidesti il mio germano.

50 Ma lui non uccidesti, anzi l’amore

ver te della sorella. Con quel colpo

tronchi il filo vital del fratel mio

e l’amoroso laccio del mio core”.

Ciò dirà ella, e più, come alla lingua

55 sua somministreran l’odio e l’affanno.

E tu vuoi aspettar questa tempesta,

questo tuon, questo folgor che t’opprima?

Eleggi prima volontario essigilo.

Torna più toso a dietro, e tu medesmo

60 fa’ vendetta di quel che ’l tuo cognato

ti toglie e annoia la tua cara donna.

Su ’l sepolcro di lui scanna te stesso

all’ombra del fratello in sacrificio,

al cor della sorella in medicina.

65 Onde Adriana tua su ’l monumento

non lacrimi il fratel, che te non pianga,

deh se morir pur debbo, imitar voglio

la Fenice, la qual morir dovendo,

nel suo sole affissar vuol prima gli occhi,

70 benché posta in quel sol sia la sua morte.

Ah non ti por, Latino, a tal periglio,

proverà troppo dispietato influsso

nel capo tuo da la sdegnosa faccia.

I gesti, i detti suoi, son tutti vita.

75 Mal credi, se ciò credi, fìan mortali.

Mai, Adriana mia, creder non voglio

che giudice sì ingiusto, e sì crudele

sii che dar vogli contra a un reo sentenza

senza prima ascoltar le sue ragioni.

80 Parte alle parti il giudice gli orecchi.

Dunque da poi che per l’usata porta

sì facilmente entrai nella cittade,

e aperto ritrovai questo giardino,

com’è l’ordine dato, e par che i raggi

85 loro per me celar, celin le stelle,

attenderò che fuori esca Adriana.

Poiché a quest’ora sempre esce la notte

a veder s’io ci son, com’è composto

tra noi. E par ch’io senta aprir la porta,

90 la qual meglio chiamar posso Oriente.

Ecco spunta il mio Sol cinto di nubi

a mezzanotte. Mira come gli astri

dan loco al lume suo smarriti in vita,

come stan l’aure a vagheggiarlo intente.

95 Felice quel (rispetto a me) che aspetta.

Ador, ador la pena capitale.



 

 

[2.2]

Adriana, Latino.

 

 

ADRIANA

Esci tu poi ancor quand’abbi tempo.

LATINO

Riguardando io quel puro e fermo affetto

che a servirvi m’inchina, alta signora,

giurato avrei per quel più riverito

5 nume da me qua giù (che sète voi)

che non potesse in tempo e in loco alcuno

succedere accidente donde io avessi

a scusarmi con voi d’error commesso.

S’error commesso si può dir l’errore

10 che si commette fuor d’ogni scienza.

Or grazie a Dio che ’l mio giudice (ancora,

che di parte, e di giudice persona

or sostenga) non vuol tener di parte,

ma di giudice ufficio. Né dannarmi

15 solo, ma scende a udir le mie ragioni,

che inappellabilmente in lui rimetto.

E quand’io debba richiamarmi, all’alma

pietà, di lui medesmo sia il richiamo.

So, che quantunque il caso del fratello

20 non v’apporti quel mal, che forse parvi,

(anzi la dubbia palma a vostri piega

l’amor diviso de’ parenti vostri

per duo rivi in voi sola or tutto accoglie,

di infanta vi sublima a principessa,

25 lasciando voi di questo regno erede,

le nozze vostre agevola, e affretta)

pur la sua morte (ancor ch’ei l’abbia compra)

v’affligge, vi inacerba a far vendetta

de l’ucciso e dar pena a l’omicida.

30 Ma se udirete il mio discorso, spero

mostrarvi aver quella ragion che voi

più desiate e non credete ch’abbia.

So che ‘l caso vi è noto. Onde ridirlo

non convien, ma toccar sol le difese.

35 De l’entrare in battaglia io non mi scuso,

poi che una i’ convenìa far di due opre.

O trar da la battaglia il padre in pace,

o quinci esser da lui tratto in battaglia.

Onde ritrar non ne potendo il padre,

40 l’uno effetto di duo far mi convenne,

o accompagnarlo o stando fuor mostrarmi

o figlio iniquo o cavalier da poco,

o prencipe di voi, di stato indegno,

o nemico a mio padre, o amico a voi,

45 e ciascun di tai segni era mal segno.

Oltra che la giornata esser non debbe

senza me dove i nostri combattendo

restar doveano, o vincitori o vinti.

Se vinti, aitato avrei le schiere nostre,

50 anzi le schiere che già vostre sono.

Se vincitori, allor con lor sarei

nella cittade entrato e avrei difeso

dal furor militar la cara sposa.

E se dicesse alcun ch’io son prigione

55 vostro e far contra voi guerra non posso,

dico che prigion vostro è solo il core

e che ‘l cor contra voi non fe’ mai guerra.

Perché ’l cor mai non fu dov’era il corpo.

Or discendiamo a quel che via più importa.

60 Il fratel vostro sconosciuto venne

a provocarmi e a combatter meco.

Io che doveva far? Fingiamo ancora

che ’l conoscessi. Il che però san tutti,

e sapete anco voi, che non fu vero.

65 Insegnatemi voi, fingete voi,

signora, di trovarvi in loco mio.

Dovea lasciarmi uccidere, e a voi

uccidere il marito e voi insieme?

Che s’io misuro ben l’animo vostro

70 col mio, potea sperar che la mia morte

fosse per generar la morte vostra

come dal vostro il mio morir verrebbe.

E s’io lasciava uccidermi, potendo

difendermi e difender non volendo,

75 non era uno ammazzar me stesso? Io allora

non era ancor de l’omicidio reo?

Né pentirmi potea com’ora posso.

E voi e me perdea. Né l’omicida

però forse da’ mei campato fòra,

80 men teneri di fe’ che de’ lor Regi.

Dunque, senza germano o senza sposo

vi convenìa restar. Se voi più pia

sorella sète che mogliera, io certo

son che ‘l fratel si lascia per lo sposo.

85 Se ad ammazzarmi nol mandaste voi

pentita a esser mia, vaga di sciorvi.

S’io ferìa (lui ferendo) il vostro sangue,

ei ferìa (me ferendo) il vostro core,

(se finto non è quel che mi giuraste).

90 Dovea fuggire, o rendermi per vinto?

Io, che debb’esser vostro e a voi congiunto

in una carne, debbo senza macchia

serbarmi (come voi) per vostro amore.

Gli sposi avvinti in un nodo non ponno

95 senza l’altro macchiar macchiar sè stessi,

l’onore oltre la vita esser de caro,

e ’l tutto altrui doniam da questo in fuori.

Mentr’io giostrava con colui e avea

pensier che voi la giostra rimiraste,

100 avrei potuto sotto gli occhi vostri

mai risolvermi a rendermi o a fuggire?

Tolga Dio che altri mai che voi mi vinca.

Che a voi sia tal onor commun con altri.

S’io l’uccisi, il valor da voi mi nacque.

105 Dunque a voi, non a me, convien la pena

di tal colpa, se pur pena ricerca.

Se dar volete pena a chi l’uccise,

datela a voi, ché a me la vita deste.

E quel che date, mai non ritogliete.

110 Punite voi, le cui bellezze vago

mi fer di vita e alla difesa pronto.

O perdonate a voi stessa il mio fallo.

Se dar volete pena a chi l’uccise,

datela a lui che uscì fuor delle mura

115 contra il voler del padre, contra il voto

de’ suoi e contra ogni ragion di guerra.

Pose ’l tutto in periglio manifesto,

gettando in altri il peso a sé commesso.

Onde s’avesse ancor vinto, dal padre

120 meritava gastigo aspro e mortale.

Né sentendosi polso atto alla giostra,

corse a sfidarmi, pien di mal talento

per ammazzarmi, ond’ei sé stesso uccise.

Venne egli stesso ad incontrar la morte:

125 se dar volete pena a chi l’ha ucciso,

datela alla sua spada, che sì male

il difese. Ma ciò (cred’io) successe,

che sendogli da voi forse oggi cinta

intendendo l’amor che mi portate,

130 e me riconoscendo, non mi volse

ferir, bastando esser da voi ferito.

Né voi già de l’acciar men pia sarete.

La legge natural vuol che ciascuno

contra il morir si scherma e si difenda.

135 Quinci a ciascun natura arme concesse,

a chi l’unghia, a chi ’l dente, a chi ’l veleno,

a chi ’l corno, a chi ’l rostro, a chi la spada.

Che fa il padre, il re vostro, se non ch’egli

sé medesmo difende e le sue genti?

140 La legge scritta vuol che si ribatta

la forza con la forza e lo assalito

spenga lo assalitor senza gastigo.

Sì che la legge di sua man la spada

contra gli offenditori offre agli offesi.

145 La legge de la guerra vuol che ’n giostra

ciascun s’aiuti e l’avversario offenda.

A l’uom dato è difendersi da morte,

e perché questo non può farsi senza

offender quel che darla altrui si sforza,

150 però l’offesa in sua difesa è giusta.

Ma di tante difese in mia difesa

nel caso del fratel vostro vorrei

essere affatto privo, quand’io avessi

lui conosciuto e conoscendo ucciso.

155 Ma conosce ciascun ch’io no ’l conobbi.

Dal loco non potea saperlo. Uscìo

fuor de le selve da contraria parte.

Non poteva dal tempo argomentarsi.

Già sapea che restato egli era in casa

160 dalle spie che mio padre ha in questa terra.

Le insegne non potean manifestarlo,

ché peregrine sono. E se col padre

fosse corso a giostrar, potea dal padre

esser così come da me fu ucciso.

165 E voi s’ivi il vedeste (e nol mandaste)

gli auguraste la morte e la otteneste.

S’io lasciai di ferir le genti vostre,

credete che ‘l fratel vi avessi estinto

quando qual fratel vostro uscito fosse?

170 Benché non fu, ma vostro e mio nemico.

Non che un vostro fratel, ma qualunque altro

avesse ivi invocato il vostro nome.

Nel nome vostro avrìa trovato scudo

miglior che quello ond’egli era coperto.

175 Né quando io lo ferii, né quando ei cadde

per lui sorsero i vostri. Ché né i vostri

il conoscean se non quando scoperto

videro il viso smorto, non già smorto

sì che più smorto allor non fosse il mio.

180 E come una sincera posta al specchio

d’una corrotta si corrompe, io allora

quella doglia sentii ch’egli sentiva.

A me quivi augurai l’asta d’Achille,

a’ suoi l’uso de l’api, a lui d’Anteo.

185 E se ’l mio sangue fosse stato empiastro

atto a tenerlo vivo e a farlo sano,

possa io (com’ei perdeo) perder la vita,

oppur la grazia vostra (l’ che più stimo)

s’ allora ivi svenato io non mi avessi

190 con questo brando mio di vena in vena.

Né dicano color che me l’han tolto

vivo di mano averlo tolto a forza.

Ch’io quella vita a lui (quando il conobbi)

donai che voi a me prima donaste.

195 Né dica alcun ch’io trapassassi i segni

(che schermirmi tra assai senza ferirlo)

che ciò non s’usa. Quando il riconobbi,

posi tosto nel fodero la spada

e fui per farle fodero del petto.

200 Del che, se testimoni produr’ voglio,

le mie produco e ancor le squadre vostre.

Tu, ombra dell’ucciso, or qui ti mostra

e l’innocenza mia meglio difendi,

che già non difendesti la tua vita.

205 Ma il maggior testimonio è l’argomento

che tra voi far potete, e così dire:

l’amor del mio Latino è vero o finto.

Se vero, vero è ancor quant’ei mi dice.

Se finto, qual cagione ora il costringe

210 a venirsi a scusar ne la mia terra,

né le mie forze con mortal periglio,

di notte, sol, da’ suoi lontano, poi,

che da me non ricerca alcun diletto?

(Ch’altro or da voi, che ‘l vostro amor non voglio)

215 ma, che più? Se ’l mio core in mano avete,

perché ’n lui non leggete i mei penseri?

Queste ragioni non pur presso a voi,

ma peso avrìan presso alla madre vostra,

che voi vinca in amar colui che giace,

220 da voi vinta in amar costui che vive.

Ma se dell’opra mia da me commessa

al buio, a caso, in vostra e ’n mia difesa,

trattovi pe’ capei, con arme pari

mi volete punir. Basti la pena

225 che mi dà l’opra stessa, e lo spavento

del vostro sdegno, che ogni pena eccede.

Ma quando altra ragion per me non vaglia,

vagliami quel che a tutti gli altri vale.

Ch’io ricorro alli dei, rifuggo al tempio,

230 tempio chiamo il giardin de l’idol mio.

Pur se nocente mi stimate, e come

nocente giudicate or di punirmi,

movanvi da punirmi gli innocenti.

Che error fece la mia cara sirocchia

235 (tenera come voi, non già sì bella)

cognata vostra, che lo stesso affanno

proverebbe che voi ora provate?

Che error fecer mia madre e la mia sposa

figlia del buon re Atrio, che morendo

240 io non vorran più rimaner in vita?

L’una pria perderà, ch’abbia la nora,

l’altra vedova fia, prima che moglie.

Dunque, se giusta giustamente meco

vi volete portar, debbo ire assolto.

245 La Giustizia che uccide gli omicidi

non vuol gastigar l’opra, ché se l’opra

volesse gastigare i suoi ministri

poi che avessero ucciso l’omicida,

sarebbon rei d’altro omicidio anch’essi.

250 Vuol gastigar la volontà. Se questa

dunque vuol gastigare, io che non ebbi

volontà di toccar vostro fratello,

non debbo per giustizia aver gastigo.

Voi uccidendo me, più grave colpa

255 di me commettereste in uccidendo

un da voi conosciuto, uno innocente,

un che v’ama un che a voi vinto si rende.

Dove tutto in contrario a me successe.

La Giustizia che uccide l’omicida,

260 nol sa, vaga d’aggiunger sangue a sangue,

ma di proporre essempio a chi rimane.

Or quale essempio fìa proposto, s’io

senza scienza mia, contra mia voglia,

offendo quel che travestito viene

265 per la morte ingannar che lui non vuole?

Offendo quel che a provocarmi giunge,

per la morte chiamar, che da lui fugge?

Giudice saggio non suol dar sentenza,

che su ’l giudicator tornar mai possa.

270 Può in voi, può in tutti il mio fallo cadere.

Spesso punir sogliam per vendicarci.

Ma voi sapete, illustre principessa,

chi fa vendetta, si dimostra forte,

e chi potendo farla non la face,

275 forte si mostra parimente e pio.

Forte, ché far la pò. Pio, ché non vuole.

E non pur debbo assolto ir, ma premiato

ché lo sposo innocente vi difesi.

E se pia piamente oggi volete

280 proceder meco, avrò da voi perdono.

Poiché perdon vi chieggio umilemente.

Una altrui gran pietà non si conosce,

se a cui perdoni un gran fallo non trova.

Ecco, vi si appresenta ora un soggetto

285 a cui d’intorno essercitar possiate

la virtù che fa l’uom pari alli dei.

Quel son pur’io, che voi tanto mostraste

prima d’amar, da voi per vostro eletto.

Voi, che ’n elegger tal giudizio avete.

290 Ma se disposta sète a darmi pena,

eccomi presto ad accettarla e lieto

pagar con la mia morte il non mio fallo.

Io già fatto l’avrei. Già di mia mano

m’avrei dato la morte, ancor che ingiusta,

295 ancor che con offesa di innocenti,

massimamente alor che feci il colpo

che me più ch’altri offese. Ma pensando

che se io così moria, mi diffidava

della vostra pietate e vi toglieva

300 l’occasione, o di mostrarvi pia,

o di punirmi (e da voi ogni pena

m’è peggior del morir), me ne ritenni.

Ritenni anco il saper, ch’io, ferendo

lo mio petto, feriva il vostro volto

305 che impresso ivi si sta per man d’amore,

e che l’mio cor trovato non avrei

nel mio sen, poiché s’albergò nel vostro.

Oltra che questa vita a voi donata

da me, ma non è più. Né per me stesso

310 senza vostro voler posso disporne.

Voi, che di voi medesma quel rispetto

non avete d’aver, potete farlo:

ecco dunque colui, pietosa donna,

inginocchiato a’ vostri piedi innanzi

315 che vi fece pur  sì grave oltraggio.

Ecco la iniqua man che ’l ferro strinse.

Ecco la spada nuda. Ecco la spada,

empia ministra del dolente ufficio.

Questa vi porgo, altissima reina.

320 Voi la pigliate. Onde al vostro braccio

alzata al fin, giù declinando poi

sovra me, porti il flagel vostro seco,

e ’l colpo che feci io faccia e gastighi,

meschi il sangue del frate e de lo sposo,

325 e tolga il capo al capo del mal vostro.

Ecco che ’n mano io vi consegno il ferro

nudo e nuda la testa in sen vi pongo.

E vital mi sarà questo morire,

quando da vostre belle man mi venga.

330 Così compiti fìan gli annunzii tristi

che avventò contra me, contra mio padre

morendo e minacciando il fratel vostro.

Così compìto fìa quant’ei v’impose.

Che sposo non vi sia, se non colui

335 che ’l capo v’offra in man di chi l’ancise.

Così dirò che notte ho dal mio sole,

e che la vita mia morte m’adduce.

Così dirà ciascun ch’ove le donne

vendicate dagli uomini esser denno,

340 vendicati oggi son questi da quelle.

E quel che armati i cavalieri in campo

non fecer, fan le verginette in gonna.

M’incresce sol, che non s’ancidan meco

il mago, il portinar, la cameriera

345 che testimonii fur de’ nostri amori.

Acciocché non seguendo più tra noi

per la mia morte le composte nozze,

non potessero andarvi diffamando.

Dunque omai proferite la sentenza

350 che a voi o al fratel vostro m’accompagni.

ADRIANA

Scorgo, signor, che forza nella lingua

non portate minor che nella spada.

E quantunque la doglia del germano

quinci, e quindi l’amor che di voi m’arde,

355 mi vadano adombrando lo intelletto,

pur la ragion discerno e miro quanto

giustificata è ben la causa vostra

e di quanto al fratel son debitrice.

Non vi danno però, né vi perdono.

360 Che dove uom non ha colpa, non ne deve

chieder, né riportar perdon né pena.

Levatevi, signore, e riponete

la spada e i preghi, or ch’io ripongo l’ira.

Che troppo empia sarei se profanassi

365 cotesto amato, avventuroso capo,

che di duo regni duo corone attende,

del gemino valor giusta mercede.

LATINO

Alle cortesi note e al cortese atto

grazie renda colei di cui io sono.

370 Io ben comprendo che coteste braccia

non han potuto sollevarmi in piedi,

ma mi ponno essaltar fin sovra il cielo.

Non avrà invidia il vostro capo al mio,

ma la più preziosa, alta corona

375 del mio capo sarà del vostro amore.

Chi è colei che fuor vien verso noi?

ADRIANA

È la nutrice mia, cui (sendo morta

oggi la cameriera) ho convenuto

l’amor nostro scoprir, non men fedele.



 

 

[2.3]

Nutrice, Adriana, Latino.

 

NUTRICE

Ritraetevi a l’ombra della luna,

che ’l lume suo non giovi e noccia a un tempo

scoprendovi l’un l’altro e ambo altrui:

stanchi di sospirar, di pianger fiochi

5 tutti in palagio or tien languido sonno.

Io, poi che non è d’uopo la mia ascolta

più dentro, uscita son, come ordinaste.

ADRIANA

Giovò sempre il restare e ’l venir tuo.

NUTRICE

Signor, come gran gloria presso a tutti

10 v’è il vincere un guerrier che si difende,

così grave disnor vi fòra quando

non favoriste una real donzella

che al primo assalto a voi vinta si dona.

LATINO

Donna, i conforti tuoi come son veri,

15 così soverchi son. Che tanta fede

troverà in me costei, tanta fermezza

quanta io ritrovo in lei beltade e amore.

E ora col periglio che tu vedi,

a rivederla torno e a favellarle

20 per ordir meglio i bei nostri disegni.

ADRIANA

Fingete pur con tutti esser de’ nostri.

LATINO

Io non fingo, anzi è ver che vostro sono.

Signora, i vostri han posto in rotta e ’n fuga

le nostre genti. E ’l padre mio ritratto

25 a’ confini del regno in certa villa

(per passarsene poi subito in Lazio)

sta raccogliendo le reliquie sparse

del perseguito essercito. E con molti

mi ha mandato a tracciarle e unire in massa,

30 ma io, ch’altro pensier volgea nel petto,

come ho sentito dell’amica notte

l’alto silenzio, i mei lasciando, solo,

anzi di più pensier fatto compagno,

da Amor guidato, vengo a tor da voi

35 partir dovendo, l’ultima licenza.

Non piangete cor mio, levate il volto.

Non guastate piangendo i teneri occhi.

E non battete lo innocente petto

contra ragion. Che colpa ci ha il bel petto,

40 se mi parto io? Che colpa ci han le chiome

da volerle sconciar? Che colpa il viso

da volerlo percoter con le palme?

NUTRICE

Tra quante infirmità, tra quante doglie

ha sotto ’l ciel, non ha maggior di questa

45 che l’amorosa febre in noi produce.

ADRIANA

Pietà, cieli, pietà. Pietade, Amore,

se nel tuo terso ciel le voci ascolti

de’ miseri vassalli e non sei cieco

e sordo parimente. O solo e sommo

50 ben de l’anima mia, mia speme, dunque

mi volete lasciar? Daravvi il core

dunque d’andar senza Adriana vostra?

E non vi annoderò queste mie braccia

d’intorno sì che non v’usciate mai,

55 qual edera, qual Salmaci, qual vite,

o qual rete tenace di Vulcano?

Deh fate ch’io da voi non sia disgiunta.

LATINO

Quel che a voi nego, a me prima negai.

E porto più dolor partendo meco

60 che vosco voi restando non tenete.

Ma che poss’altro? Restar non poss’io.

Menar non posso voi. Datemi voi

qualche via, qualche modo. E poi vedete

se ad essequirlo mi trovate pronto.

65 Volete ch’io qui resti, e qui da’ vostri

vi sia smembrato innanzi a brano a brano?

Volete ch’io vi meni, e a meza strada

tolta mi siate, o il mio padre ne ancida,

o ’l vostro venga in Lazio a farne guerra

70 come andò tutta la Grecia a Troia?

E forse avrebbe più ragion di farlo.

E voi d’odio dotata, infamia e sangue,

al regno marital patiate il foco

e dal regno natio leviate il meglio?

75 Amboduo questi regni, che pur vostri

saranno al fin, voi risvegliate a l’armi,

dove qualunque perda, voi perdete?

E l’amorosa face che noi arde,

dolce non sia de’ nostri petti fiamma,

80 ma fiamma rea che i be’ paesi accenda?

ADRIANA

E s’io star non potea, non dirò un giorno,

ma un’ora pur senza vedervi, or come

tanto da voi starò spazio lontana?

E se pensando al partir nostro solo,

85 tanto ho dolor, che fìa quando partiate?

Che fìa quando poi siate al fin partito?

Ogni dì mi parrà maggior d’un anno,

il Sol zoppo, il ciel’orbo, il giorno notte,

la notte inferno, l’aria tenebrosa,

90 amare l’acque e vedova la terra.

Saran le luci mie prive di luce,

dove entrerà per non uscirne il pianto.

Dond’uscirà per non entrarvi il sonno.

Con voi verrà il cor mio, resterà il seno.

95 Alfin né morta resterò, né viva.

Non morta, sentirò pur troppo affanno.

Non viva, lungi dalla vita mia.

Ite veste, ite gioie, ite catene.

Prendi, nutrice, quel che del fratello

100 non m’ha fatto por giù l’acerba morte.

NUTRICE

Figlia, tempra la voce e tempra il pianto,

ché di pianto maggior non fìa cagione.

LATINO

Il buon nocchier nel tempestoso mare,

il fin oro nel foco e negli avversi

105 casi provar si suol l’animo saggio.

Armate dunque il cor. Dunque asciugate,

per Amor mio, le rugiadose ciglia.

ADRIANA

E voi, signor, perché sì spesso indietro

volgete il viso?

LATINO    Perché ’l pianto vostro

110 come l’acqua di vite il cor m’accende,

benché da lungi Amor le faci scota.

E Amor qual fabro a quel pietoso umore

che va rigando le fiorite guancie,

gli strali tempra e immolavi la rota

115 a cui gli affili e ’l petto indi m’impiaghi.

ADRIANA

E perché voi ancor di pianto carchi

portate gli occhi?

LATINO             Deh, non mi sforzate,

signora, a dirlo.

ADRIANA          Ditelo di grazia.

LATINO

Voltomi e piango come ’l sol la sera

120 che guardandosi indietro annunzia pioggia.

E mentre a confortavi m’affatico,

d’altri ho bisogno ond’io conforto prenda,

qual notator che ’n fiume alto si scaglia

per soccorrer colui che si sommerge.

125 Né ’l soccorre e con lui resta sommerso.

Piango, perché due volte, ahimè, mi parto.

Partomi, che da voi mi so lontano.

Partomi, che per mezo mi divido

e si resta il miglior di me con voi.

130 Sì che né qui sarò, né dove io vado.

Che andando senza voi, senza me vado.

ADRIANA

Restando io senza voi, senza me resto.

LATINO

Spronerò inanzi il mio destriero e Amore

spronerà i pensier miei più forte adietro.

135 Così sol due farò contrarie strade.

ADRIANA

Perché s’ognor mi dai l’aspre tue pene,

non mi presti ora, Amor, l’aure tue penne

onde dietro al mio cor mova col corpo?

NUTRICE

Le penne opra l’angel, l’ingegno l’uomo.

ADRIANA

140 Ma che speme ci è poi? La speme al manco

suol condir col suo mèle ogni veleno.

Qual fine al fine avrà questo rio stato?

LATINO

Quel fine avrà, ben mio, che desiate.

Duo mesi non andran che ferma pace,

145 lo cui nodo saran le nozze nostre,

stringeranno tra lor vostro e mio padre

per opra mia.

NUTRICE   Dove i figliuoli tanto

s’amano, come odiar potransi i padri?

ADRIANA

È pur lungo aspettar.

LATINO                L’agricoltore

150 sospira un anno la sperata messe.

ADRIANA

Ma intanto, chi mi fìa luce e conforto

in questa oscura e sconsolata vita,

Ch’io come tortorella a viver resto?

LATINO

Degli amor nostri il secretario fido,

155 il mago, a cui rivolger vi potrete

quando accidente inaspettato occorra.

Egli mi avviserà per fidi messi,

dando a voi mie risposte e suoi consigli.

ADRIANA

E se i petti indurati e d’odio pregni

160 de’ nostri genitori avesson fisso

di non giunger tra lor pace né tregua?

LATINO

Allor, quando altro mezo non mi vaglia,

ve ne trarrò per mezo al ferro e al foco

senza vostro disnor per viva forza,

165 anzi per vivo amor che a voi mi stringe.

ADRIANA

Ma se quando sarete uscito fuori

del mio regno, io v’uscissi fuor di mente?

Qual vivrebbe nel cerchio della terra

più misera di me? La morte prima

170 senta, che sentir ciò.

NUTRICE                              Quel che non vuoi

che avvenga, non déi dir né déi temere.

LATINO

Del sol, del gusto e del mio nome prima

mi scorderò che della faccia vostra.

Né lunghezza di tempo, né distanza

175 di loco, né successo, o buono, o rio,

né speme, né timor, né beltà nova,

né l’impiombato stral, né ’l rio di Lete,

o carissima donna, faran mai

che mi perdiate. Il farà morte solo.

180 E s’anco dopo morte amar si puote,

dopo morte d’amarvi anco vi giuro.

Non fìa per mutar sol ch’io muti mente.

Né che per cangiar pèl cangi pensero.

Né che ai freddi anni il dolce foco scemi.

185 Ogni terra, ogni tempo, ogni fortuna

vedrammi vostro. Ma cotesta tema

per qual porta vi entrò, donna, nel petto?

Se (non ch’altri) lasciai me stesso ancora

per esser vostro? Abbiate ferma fede,

190 ch’io non son per lasciarmi in tempo alcuno.

E se volessi, che voler non posso.

E se potessi, che poter non voglio.

Che poter, che voler, né so, né debbo.

E se va dalla lingua il cor diverso,

195 i’ prego Dio che questa acuta spada

con questa punta a cui lo appoggio, il passi.

NUTRICE

Dio vi guardi, signor, di tanto male.

ADRIANA

Ma se rompeste le promesse mai

per forza (che per volontà, son certa

200 che non le romperà quel cor gentile),

io del vostro mentir la pena paghi.

LATINO

Come alla vostra la mia destra giungo,

così giungo il mio core al vostro core.

Di ciò te chiamo in testimonio, o Luna,

205 che dal ciel piena e limpida or ne miri.

E voi, chiare di lei compagne stelle,

che voi prima la terra e l’erbe il cielo

terrà, che me tenga altra che Adriana.

NUTRICE

La fede sola altrui data in occolto,

210 e ’l flagel de la propria conscienza

può tanto in cor gentil quanto in cor vile

può ’l timor del supplicio apparecchiato

in tribunal di giudice terreno.

LATINO

Orsù, speranza mia, sperate bene.

215 E con la speme del ritorno lieto,

temprate il duol de la partita trista.

Che ancor d’Adria e di Lazio alta reina

e mia sposa vedrovvi ire adorata

da le madri latine e adriane.

220 E ’n vece de la spada che a cotesta

man regia porsi, porgerò lo scettro.

ADRIANA

E ciò mi fa temer, che a tal conforto

non mi sento istillar dramma di gioia.

NUTRICE

Chi molto spera, molto ancor paventa.

ADRIANA

225 Oh Dio, tu solo sai u’, quando e come

mai più mi troverò col mio Latino.

LATINO

Tempo è di porsi in via. Meglio è far tosto

quanto s’ha a far che prolungarlo, e insieme

la doglia prolungar pungente e verde.

ADRIANA

230 Deh, (si mi amate) non partite ancora.

Perché pensando che partir dovete,

la mente impari a sofferirlo meglio.

LATINO

E che facciam più qui, se siam da’ vostri

cacciati? Se lo star qui non ci giova

235 ad altro omai che a punger più la piaga,

e l’un l’altro invitarci al duolo e al pianto?

E (s’io non erro) è presso il far del giorno.

Udite il Rossignuol che con noi desto,

con noi geme fra spini, e la rugiada

240 col pianto nostro bagna l’erbe. Ahi lasso.

Rivolgete la faccia all’Oriente.

Ecco incomincia a spuntar l’alba fuori

portando un altro sol sopra la terra

che però dal mio sol resterà vinto.

ADRIANA

245 Ahimè, ch’io gelo. Ahimè, ch’ io tremo tutta.

Questa è quell’ora ch’ogni mia dolcezza

affatto stempra. Ahimè, quest’è quell’ora

che m’insegna a saper che cosa è affanno.

Oh del mio ben nemica, avara notte,

250 perché sì ratto corri, fuggi, voli

a sommerger te stessa e me nel mare.

Te nelo Ibero e me nel mar del pianto?

O dalla invidia accelerata aurora

che agli altri luce, a me tenebre apporti,

255 muti per me l’ufficio, il passo e ’l nome.

O luce, che mi ferì gli occhi e ’l core.

O Luna, perché ’l ciel sì tosto lasci?

NUTRICE

Ella che guarda il natio freddo, fugge

sentendo già scaldarsi a’ tuoi sospiri.

ADRIANA

260 Oggi sul regno mio pace si leva,

e ’n me tramonta e ’n me guerr’aspra sorge.

LATINO

Or troppo il lito d’India ne minaccia.

ADRIANA

E qual offesa ebbe da noi?

LATINO                         Come somma

volontà dunque omai vi abbraccio, oh dolce

265 cor del mio cor, della mia vita vita.

ADRIANA

Qual mio fallo, qual forza o qual destino

mi vi trae de le braccia? Ove sen vanno

i fuggitivi mei, rari diletti?

LATINO

Restate in pace e m’aspettate tosto.

ADRIANA

270 Aiutami, ch’io moro, oh mia nutrice.

Sostentami ch’io cado.

NUTRICE                Ahimè, figliuola.

LATINO

Deh, richiamate l’anima smarrita

a lochi suoi. Sentite, ch’anco in seno

sète al vostro Latino e ch’ei v’abbraccia.

275 Ripigliate lo spirto. Aprite gli occhi.

Serbatevi a più candida fortuna.

Vedi tu, donna, di condurla dentro.

Né parlar né indugiar più posso. A Dio.

NUTRICE

Ite, e portate nella mente impresso

280 in quale stato la lasciate andando.

LATINO

Scusoti, Orfeo, se per voltarti indietro

perdesti già la riconcessa sposa,

ch’io mille volte ogn’or la perderei.

 

 

CORO

Scotete il giogo dur, rompete il freno,

285 sforzate la prigion di Citerea,

oh servi all’amorosa, ingiusta Dea.

Poiché ad altro non porge occhio sereno

che quando avvien che pianto stempri gli occhi

o piaga crudel sangue trabocchi.

290 Ma che stupor, che alle ferite rida

una di Marte e di Vulcano amica?

Che una di Febo asprissima nemica

spenga ogni lume in quel che ’n lei si fida?

Che sangue chieggia e sol lagrime amare

295 una nata di sangue e nata in mare?

O nel campo d’Amor, cavalier fidi,

fuggite dai costui feri stendardi

tosto, bench’ogni tosto sarà tardi.

Che s’avvien ch’egli ancor molto vi guidi,

300 potrà condurvi a un precipizio seco.

E qual guida sperar si può da un cieco?

Qual da un uccel riposo o qual fermezza?

Qual arte o qual prudenza da un fanciullo?

Quale speme, qual gioia o qual trastullo

305 da chi la propria madre impiaga e sprezza?

Qual pietà, qual perdon da un Dio sì crudo

e qual premio sperar da un Duce ignudo?

Con dura legge, Amor, crudel tiranno,

face adorar vana bellezza in terra.

310 Arma i nemici e fa agli amici guerra.

Affligge la bontà, prezza lo inganno.

Onora e premia gesti iniqui e adri.

Consiglio e aiuto dà a dui occhi ladri.

Vuol ch’altri serva senza esser premiato.

315 Sia senza pena chi un cor’ ha tolto.

Che chi ancide e accende vada assolto,

e chi non fece error resti dannato.

Il reo discioglie e lo innocente lega,

noce a chi gli offre e fa penar chi’l prega.

320Lo suo vassallo questo empio condanna

a fallaci seguir nemiche scorte

e ad amar la cagion de la sua morte.

A por sempre più fede in chi lo inganna,

ad aspettar da chi lo offende aita,

325 a offrir a suoi nemici in man la vita.

A pascer de’ suoi pianti chi il trafige.

A vivere e penar tra fiamme e onde.

A chiamare e pregar chi non risponde.

A render grazie e glorie a chi l’afflige.

330 A misurare i campi e ’l suo dolore.

A contar tutti i passi e tutte l’ore.

Arde nel ghiaccio e agghiaccia in mezo al foco

l’amante alge la state e arde il verno.

L’altrui a doglia, il suo mal prende a scherno.

335 Corre senza mutar né piè né loco.

Apre gli occhi al ben d’altri, al suo li chiude.

Le viscer’ offre a fier nemico ignude.

Non gradisce ’l morir, né ‘l viver brama.

La mente al suo ben pigra, al danno ha presta.

340 Ove sé stesso accenda, il foco desta.

Ove sé stesso annodi, i lacci trama.

Tra speme falsa e non dubbii martiri,

pan di lagrime mangia e di sospiri.

Ma dove fìa dinanzi al crudo arcero

345 la fuga vostra? Nel nivoso Ponto?

Per distrugger le nevi il foco ha pronto.

Forse nel ciel? Nel terzo cielo ha impero.

Sotterra, forse, in alcun cavo speco?

Ei come talpa è per seguirvi cieco.

350 Vi andrete forse a por tra gli animali?

E fornito di strai, di lacci e d’arco.

Sott’acqua forse? Ei va di veste scarco.

Nell’aria tra gli augelli? Anch’egli ha l’ali.

Dunque scampar da l’amoroso telo,

355 acqua, aria non vi può, terra né cielo.

 

Il fine del Secondo Atto.



 

[3.1]

Orontea, Adriana, Nutrice.

 

 

ORONTEA

Sgombra, figlia, la nebbia dell’affanno

dall’aria della mente e della faccia.

Tra perché al suo coltor frutto non rende,

e poi per non turbar le tue allegrezze

5 tu stessa a torto.

ADRIANA                    E che allegrezze, madre?

ORONTEA

Le maggiori di quante può donzella

al mondo desiar che fìan radice

in te di contentezza, in noi di speme.

ADRIANA

Pur qual subito lampo d’allegrezza

10 può rilucermi in notte sì profonda?

ORONTEA

Non hai cagion di rallegrarti, figlia,

tra poche ore aspettando le tue nozze?

E che sposa sarai del più gentile,

più bello e forte prencipe che attenda

15 regno in Italia dopo i dì del Padre?

ADRIANA

Qual è cotesto prencipe?

ORONTEA                     Il figliuolo

del re, che a senno suo stringe e allenta

il morso al regno antico de’ Sabini.

Il giovane animoso eri spronato

20 da doppio spron, d’amore e di pietade,

qui giunse,cinto di fiorite squadre

a l’assedio discior da queste mura,

che già per nostro mal disciolto n’era.

Il padre tuo, che pria lettere e messi

25 sopra questo maneggio avea spedito,

conchiuse il maritaggio èri in presenza,

e assicurò da’ suoi nemici il regno,

non die’ la caccia lor, sendo già sera

e da lunga via stanchi i Sabini.

30 Né questa notte entrato nel palagio

sarebbe il re per la celata porta

che nel castel risponde, se ‘l desio

di palesarmi quanto era successo

non ve l’avesse occoltamente tratto.

35 Dove anco stassi e donde uscirà tosto.

Tu piangi? Tu rivolti il viso altrove?

NUTRICE

Esser non può che vergine inesperta

non si scuota e spaventi a questo suono,

e non le paia a prima faccia grave

40 ciò ch’ella ancor non ha provato mai.

ORONTEA

Che rispondi?

ADRIANA  Rispondo, che non posso

risponder se non ho prima licenza

di farlo da colei che mi domanda.

ORONTEA

Hai licenza, rispondi.

ADRIANA                Maritarmi,

45 madre, e signora mia, con pace vostra

 (pesami il dirlo fin sul cor) non voglio.

ORONTEA

E sei osa di dirlo e di mostrarmi?

Né sotterra t’ascondi mille braccia?

Non puoi risponder contra il voler mio,

50 e contra il mio voler disvoler puoi?

Puoi e vuoi ripugnare a’ tuoi maggiori?

ADRIANA

Io non conosco alcun maggior di Dio.

ORONTEA

E che vuoi dir perciò?

ADRIANA                 Che Dio medesmo

sforzar non vuol la volontade altrui,

55 e che né voi sfor zar la mia vorrete,

che mi die’, sua mercè, libera Dio.

E le nozze non hanno effetto dove

non dan gli sposi libero il consenso.

ORONTEA

Noi non vogliam costringerti che vogli,

60 ma che vogli voler.

ADRIANA                         Voler non posso.

Il corpo che da voi, che da mio padre

ricevei, dar potete a chi vi piaccia,

(quando vi piaccia) in preda l’alma, dove

né voi, né d’egli ha parte, né fatica,

65 datami in dono dal Signor di sopra,

non donerete altrui contra mia voglia.

ORONTEA

Se non vuoi che stia l’alma dov’è il corpo,

disgiungerem dal corpo a forza l’alma.

NUTRICE

Figlia, non dir così. Modi sì strani

70 non t’insegnò giamai la tua nutrice.

Buon figlio aver non de’ proprio volere

dove al voler paterno s’attraversa.

Se intelletto non hai, figliuola, credi

a chi n’ha più di te. S’hai intelletto,

75 intendi, che dal padre e dalla madre

vinta nel senno sei, come negli anni.

E che questi ad amar te cominciaro’

pria che tu stessa te medesma amassi.

E però credi che i parenti tuoi

80 sendoti affezzionati e sendo saggi

non ponno errar nel procurarti il bene.

ORONTEA

L’ho udita e a pena alle mie orecchie credo.

La veggio e a pena credo agli occhi miei.

NUTRICE

Temprate l’ira voi, somma reina.

85 Che a poco a poco ella s’andrà avvezzando

a consentirvi. Tra le fiere sono

tratte dagli antri, indomite e silvestri,

che dai vezzi e dai commodi addolcite

con sue lentezze il tempo umilia e doma.

ORONTEA

90 Prendo il savio consiglio che mi dai.

Così prenda costei quel che a lei desti.

NUTRICE

Udite dunque le sue scuse prima,

favellando con lei più quetamente.

ORONTEA

ll farò, purché al fin meco s’accordi,

95 e al mio voler la mente sottoponga,

e all’anel dello sposo offra la mano.

ADRIANA

Se ’n tutta la mia età corsa fin’oggi,

madre, io qual figlia ubbidiente mai

le labra a contradirvi non apersi,

100 ma del vostro voler legge mi feci,

turbar non vi dovrete a questa volta

se al vostro imperio e all’uso mio resisto,

ma con la rimembranza del passato

perdonarmi il presente.

ORONTEA                  Anzi per questo,

105 credo, che non vorrai senza construtto

romper la tua ben nata, antica usanza,

e la perpetua in ubbidir chiarezza

di cui ti vieni ornando a dramma a dramma,

perdere e oscurar così in un punto.

ADRIANA

110 E voi, che madre pia sempre mi foste,

di compiacer tutte mie voglie, vaga,

non vorrete mutarvi oggi in matrigna.

ORONTEA

Rendimi dunque grazie, e dammi il premio

di tanta cortesia che ’n me provasti

115 non ripugnando a quel di ch’or ti prego.

ADRIANA

Torrò dunque marito, con cui debbo

viver fino alla morte, senza averlo

veduto prima?

ORONTEA       Ei fa teco il medesmo:

così l’ubbidienza fìa più grata.

120 Con più sano occhio noi per te il vedemmo.

ADRIANA

Vedesti il volto, e l’animo sta chiuso.

ORONTEA

Tu, dunque, a che volevi averlo visto?

ADRIANA

Sono ancor troppo tenera alle nozze.

ORONTEA

Se sì tenera sei, lasciati dunque

125 facilmente piegar.

ADRIANA                         Son troppo acerba

al maritaggio, dico.

ORONTEA             Acerba certo.

Al maritaggio no, ma al voler nostro.

ADRIANA

Senza voi non saprei senza mio padre

vivere un’ora e uscir di casa vostra

130 non voglio ancor. Né voi sì crudi, credo,

sarete che scacciarmene vogliate.

ORONTEA

A ciò provisto abbiam. Viene il tuo sposo

in casa nostra. In lui tuo padre vuole

por la somma del regno, io in te del tutto.

ADRIANA

135 Madre mia cara, io voglio ancor qualche anno

viver sotto la vostra disciplina

beendo i saggi vostri, almi ricordi.

ORONTEA

Fai ben s’hai cotal animo. Il mio primo

ricordo è che ubbidischi in questo a noi.

ADRIANA

140 Io che del mio fratel morto la imago

lacera ho innanzi, avrò pensier di sposo?

ORONTEA

A punto questa è la cagion, che noi

ti maritiam, per supplir dove ei manca,

perché non resti senza erede il regno.

145 Tu in loco del fratel lo sposo acquisti.

Il genero abbiam noi del figlio in vece.

ADRIANA

Disubbidir non voglio al gran precetto

ch’egli mi diè nel passo estremo, voglio

chi mi darà l’anel, la testa prima

150 mi dia quel che ’l mio germano uccise.

ORONTEA

Non ti metter pensier, ch’egli è per farlo

e perché tu il disponghi, or fìan le nozze.

ADRIANA

Vo pria piangere un anno il mio fratello.

ORONTEA

Stato è pianto abbastanza dalle piaghe

155 de’ suoi nemici in lagrime sanguigne.

Pur se piangerlo vuoi, piangi anco sposa.

Il che tanto farai più di cor quanto

ti veggia collocata mal tuo grado.

Fra un anno sarai gravida d’un figlio

160 onde forse uscirà l’alta vendetta

contra tutto ’l paese de’ Latini.

E questo dal fratel fìa più gradito

che le lagrime tue sterili e vane.

ADRIANA

Dunque, or tutta s’accoglie in me la guerra?

ORONTEA

165 Anzi tutta la speme dello stato.

ADRIANA

Perché non aspettiam che s’oda intorno

che colui che sarà genero vostro

Re sarà ancor di questo nobil regno?

Che forse appariran più alte nozze.

ORONTEA

170 Affrettiamo il locarti anzi per questo.

Che molti non di te, ma del tuo regno

innamorati non vengano a gara

a chiederti. E noi dar non ti potendo

fuor che ad un sol, non siamo astretti agli altri

175 dar ripulsa e non ci tiriamo adosso

l’odio di tutti i prencipi vicini.

Né vogliam che di noi più alta vadi,

né di te stessa. Può cader chi sale.

E il re de’ prima perder la corona

180 che romper la sua fede.

ADRIANA Io già non sono

tenuta ad osservar le sue promesse.

ORONTEA

L’erede che aver vuol l’ereditade,

le promesse osservar del padron deve.

ADRIANA

Lasciate almen ch’io mi riabbia alquanto

185 dal dolor del fratel, che ancor mi preme.

Né sì languida e brutta alcun mi veggia.

ORONTEA

Anzi, per iscusar la tua bruttezza,

il fresco affanno tuo verrà opportuno.

ADRIANA

Concedetemi almen termine breve

190 a pensarvi a dispormi.

ORONTEA                    Ogni consiglio

di noi donne improviso è assai migliore

se non quel ch’ora hai tu. Poi qui condotto

e il prencipe adescato a questa speme

(e quel ch’è più) tra noi con l’arme in mano.

195 Ora ritratterem quanto si è fatto?

Ora direm che la figliuola nostra

non vuol con nostro e suo disnor? Che noi

non possiamo voler se non vuol ella?

Così di guerra in guerra andrem cadendo?

ADRIANA

200 Io dunque son la vittima che deve

tosto cader per l’acquistata pace.

Ma se non val ragion, vagliano i preghi.

ORONTEA

Se vuoi che ’l prego tuo meco abbia forza,

che non l’han teco i miei che poi fur primi?

205 Ma per me ti darei qual ti piacesse,

quando fosse anco il figlio di Merenzio

(benché so che nol vuoi, che l’odii a morte),

ma il tuo padre e signore (a quel ch’io stimo)

vorrà che a senno suo, non che a tuo facci.

210 Ed ecco a punto ch’egli esce col mago

(che ersera entrò con lui per consolarlo).

A lui ti volgi e lui medesmo ascolta.

 

 



[3.2]

Atrio, Adriana, Orontea, Mago.

 

 

ATRIO

Credo, Adriana, ch’abbi già raccolto

dalla reina quanto abbiam disposto

di te. Che sai che vigiliamo ogn’ora

sovra il tuo ben con attentissimi occhi.

5 Resta che ti disponghi e ti apparecchi

alle tue nozze. E levi al ciel le mani.

Che né tu, né d’alcun di te più saggio

né con man, né con lingua, né con mente

saputo avrebbe fingerti uno sposo

10 miglior di quel che noi t’abbiamo eletto,

che a te giungersi e a noi succeder merta.

Che veggio? Piangi forse? Che ti affligge?

Di che sospiri? A chi dich’io? Rispondi.

Non vorrai quel che vuole il re, e tuo padre,

15 e la tua genitrice, e ’l tuo germano

(benché già morto) e tutto il regno insieme?

ADRIANA

Questo mai non vorrò, padre, e da questo in-

fuor, non vi negherò cosa altra mai.

ATRIO

Sei Adriana, o sei un mostro, o sei

20 uno spirto, o una furia dell’abisso?

Tu non vuoi? A voler ti sforzeremo.

ADRIANA

Sforzato esser non può chi sa morire.

ATRIO

Tu morrai.

ADRIANA Girò incontro a mio fratello.

ATRIO

Qual mano mi ritien da stringer’ora

25 la giusta spada e scioglierti dal busto

quel capo onde già sciolto è lo intelletto?

Che porta quella lingua audace e degna

che dopo sì profana empia parola

non pronunzii mai più parola alcuna?

30 Tu, tu, figlia, proterva, avesti ardire

al reale, al paterno imperio opporti?

Se di tua madre il casto animo noto

non mi fosse (ascoltando quel che dici)

giurerei che non fossi mia figliuola.

35 Ah sfacciata, impudica.

ORONTEA                   Moderate

l’ira, signor, ch’ella sarà contenta

di quanto a voi fìa a grado. Il so ben’ io.

Alla inesperienza verginale

e al dolor del fratel date perdono.

ATRIO

40 Donzella che ritrosa alle sue nozze

troppo si rende, per pietà nol face.

Ma per pensiero immondo ascoso in seno

che non osa mirar la luce in faccia.

ORONTEA

Al voler nostro e al giogo maritale

45 pentita del suo error piegherà il collo.

ATRIO

O a giogo maritale o a mortal colpo.

Stai fissa ancor ne la pazzia di prima?

ADRIANA

Padre, voi ben potete trar la spada

e quella per li fianchi e per lo petto

50 mille volte passarmi ritogliendo

la vita che mi deste, ch’io umile

starommi e ubbidiente a’ colpi vostri.

Ma la mente invisibile, immortale,

a cui fren non può por forza né ingegno,

55 né con foco potrete, né con ferro

vincer né ritener. D’ogni supplizio

avete potestà su questo corpo

generato da voi, da voi prodotto.

Su l’alma no. Però canchiudo, ch’io

60 porger più tosto eleggo il collo al ferro

micidial che alle braccia dello sposo.

ATRIO

Non m’impedir che per coteste chiome

prenda questa megera e di mia mano

sacrificio ne faccia ad Imeneo.

MAGO

65 Fermisi vostra maestà, signore,

che star giunti non ponno il regno e l’ira.

Poi che ’l regno è una giusta signoria,

et una ingiusta servitute è l’ira.

ATRIO

Può esser ch’ieri e oggi i mei figliuoli

70 (anzi non mei, ché regger non li posso)

lega a disubidirmi abbiano fatto?

E ch’esser di tai figli io voglia padre?

Esser può che tu sii prima sì ardita

che ardisca dirlo, e poi sì pertinace

75 che perseveri ancor nel tuo parere?

Né di vergogna il tuo viso s’accenda,

nè la tua lingua di timor s’agghiacci?

Che sprezzi quella forza e quello sdegno

che paventa ciascun di questo stato?

80 E di chiamar colui per padre ardisca

a cui tu neghi esser figliuola? Spento

sia il seme di tai figlie. Io vo più tosto

sentir la doglia della vostra morte

che l’odio della vostra ingrata vita.

MAGO

85 Figlia, abbiate di voi stessa pietade.

ATRIO

Quest’è la somma. Io torno nel palagio

per passar nel castello e indi uscire

per la porta ond’io venni, e giunti in campo

dividere egualmente tra’ soldati

90 le guadagnate spoglie de’ nemici.

Poi col prencipe sposo darò volta

nella cittade a celebrar le nozze.

E (testimonii siate voi) ti giuro

per questa sacra e coronata testa,

95 per questa invitta mia, vindice destra,

che se di ripugnanza o di tristezza

in un minimo accento, un minim’ atto

mostri un sol segno, io lascierò un essempio

a tutti i padri e a tutte le figliuole

100 perverse come tu gravi, com’io

a quei di farsi riverire e a queste

di riverirli, sì spietato e chiaro

ch’ogni etade, ogni istoria, ogni linguaggio

abbia di che parlar, di che stupirsi.

105 E d’Eolo, e d’Atamante, e di Saturno

mi mostrerò più crudo. Sappi certo

ch’io voglio quel che voglio perché è giusto.

E voglio quel che voglio perché voglio.

E pensa di corcarti questa notte

110 nel letto maritale o nel sepolcro.

ORONTEA

Non ve ne andate voi di grazia, oh saggio

mago, e gran secretario delli dei,

ma restando provate a questa sciocca

persuader con vostri dotti avisi

115 e celesti ricordi il proprio bene.

ATRIO

Restate, poi che alla reina piace.

MAGO

Farò per farlo ogni possibil’opra.

ORONTEA

Andiamo dentro, tu nutrice e voi

amiche donne. Voi, signor, restate

120 qui con costei. Tu, figlia, resta e ascolta

quest’uom, ché l’ascoltarlo sempre giova.





[3.3]

Mago, Adriana.

 

MAGO

Oh signora, io veggio ben che la Fortuna

cominciato non ha per istancarsi

a pungervi e piagarvi d’ogni parte.

Di quel che più bramate esservi parca

5 e prodiga di quel ch’avete a schivo.

Benché non so se la Fortuna, o voi,

più valor mostri e più costanza serbi.

Che vi pare or ch’io faccia? Ch’io v’essorti

a novo maritaggio o ch’io m’assida

10 a sospirar con voi? Che rispondete?

ADRIANA

Che volete, signor, che vi risponda,

se non che quando una di noi ci nasce,

se le devrebbe far del proprio sangue

il primo bagno e culla del feretro?

15 Che posso dir, se non dolermi al cielo

dello infelice stato di noi donne

e invitar tutte in suon flebile unito

a pianger meco le miserie nostre?

Che cessiam dunque, oh donne, d’accordarci

20 a pianger tutte insieme i nostri mali?

Di pigliarci per mano e disgombrando

il mondo parzial, di noi dolenti

correre ad affogarci in mezo all’acque?

E che vogliam far qui tra padri duri,

25 tra crude madri, fra infedeli amanti,

fra sposi alteri, tra tiranni ingiusti,

tra gli uomini, mortali a noi nemici?

MAGO

E ’n qual profondo mar le vele vostre

portar lasciate ai venti dello sdegno?

30 Or non sapete voi che la virtute

da’ contrarii agitata mei’ si scopre?

Non sapete che odor soave e grato

rendono allora gli arbori odorati

quando soffian tra lor contrarii venti?

35 Tempo non v’è da spendere in querele.

Discorriam dunque chetamente il tutto

e veggiam se rimedio vi si trova.

ADRIANA

E qual consiglio o qual rimedio a questo

si può trovar, se nol trovate voi?

40 Far sapere a Latino i gran travagli

di cui sorte improvisa or mi circonda

qual fiera cinta d’arrabbiati cani

(con lui partita ogni ventura mia)

non possiam che per farlo, uopo è di tempo.

45 Impetrar tempo non si può. Tentato

ho questo prima con ripulse aperte

e preghi simulati. E questi e quelle

riuscitemi son d’effetto vòte.

La madre, il padre fier (se però padre,

50 se madre denno dirsi aspri nemici)

voglion che questa sera i’ chiuda gli occhi

nella morte o nel prendere il marito.

Che ’l breve spazio di tre giorni soli

comprerei con tre anni di mia vita.

55 Essere a colui sposa io non consento.

E tutto trarmi dalle vene il sangue

pria lascierei che questo sì di bocca.

Qual , qual cor darei a lui, se dato

l’ho già a Latino? Come potrei farmi

60 sua, se mia più non son, ma tutta d’altri?

Colui meco giacendo, giacerebbe

con un cadaver puro o un fier nemico.

Lasciar lo mio signor, né vo, né posso.

Posso e voglio lasciar prima la vista,

65 anzi la vita, che sol vive e nacque

per esser cara a lui, da lui goduta.

Ben si dorrebbe, e giustamente, ch’io

tanto della sua fé temuto avessi

e la mia poi sì tosto avessi rotto.

70 Come colui che navica, a cui sembra

che parta il lido stabile e part’egli.

Anzi il giudicio in sé, li dei giurati

da me, torrebbon con giusto gastigo

facendomi provar che alcun non deve

75 più tema aver d’uom che delli dei.

Scoprirlo al padre è vano. E chi non vede

ch’ei vorrà prima ch’io di fede manchi

che mancarn’egli? Ma facciam che voglia.

Quand’egli intenda poi qual io m’elessi,

80 non leverà da farlo ogni pensero?

Ma quando balenasse anco speranza

che volesse mancar di fede il padre

e giunger mi volesse a un suo nemico,

chi terrebbe giamai sì grande ardire

85 e sì picciol pensier di sua salute

che portasse a mio padre annunzio tale?

Alla madre scoprirlo fòra peggio.

Di tanto sdegno sta infiammata contra

chi la spoglia dell’unico figliuolo

90 che pietose appo lei Progne e Medea

potrebbon dirsi. E ancor Tigre a cui abbia

veloce cacciator rubato i figli.

Nascondermi o fuggir non m’è concesso.

Quanto più alto è il grado ov’or mi trovo,

95 tanto vista e notata meglio sono,

come cittade in alto poggio assisa.

Prender lo sposo che mi dà mio padre

per farne strazio poi la prima notte,

(come di Danao fer le ardite figlie,

100 riempiendo io tra lor lo scemo loco)

troppo apporta periglio e troppo danno.

Che prima ch’io levassi a lui la vita,

egli levato avrebbe a me l’onore.

L’onor che al mio signor solo conservo.

105 Dissuader colui dalle mie nozze

potrei sperar quand’io non fossi erede

di questo ricco e bellicoso regno.

Ma il mio regno medesmo or mi fa guerra.

Che si de’ dunque far? Voi, mio gran mastro,

110 che alta scienza, esperienza somma

nelle divine e umane cose avete,

e avete potestà di parlar meco

d’ogni afflitto speranza e aiuto certo.

Voi che del nostro amor principio, e mezo

115 foste, voi cui Latino mi commise

ch’io ricorressi in ogni mio bisogno

per l’amicizia candida e tenace

che con l’amante mio giunta tenete,

per quella confidenza ch’egli ha in voi,

120 per quella riverenza ch’io vi porto,

per liberar dall’ira acre del padre,

dalle rapaci man del novo sposo,

dallo sprezzar la fede altrui giurata,

dal perder l’onestade altrui dovuta

125 o da morte e da inferno una donzella,

figlia d’un re, d’un vostro amico sposa,

a voi raccomandata, a voi ancella,

amante sì fedel, sì giovanetta,

lungi dal suo amator, del fratel priva,

130 dal padre e dalla madre abbandonata,

che non sa, che non vuol volgersi altrove:

tentate, aprite, imaginate modo

di darmi alcun soccorso, il qual s’io vile

femina a riconoscer non son atta,

135 riconosciuto fìa dal mio Latino

cui la vita due volte avrete dato,

la mia e la sua che nella mia si vive.

Deh non v’incresca farlo, poi che l’uno

prender de’ duo partiti mi bisogna,

140 o che mi diate voi presto consiglio,

o ch’io morte prestissima mi dia.

MAGO

Coteste vostre lagrime con voi

movonmi a lagrimar. Né ciò ricuso.

Quando più onesto è il pianto che spargiamo

145 nelle miserie altrui che nelle nostre.

Ma in tanta angustia e inopia di partiti

riprovati da voi, struggomi dentro

di voglia e d’impotenza d’aiutarvi.

Meco discorro, e cerco, e trovo questo

150 solo, che nulla trovo.

ADRIANA                     Io so, signore,

che il saper vostro è tanto, che al ciel poggia,

sotterra scende, e l’aria e l’onde abbraccia,

e mi potete aitar. Pur quando d’altro

non vogliate aiutarmi, almen vi prego

155 che una mi diate, o due di tosco dramme

che di nettare invece eterne saranno.

Quel che a’ dannati è pena, a me sia grazia.

Di questo ho somma sete e vi prometto

render del mortal don grazie immortali.

160 Perché con men mio carco, men dolore

del mio Latino, con maggior prestezza

e con minore strepito i’ mi sciolga

dalla vita, dal duolo e dalle nozze.

Altramente, so ben quel ch’io disegno.

165 Divenuta crudel contra me stessa

con maggior biasmo mio, maggior sua doglia

nel mio petto (mercè la pronta mano)

convertirò l’inessorabil ferro.

E vedrò se mio padre sarà buono

170 per darmi, mal mio grado, oggi marito.

MAGO

Voi già mi sconguiraste per tai cose

(che tale amor porto a Latino e tale

ad Adriana, e con sì forti nodi

legano i dolci preghi un cor gentile)

175 che grazia alcuna a voi negar non posso.

Pregovi ben che ciò resti sepolto

in profondo silenzio e ’n alto oblio.

Onde la mia pietà non sia com’acqua,

che gli altri monda e se medesma tinge.

ADRIANA

180 Datemi pur questo velen che questa

la via proprio sarà d’assicurarvi

che ciò non s’abbia a risaper.

MAGO                               Veleno

non vi darò già io, ché s’io ve ‘l dessi,

degno i’ sarei di berlo poi. Ma intenta

185 l’orecchie e ‘l cor prestate al mio consiglio,

io vi darò una polve che mi diede

di sua man propria il sonno allora quando

io visitai le sue cimerie case,

piena di inestimabile virtute.

190 Questa beendo voi con l’acqua cruda

darà principio a lavorar fra un poco.

E vi addormenterà sì immota e fissa,

e d’ogni senso renderà sì priva:

il calor naturale, il color vivo

195 e lo spirar vi torrà sì, sì ’i polsi,

(in cui è il testimonio della vita)

immobili staran senza dar colpo

che alcun per dotto fisico che sia

non potrà giudicarvi altro che morta.

200 e io che lo saprò ne starò in dubbio.

E tante ore starete così, quanta

fia stata la misura della polve.

Ecco l’arca real là fuor del tempio,

dove i defonti della casa vostra

205 composti son dal fratel vostro in fuori.

Per morta in questa vi porran. Ma dite,

non prenderavvi orror di tanti morti?

ADRIANA

Se questa via dee darmi al mio Latino,

non per l’arche passar fra i corpi morti,

210 ma tra l’alme dannate per l’inferno,

non mi spaventerei. Seguite pure.

MAGO

Frattanto manderem fidato messo

occoltamente in fretta al vostro amante

che poco ancor da noi lontan camina

215 con lettere secrete ad avvisarlo

di tutto ’l fatto. Il qual senza dimora

a dietro l’orme rivolgendo, tosto

sarà qui giunto, ed egli o (se fìa tardo

alquanto) io vi trarrò de l’arca fuori.

220 E travestita andrete fuor con esso.

E così nella morte e nel sepolcro

la vita troverete e il maritaggio.

Così l’ira paterna fuggirete,

le odiate nozze e con pietà commune

225 senza alcun biasmo, senza alcun periglio

lieta cadrete al vostro amante in mano.

ADRIANA

Trovar non si potea strada migliore.

Né di voi sperar altro si doveva.

Né d’altro da me credersi era giusto.

MAGO

230 Ecco la polve ch’io vo darvi, tanta

vi farà morta star ben sedici ore.

E sedici ore ben sono abbastanza.

Prendete e fate com’io dissi.

ADRIANA                          Intanto

non vi si scordi che ne vada il messo

235 perché n’abbia il mio amante avviso tosto.

Oh virtuosa polve, fammi lieta.

Fa’ che’n polve non vada il mio disegno.

Chi di me fìa più fortunata in terra?

Signore, odi il mio prego e l’essaudisci.

240 Mirerò mai più lieta il mio Latino?

MAGO

Entrate in casa, io dirò a queste donne

che a punto ad incontrami or escon fuori,

che disposta venite a queste nozze.

Donne, fornite il nobile apparecchio

245 de le beate nozze e ’n chiaro grido

invocate Imeneo, poiché placata

vien la novella sposa al suo marito.

 

 

CORO

Specchio del dì, foco celeste e sacro

al lido occidental porta la faccia

250 spronando col desio nostro il camino

e nel salso del mare, ampio lavacro,

tu la tua Teti in dolci nodi abbraccia

e la sua sposa il prencipe Sabino.

Prolunga il matutino,

255 pensa stringer la ninfa tra le braccia,

di cui mutata i rami,or ti consacro.

Fa’ vendetta di Clizia, ch’ella tardi

più dell’usato il tuo bel viso guardi.

E tu s’a riscaldarti il freddo seno,

260 Cinzia, entrar mai d’amor fiamme cocenti

da i Lammii o da i Menalii sassi scosse,

nel teatro del ciel puro e sereno

scopri veloce i tuoi forbiti argenti,

tra le compagne in folta squadra mosse.

265 Tu, figlia di Minosse,

de l’aureo cerchio tuo, di rai lucenti

(come d’ogni virtute il capo ha pieno)

cingi alla sposa nostra oggi le chiome.

Così dato le avrai la gloria e ‘l nome.

270 Tu, ciel, comincia accender le tue stelle.

Tu, terra, a gara alluma olivo e cera

portando i cigni quel, questa le pecchie.

Sicché, se’n terra o in ciel di più fiammelle

splenda, non sappia pur la stessa sera

275 che fuor d’ogni uso attonita si specchie.

Il tutto or s’apparecchie

che poi su per li tetti a schiera a schiera

le lucerne comparse e le facelle

della notte squarciando il fosco velo,

280 emule sian dello stellato cielo

vieni agli sposi e tu, notte beatrice,

lunga traendo al trappassar dimora

sul tuo stellato carro trionfando.

Vieni, poiché saper sola a te lice

285 de’ lor diletti onesti il tempo e l’ora.

E come l’ape i fior va depredando,

tu va, saggia, adunando

da’ bei lumi onde ’l ciel tutto s’indora,

ogni influsso più prospero e felice.

290 Poi tutti insieme accolti, eletti e novi

sopra i duo sposi a man piene li piovi.

Tu le mani intrecciato e ’l viso cinto

della tua casta, immaculata face,

vieni, è grato e legitimo Imeneo.

295 Del grazioso giogo il collo avvinto

che ’n duo corpi una sola anima face

lasciando il chiaro vetro Pegaseo.

Voi che al pastore Ascreo,

dotte sorelle, apriste ingegno audace.

300 E tu, Febo, sgombrando EurotaCinto,

portate a queste nozze il suono e ’l canto,

cantate degli sposi il doppio vanto.

Vieni del sommo re moglie e sorella,

che hai regno sopra i geniali letti

305 con Lucina dipinta di pietate,

portando di tua man le caste anella.

Che insegnino a goder casti diletti

sulle esperide piante, a nel ciel nate:

con gemme sì pregiate

310 che ’l lor pregio la sposa in modo alletti

e le dita, anzi ’l cor le stringa, ch’ella

in vece di tai gioie non si aggrave

dar la più cara e ricca gioia che ave.

E tu, Prometeo, al lume eterno ascendi

315 e avvicinando a quel l’audace verga

del divin foco aver semi procura

e a questi sposi poi le facci accendi.

Tu, segno amato, in cui allora alberga

il Sol che ‘l Capricorno più non cura

320 (accioché un’acqua pura

s’appresenti agli sposi e ’n lor s’asperga)

con pace del tuo amante a noi discendi.

E dell’acque che stan su ’l fermamento

giunte in ghiaccio, empi pria l’urna d’argento.

325 Voi, dive, a queste nozze venite anco

che attorceste gli stami altrui vitali

e col fuso adduceste un sì bel sole.

Ornate questo dì d’un velo bianco

e trame apparecchiate auree immortali

330 per quando giunga la bramata prole.

Lo sposo omai si duole,

Espro, di te che innanzi al giorno salì,

né di correre ancor ti mostri stanco.

Rimanti al sol da tergo, accioché come

335 tu muti, muti la donzella il nome.

 

Il fine del Terzo Atto.





[4.1]

Messo, Coro.

 

 

MESSO

Chiaro occhio del ciel, che non ti ammanti

d’una pallida ecclissi e tenebrosa

sendo ecclissati i bei lumi onde avevi

la luce come l’ha da te la luna?

5 Né più potendo tu co’ raggi tuoi

cosa mostrarne che ne piaccia al mondo?

Mentre nell’aere circosparso appesa

Penderai, piangi, oh terra, che prodotto

hai la mortifer’erba, il fier veleno

10 che ha dato morte alla real donzella.

Non rendete più grazie al sol nascente,

erbe, il mattin com’è costume vostro.

Poi che alcuna di voi virtù non ebbe

d’essaudir nostri voti e sanar lei.

CORO

15 Ahi, che voce si sente

dietro a noi sì dolente?

MESSO

Ah donne ingrate, e più che marmi dure

(che questi almen tacendo mostran segno

di pensier, di dolor, di meraviglia)

20 che fatte di cotesti accenti lieti

da queste porte mille miglia e mille

banditi eternamente? È questo quello

amor che al re portate e alla figliuola?

CORO

Perché contra ragion così ne incolpi,

25 messo gentil? Palesa ancora a noi

quale improviso, insolito accidente

in sì questa bonaccia

della gioia real turba la faccia.

MESSO

Voi dunque qui cantate e non sapete

30 il pianto ancor che si fa dentro?

CORO                                             Nulla

sappiam di ciò. Deh non t’incresca dirlo.

MESSO

Dirò, se dai singhiozzi e dai sospiri

della voce il camin non m’è interchiuso.

CORO

Come al giorno la notte è ogn’or vicina,

35 così col riso il pianto ogn’or confina.

MESSO

Dopo il secreto ragionar contesto

fra il gran mago e la vergine reale,

poi ch’ella nel palagio, esso andò al Tempio,

le donne ornate di letizia il volto

40 ruppero dentro e accelerando i passi

all’antica reina rapportaro

come la figlia, inespugnabil pria,

con accorto consiglio arresa s’era.

E rotto il duro suo primo proposto

45 alle aborrite nozze era discesa.

CORO

E fu pur ver, se ’l vero egli ne disse.

MESSO

Del che lieta Orontea tosto si trasse

a recitarlo al re che d’ira acceso

contra la pertinacia della figlia,

50 da questi tetti ancor non era uscito

della cittade a gran negocii intento.

Mentre assisa col re stava Orontea,

mosse Adriana: e innanzi a lor comparsa

in supplie sembiante e ’n gesto umile,

55 cader lasciossi riverente a terra

a piè de’ gran parenti, e ’n lor figendo

gli occhi, sciolse la lingua a queste note:

“Oh genitori mei, con l’ostinata

durezza onde mi cinsi il cor d’intorno,

60 se pur v’offersi (che vi offersi certo)

pentita del mio error, conoscitrice,

in colpa me ne do con questi colpi

che la man nuda al petto nudo imprime.

 (E ciò dicendo percoteasi il petto)

65 E d’avervi noiato ho maggior noia

che non aveste voi del mio noiarvi.

E più digiuna della pace vostra

son che non sète voi delle mie nozze.

E quinci mai non sorgerò, se voi

70 sovra la testa mia non ispargete

del bramato perdon l’alma rugiada.

Che s’egli avvien, che chiave avara questo

sospirato tesor mi neghi e chiuda,

mi parrà che fuggendone Imeneo

75 alle mie infauste e sfortunate nozze

col velenoso crin, megera sieda.

E trattone il dì d’oggi, vi prometto

che mai più non udrete questa lingua

levarsi contra voi, né questo core”.

CORO

80 Parole da spezzare un cor di marmo.

MESSO

Di tenerezza lacrimando allora

i genitori suoi l’alzar da terra.

Quei per la destra man, questa per l’altra.

E stampandole doppio bacio in fronte

85 e influendo in lei grato perdono,

al primo seggio della grazia loro,

commendandola assai, la ritornaro’.

CORO

O corrisponda al bel principio il fine

e grato vento in grembo all’onde morte

90 col tuo dolor la tema nostra porte.

MESSO

Ciò fatto, comandò la bella sposa

che se le apparecchiasse un fresco bagno

soavissimamente temperato,

in cui lavata e d’odor vari sparsa

95 (per non contaminar le nozze sue)

si rivestì d’un manto che’n bianchezza

giostrar potea col latte o con la neve.

E poi che l’aureo crine in aurea rete

con maestrevol cerchio ebbe ritorto

100 e dallo specchio suo preso consiglio,

già tutta ardendo nelle proprie gemme

e coronata delle sue donzelle,

entrò nel bel giardino, e con gioiosa

che parea proprio innamorata mano,

105 andò cogliendo i più ridenti fiori,

le più vaghe erbe e le più care fronde,

e se n’empìo le man, se n’empìo il grembo.

E poi se ne tessé nobil ghirlanda,

a composti capei soave peso.

110 Onde parca l’augello orientale

che’n grembo ad odorate, elette fronde

del propinquo morir l’annunzio aspetti.

O l’incauta Proserpina, allor ch’ella

della Siciglia nel fiorito seno

115 dal notturno amator rapir si vide.

CORO

Non è già questa ancor trista novella,

ma tristo e pien d’antiveduti guai

è ben l’augurio, oh messo, che ne fai.

MESSO

Tornata dal giardino alla sua stanza,

120 tosto ch’ebbe in affetto ogni sua cosa

assisa sopra il letto, ad una ad una

abbracciar volse le donzelle sue.

E con parole affettuose e vive,

che con tacita forza dalle luci

125 altrui spiccavan liquidi cristalli,

ringraziò tutte degli ufficii loro

che avean d’intorno a lei fin’allor fatto.

Le sue parole e gli altrui merti ornando

vi varii premii, dispensati in giro,

130 dicendo: “Quel c’oggi sposar mi deve,

non vorrà forse da mei preghi addotto

qui soggiornar. Né voi forse verrete

meco là, dove andar bramo e disegno

per la sorte che qui sempre m’afflisse.

135 E Dio sa se mai più di rivedervi

impetrerò dalle venture mie”.

Poi comandò che tutta la famiglia

delle sue serve s’accogliesse altrove

e chiudesson le porte e le finestre

140 della sua stanza. Però ch’ella stanca

dalla vigilia della notte adietro

lacrimata da lei sopra il fratello,

con un breve riposo in braccio al molle

suo letto si volea prender ristauro

145 regnando il maggior sol nel cor del cielo.

CORO

Oh non questo riposo

grave travaglio adduca,

e sì buon seme rio frutto produca.

MESSO

Uscendo queste, alla nutrice impose

150 che le recasse un vaso d’acqua fresca

per mitigar la sua fervida sete

pria che al sonno vicin si desse in preda.

La buona vecchia, ubbidiente e presta,

con effetto rispose alle parole.

155 E presentòle una gran coppa d’acqua

la qual brillava ancor nella freschezza

portata dalla sua natural vena.

E sembrava stemprato e puro argento,

ed empiva la tazza insino al labro.

160 Con ambe man la giovane la prese

e mandò la nutrice in tanto a torno

al bel letto a tirar l’usata nube

che quei ch’entro vi son tranquilla e adombra.

E con avidi sorsi il liquor tutto

165 beendo, al vaso apparir fece il fondo.

Poi favellò: “(S’io posso) mal mio grado,

padre, non mi darete oggi marito”.

La nutrice or comprende queste voci

che ne è verace interprete il successo,

170 ma già non le comprese allora, quando

era più di comprenderle bisogno.

E uscita anch’ella fuor, la stanza chiuse,

dove in mezo alle tenebre ivitate

Adriana restò sul letto sola.

CORO

175 Guardane, oh Dio, di male

(benché avvenuto è il mal che avvenir deve),

o s’egli è troppo greve,

rendilo almanco breve,

o se pur lungo, almen facile e lève.

MESSO

180 Lunga stagion le damigelle fuori

stetter, pur aspettando che la bella

sposa riscossa dal soave oblio

a sé le richiamasse. Ma poi ch’elle

si furo’ accorte lei non risvegliarsi,

185 e a gran passo ire il dì verso la sera,

sparrati gli usci, entraro, e (oh pietosa

vista da far sentir le sue dolcezze

nelle fiere, negli arbori e ne’ sassi)

la giovane real, la nova sposa

190 sul suo letto trovar distesa e morta.

CORO

Ahimè, messo, che reciti?

MESSO                           Le foglie

della Sibilla. Quel che né tacere

posso, né raccontar con giuste note.

CORO

E donde questa inaspettata morte

195 nasce alla mia signora?

MESSO                                     La cagione

dicavi chi la sa. Dirvi l’effetto

a me sol basta.

CORO          Pur, che si sospetta?

MESSO

Ciascun sospetta (e ‘l sospettar non falle)

ch’ella avesse il velen già preparato

200 a darle in sonno non sentita morte.

La sete e ‘l sonno a studio simulasse

e del succo letal condisse l’acqua,

portata a lei dalla nutrice mentre

in altri ufficii l’occupava e poi,

205 l’avvelenato calice votando,

cagionasse ella stessa il suo morire

per non si maritar contra sua voglia.

CORO

Oh misera donzella,

come miseramente la beltade

210 e la tua verde etade

perdesti. E questa e quella

come rosa novella

che da raggi del sol percossa langue,

rimane estinta, in te rimasa essangue.

215 Ma segui e dinne, messagier cortese,

in che gesto corcata la trovaro.

MESSO

Da’ panni era coperta infino a’ piedi.

Le belle man s’avea composto al petto

con le dita incrocciate. Il volto vòlto

220 al ciel tenea. Ne’ suoi chiusi occhi morte

sembrava trionfar, divenir bella.

Come prima di fior cinto avea il capo

su un origlier soavemente posto

e tal si dimostrava nell’aspetto

225 che viva addormentata ancor parea.

CORO

Oh vergine infelice,

che ti sostieni in piè tra tante noie

e cadi all’apparir delle tue gioie.

MESSO

Tutte le squadre delle sue donzelle,

230 tinte la faccia d’un color di terra

e d’un liquor’ onesto di pietate,

del letto ai fianchi e alle fronti avvolte,

da poi che con la voce e con le mani

tentar di richiamarla a questa luce

235 e si videro al fin non essaudite,

dier nelle strida, e somigliaro’ i venti

quando nel carcer lor chiusi e compressi

tra sé stessi gemendo in tuon discorde

fremon d’intorno ai chiostri e accolto sforzo

240 metton per farsi spaziosa uscita.

Surse e si sparse per l’ampio palagio

un vario pianto al cui crescente suono

corse Orontea. Corse il re Atrio, e udita

e vista la cagion, gli accrebber forza.

245 Non giunse a voi? E cominciar lamenti

da intenerir l’orror del freddo e duro

Caucaso, e del sassoso irsuto Atlante.

CORO

Ben avevi ragion, messo gentile,

di lamentarti in sì doglioso stile.

250 Ma il nostro giunger tardi alla tristezza,

contrapesato fin dalla gravezza.

MESSO

Deh, che voi non avete udito nulla,

restami ancor a dir la maggior parte.

Ma già la notte all’orizonte sale

255 e d’ogni intorno il vel bruno dispiega,

e dove il re mi manda, andar conviemmi.

CORO

E dove ti mand’egli, se tu giunga

a tempo ove t’invii, nunzio fedele?

MESSO

Disse che per veder se la figliuola

260 pur risorgesse, io mi fermassi un’ora

(che mentre con voi parlo è già passata),

poi (s’altro avviso non intendo) vuole

ch’io vada al tempio a dar contezza al mago

del frutto che han prodotto i suoi ricordi.

265 E ch’ei venga con gli altri sacerdoti

in apparato publico e solenne

come la notte abbia sepolto il giorno

a celebrar l’essequie d’Adriana.

Poi esco dalle mura incontro al novo

270 sposo, figlio del re Sabino, e a nome

nostro lo avviso, com’egli non ave

qui più che far, che può tornarsi a dietro

s’a parte esser non vuol de’ nostri guai.

Poi, per comission della nutrice

275 più là si stende ancora il mio viaggio.

CORO

Deh, dillo ancor’ a noi, se ti si presti

Cinzia nel tuo camin fida compagna.

MESSO

Vuol costei ch’io rompendo ogni dimora,

tosto raggiunga il prencipe Latino,

280 il qual da noi ancor poco lontano

conduce in Lazio le sue vinte squadre.

E trattolo in disparte il mesto occaso

gli annunzii della misera Adriana.

Perché non so. Né di saper mi cale,

285 poi ch’ella il ricercarlo m’interdice.

Ma lei vedete appunto sulla porta.

Udirete da lei quel che m’avanza.

CORO

Va col favor del ciel, messo cortese.



 

 

[4.2]

Nutrice, Coro.



NUTRICE

Afflitta d’ascoltar, sazia di udire,

dentro gli strani strazii e l’aspre strida

esco fuori a dolermi d’Adriana.

Ah figliuola crudel, se erario fido

5 de’ tuoi secreti m’eleggesti prima,

perché mi nascondesti or questo solo?

Se in ogni tuo viaggio mi menasti

compagna teco, perché ’n questo estremo

sola n’andasti e mi lasciasti sola?

10 Temesti che negar ciò ti potessi?

Non sapevi che più dovea spiacermi

il viver senza te che ‘l morir teco?

Temesti che seguir non ti potessi?

Qui s’aveva a lasciar la scorza grave

15 sotto ’l fascio degli anni afflitta e stanca.

Quando in abbracciar l’altre me abbracciasti

ancor, perché non dirmi nell’orecchio:

“Nutrice, oggi morrò, seguimi tosto”?

E della tua bevanda farmi parte

20 come a ogni altra cosa far solevi?

Ma, che risponderò, lassa, a colui

che mi ti lasciò in grembo tramortita

al suo partir, quand’ei mi ridomandi

il deposito suo? Dirò ch’io stessa

25 via l’ho gittato e aspetterò la pena,

e per pena la morte. Benché morte

(se questa ha da condurmi ove tu sei)

pena non mi sarà, ma grazia immensa.

Voi, scelerate man, voi foste quelle

30 che a fin metteste l’essacrabil opra

porgendo a quelle labra il vaso (donde

uscì spietata e dolorosa morte)

cui già porgeste gli alimenti primi.

Io quella, io quella fui che dissi: “Bevi

35 figliuola, bevi”. E tu figliuola, fosti

quella così inumana che volesti

che chi già dato il nutritivo umore

t’avea ti desse poi l’acqua mortale.

Io dunque ti allevai con darti il latte

40 per anciderti poi dandoti l’acqua?

Dunque, con queste man, nata, di terra

io ti ricolsi, acciocché queste mani

fosser cagion che poi sotterra andassi?

A voi, ciechi occhi mei, toccò vedere

45 s’ella ponea nel vaso o polve o succo.

Quale, adunque, fìa quel vindice giusto

che tronchi queste man, cavi questi occhi?

CORO

Deh, nutrice, perché ti affanni tanto?

NUTRICE

Chi’l nome mio vuol darmi, dìami nome

50 non di nutrice più, ma d’omicida.

CORO

La intenzion nell’ opre si riguarda,

come al peccar la voglia prona basta

a pena meritar, benché non pecchi.

Così colui che di peccar non crede,

55 quantunque pecchi, pur di scusa è degno.

Però queta i sospir, ristagna il pianto

e narra or dove è la donzella morta.

NUTRICE

Com’ella si lasciò nel letto stesa,

sulla barra funebre è stata posta.

60 Che di sua mano avendosi lei dato

pur mò il bagno, altro bagno non occorse.

Il capo ha cinto ancor di fresche rose

(miste con altri fiori ed erbe in cerchio)

che a chi la mira son pungenti spine.

65 Cento donne le stan piangendo intorno

vestite alla divisa della notte,

co’ capei sparsi. Il letto e d’ogni parte

circondato di lumi atri e funesti.

La giovane tra quei sembra la Luna

70 in mezo a molte stelle allor ch’eclissa.

CORO

Che conchiudono i fisici reali?

NUTRICE

Che già sette ore son ch’ella è passata

per bevuto velen di questa vita.

CORO

La reina, che fa?

NUTRICE       Chi vuol vedere

75 turbato il cielo e tempestoso il mare

miri a quest’ora lei. Non così folta

tocca e percote la tempesta i tetti

com’ella con le pugna il sen si batte.

CORO

Il re come sopporta questo colpo?

NUTRICE

80 Egli, per esser’ uom d’animo altero,

con occhi di diaspro in fronte ferma

dentro a più saldo mur l’affanno stringe.

Non però sì che non se’n legga parte

fuor ne’ gesti. Ei si fa della sinistra

85 letto alle guancie e con la destra mesce

la barba carca d’onorato verno.

Di vivo marmo in umil seggio pensa,

pensando tace e tacendo sospira,

onde paiono un sol l’assiso e ‘l seggio.

90 Ma eccolo uscir fuor col consigliero,

et io per dargli loco entrerò dentro.

CORO

Va, nutrice, che ’l cielo aggia pietade

del tu’ duol, del tuo error, della tua etade.





[4.3]

Atrio, Consigliero, Coro.



ATRIO

Non mi dorrò d’aver perduto i figli?

CONSIGLIERO

Non perde il suo colui che l’altrui rende.

Alla terra dovevansi i corpi, l’alme

a Dio, tutto ’l composto alla Natura.

5 Non biasmate colui che ve li toglie

sì tosto, ma più tosto li rendete

grazie che tanto spazio ve gli lascia.

ATRIO

Di quei che da me amati e chiesti foro,

quando in esser non fur, né per venirvi,

10 ora non mi dorrà, che per poche ore

avendoli goduto resto privo?

CONSIGLIERO

Dio vuol farne veder che domandiamo

cosa tal volta che aborrir devremmo,

e che devremmo al suo saper più tosto

15 rimetter sempre ogni domanda nostra.

Dio, mirando che noi poniam ne’ figli

quell’amor, quella speme che devremmo

porre in lui, giustamente ne li toglie

come cortesemente ne li diede.

20 E’n lui solo sperare e amar lui solo

ne insegna, né fondarci in questo mondo.

E così Dio sovente ne gastiga

in quel proprio soggetto in cui pecchiamo.

La pianta disgravata de’ suoi parti

25 leva le braccia in alto e ‘l capo al cielo,

quasi grazie rendendoli che scarca

del peso sia che la curvava in giù.

E voi de’ figli scarco vi dolete.

Chi non può riveder con gli occhi i figli,

30 a rivederli con la mente vada,

parte nostra più bella e più perfetta

ch’esclusa d’altri oggetti esser non puote.

Se buoni i fìgli fur, godete. Poi

che andati sono anzi’l venir malvagi

35 e andati in parte dove la mercede

godon delle buon’opre. E tal mercede

che lor non sarà tolta in alcun tempo.

Se rei, godete che ve gli abbia Dio

levati innanzi il diventar peggiori,

40 e allegerito voi di quel pensiero

che cruccia i genitor de’ figli rei.

Se amate i figli, abbiate estrema gioia

che siano fuor delle miserie umane.

Se gli odiate, allegratevi altretanto

45 che levati vi sian dinnanzi agli occhi.

Se i figliuoli vi amavano, acquetate

il duol per non turbarne il lor riposo.

E se in odio vi avean, non date loro

la contentezza del vedervi in doglia

50 mentre l’anime lor son qui d’intorno.

Se questa vita è amabile e felice,

non vi carcate di dolor, che questo

non sia cagion di farvene partire.

Se odiosa e infelice è questa vita,

55 non v’ingombri dolor de’morti figli.

Se credete che Dio sia savio e giusto,

(che se non fosse tal, non fòra Dio,

anzi è giustizia e sapienza somma)

credete ancor che savia e giustamente

60 v’abbia levato i figli. Il che, se è vero,

sentir non ne dovete alcuna doglia,

or non avete più, sir’, chi vi faccia

vegghiar le notti e i giorni, e aver fatica

di bramar, d’acquistar, di conservare.

65 Di perder tema e duol d’aver perduto.

Viveste altrui, vivete ora a voi stesso.

Se (come han molti) non avete figli

(come molti non han) voi stesso abbiate.

Goda il mio re d’avere avuto figli,

70 da non dolersi già d’averli avuti

e da desiderar di riaverli.

Meglio è del buon figliuol pianger la morte

che del malvagio sospirar la vita.

Chi ’l suo figlio mortal piange, scordato

75 de la mortalità sua stessa parmi.

Tante volte l’altrui né mai la nostra

morte piangiamo che ogni dì si vede.

I figli eguali a noi in ogni cosa

bramiamo. E nel morir sì innato a l’uomo,

80 ne duol d’avergli a noi prodotto eguali.

ATRIO

Non mi dorrò, che ’n loro età più verde

fèra tempesta abbatta i frutti mei?

CONFESSORO

Meglio è che ‘l frutto sia spiccato verde,

che stia tanto nell’arbor, che si guasti.

85 Fingete che i figliuoli in sì lontana

parte abbian preso già marito e moglie,

che voi non siate più per rivederli,

voi forse morto esser vorreste in quella

etade, in cui moriro’ i figli vostri,

90 per esser fuor delle miserie nostre.

Quanto moriam più giovani, moriamo

tanto più puri e con maggiore speme

di gire in parte riposata e lieta.

Non è la lunga vita un viver lungo,

95 ma un lungo affanno e lungo aspro morire.

Non perderanno, i figli, come voi.

Né come voi dubiteran del regno.

ATRIO

Duolmi che morti siano avanti il tempo.

Quanti disegni, ahimè, mi vanno or guasti.

CONFESSORO

100 Avanti il tempo e dopo il tempo alcuno

non more. Ognuno ha il tempo stabilito

avanti il qual non può morire e dopo

il qual non è possibil che più viva.

Ma, rispetto all’eterno, che credete,

105 che sia un’età che più viviamo al mondo?

A un giorno, a un’ora, a un attimo non giunge.

Vecchio more ciascun quanto al suo fine.

Giovane quanto al viver nostro breve,

quanto al desio di chi riman fanciullo.

110 Assai lunga è la vita, s’ella è piena.

Piena di virtuose opere buone.

Un viver lungo e voto i’ chiamo breve.

Chi è fuor che nemico o invidioso

quel che si duol che troppo tosto sia

115 giunto al porto il nocchier, che alla vittoria

sia troppo tosto giunto il Capitano?

I figli vostri ebbon più breve essiglio

dalla patria a cui già tornati sono

che non aveste voi. Or, se piangete,

120 non per lor, ma per voi si versa il pianto.

Come siam differenti in istatura,

laqual nessun può far più lunga o breve,

così siam differenti in quello spazio

d’anni che a viver ne prescrive il cielo.

ATRIO

125 Fossemi almen di duo rimaso un solo.

CONSIGLIERO

Più tema v’apportava un sol rimaso.

La sorte or non ha più strai da ferirvi,

né voi più loco avete in cui vi fera.

ATRIO

Di tanta mercè sola i giusti dei

130 mi avessero degnato almen che a un tempo

non mi fossero mancati ambeduo insieme.

CONSIGLIERO

Peggio era che l’amor che in ambo dui

fu misuratamente compartito,

si sarebbe ridutto tutto in uno.

135 Onde ogni volta ambascia, quale or sente

la fragilità vostra, avria sentito.

ATRIO

Chi prima venne, andar prima dovea.

E chi dopo arrivò partirsi dopo.

CONFESSORO

Più lieta or se n’andrà l’altezza vostra,

140 non lasciando, ma andando a rivedere

quei che l’aspetteran nell’altra vita.

Sgombrata di quel carco prezioso

che dietro si traea sopra le spalle

e ch’or si manda innanzi. Or più secura

145 caminerà senza voltarsi a dietro.

Ma cotesto, signor, non è la morte

pianger de’ figli, ma la vita vostra.

ATRIO

Quando da morte naturale spenti

fossero stati, avrei men doglia assai.

CONFESSORO

150 Il morire a ciascuno è naturale.

E la morte è tutt’una, ancor che molte

sian le maniere. Onde, o nessuno more

di morte violenta, o moion tutti.

Poiché tutti la morte a un modo preme.

155 Ma per uscir d’una prigion, che importa

che s’aprano le porte da sé stesse

o fìan per molta forza aperte e rotte?

Ma quei, che elesser, che invitar la morte,

come morir di morte violenta?

160 Violenta è la morte di colui

che suo mal grado more e molto pena.

Non di colui che vuol morire e ’n breve

spazio da questa vita si diparte.

ATRIO

Duolmi di questo sfortunato regno

165 che dopo me restar de’ senza erede.

CONFESSORO

Spesso al re manca il regno, al regno mai

non manca il re. Cotesta cura agli altri

che verran doppo voi lasciar dovete.

Purtroppo abbiam travaglio del presente

170 senza prender pensier dell’avvenire.

Pur, se tanta pietà del regno avete,

tanti giovani egregii Adria sostiene,

adottatevi alcun di lor per figlio.

Che prima conosciuto e prima eletto

175 sia che diletto. E dalla elezione

nasca l’amore, il che avvenir non puote

(anzi il contrario avvien sempre) ne figli,

dal padre amati pria che conosciuti.

Ma ecco il mago e dietro a lui lo stuolo

180 de’ Sacerdoti in loro abiti sacri

co’ libri in mano, che dal tempio uscendo

vengono a sepelir la pena vostra.

CORO

Ecco la mia signora, anzi non ella,

ma il cadavero suo sopra la barra.

185 Tu donna, tu donzella,

che sì superba vai di tua beltade,

mira costei che già sì fresca, e bella,

e viva, e sana, e lieta

entrò nel suo palagio

190 come dopo lo spazio di poche ore

ne vien portata fuore.

Odi e vedi Orontea sotto atro velo

che spargendo ne vien lamenti al cielo.





[4.4]

Mago, Orontea, Gentildonna, Atrio,

Semicoro, Nutrice, Consigliere.



MAGO

Or che cinta dell’ombra della terra

vien la notte, andiam tutti a tor la figlia

del re per sepelirla. Voi tre soli

restando, alzate con ingegni il marmo

5 che alla tomba real porge coperchio.

ORONTEA

Dunque, tanta impietade in voi si trova

che la figliuola mia di casa tolta,

da queste braccia e dal materno aspetto

m’avete a mio dispetto?

10 L’esser reina vostra che mi giova?

Ma non sarà così. Che così incolta

vi seguirò dovunque andrete e insieme

con la figliuola mia sarò sepolta.

Qual sarà quell’Oreste,

15 quell’Atreo, quel Tieste,

qual sarà quella rea,

quella Progne, o Medea,

che mi divida dal mio amato seme?

Oh figlia, a me più che questi occhi cara,

20 noi ti uccidiam con le parole vane.

Tu con la vera tua morte ne uccidi,

con le minaccie che da questa bocca

mia vengono, io ti uccido. E tu mi spira

del bevuto velen mentre ti bacio,

25 onde e vendetta, e compagnia t’acquisti.

Ecco la prima speme

del genero bramato e la seconda

degli aspettati poi dolci nipoti

sì verde e sì gioconda,

30 secca e perduta a un tratto.

Oh come ’l nostro ben sen fugge ratto.

Così del regno de’ Sabini prendi

lo scettro e la corona?

Così si va a marito e al maritale

35 letto tra l’ossa morte?

Il palagio reale

che a te, novella sposa, apre le porte

sarà la sepoltura

solitaria e oscura?

40 A tai splendide nozze t’accompagna

lo tuo popolo, e ‘l padre,

e la tua mesta madre?

(Anzi non madre più, né men più padre.)

In vece delle faci maritali

45 ardono i torchi mesti.

Questi pianti funesti

risuonan d’Imeneo le chiare lodi.

GENTILDONNA

Già lungo spazio i sacerdoti fermi

qui v’attendon, reina,

50 tratti al suon della vostra alta ruina.

MAGO

Rendere, oh re, oh reina, è tempo omai

alla terra il terren di costei velo,

gli occhi e ’l cor, dalla figlia ergere al cielo.

ATRIO

Chiuda quanto più tosto il monumento

55 la figlia, e ’l nostro cor chiuda il tormento.

ORONTEA

Figlia, da che non puoi restarti meco,

verrò al sepolcro teco.

Tu, pietoso feretro,

tanto in te fammi loco

60 che con la figlia mia caper vi possa

sì che da lei mai più non sia rimossa.

MAGO

Lumi che portiam per l’aer nero

rischiarino il sentiero

all’alma che pur mò fece partita

65 da questa nostra vita.

SEMICORO

Dalle, Signor pietoso,

sempiterno riposo.

Goda di là nel secolo futuro

giorno perpetuo e puro.

GENTILDONNA

70 L’ordine dell’essequie omai si stende.

Vanno innanzi spiegati i confaloni

e d’Adriana assai più alti doni.

Ma ’l primo è lo stendardo ch’oggi tolto

fu al re Merenzio e al prencipe Latino.

75 Non so se per ventura o per destino.

NUTRICE

Ecco il dolente scettro e la corona

che tu portar dovevi in testa e ’n mano,

ti son portati avanti in alto e in vano.

GENTILDONNA

Quattro maggiori prencipi del regno

80 le generose spalle han sottoposto

a l’onorato peso del feretro

e gli altri vengon poi piangendo dietro.

NUTRICE

I lumi, onde vai cinta d’ogni intorno,

t’apran di là, figliuola, un chiaro giorno.

GENTILDONNA

85 Ecco, la pompa funeral s’invia,

et il re sventurato

col consigliero a lato,

e la reina mia

con la nutrice appresso, e l’altre donne

90 d’Adria in oscure gonne

ponsi con gli altri in via

e noi ancor faccianle compagnia.

MAGO

Spirto quinci partito

tal compagnia di quelle alme felici,

95 t’accompagni di là, qual or tra noi

al sepolcro accompagna i membri tuoi.

SEMICORO

Dalle, Signor pietoso,

sempiterno riposo.

Goda di là nel secolo futuro

100 giorno perpetuo e puro.

ORONTEA

Oh figlia (se pur dir figlia mi lece)

t’accompagna colei dunque allo avello

che dovea andarti innanzi?

Tu dunque più di me ami il fratello

105 che ne lasciò pur dianzi?

GENTILDONNA

Non v’affligete, alta reina nostra.

Che se la figlia vostra

non è tra l’alme beate

accolta omai nel bel sito felice,

110 rinovata vita meglio che fenice.

ORONTEA

E me lassa, a che guisa

lascia nel mondo in cui fin qui vissuta

tanti giorni non son quanto in un solo

giorno vi soffro duolo?

GENTILDONNA

115 Sono i martìri e i mali

medicina a’ mortali.

ORONTEA

Oh voi che foste, oh voi che sète madri,

a voi mi volgo sole,

ché sole il grave affanno mio stimate.

120 Deh, di grazia pensate

qual esser debba e quanto

lo mio angoscioso pianto: in duo dì soli,

duo unichi perdendo almi figliuoli.

GENTILDONNA

Or giunti siamo al porto

125 d’ogni miseria umana,

alla casa, al sepolcro d’Adriana.

NUTRICE

Fino i sassi han pietà della tua morte.

Ecco levarsi a gran tardanza il marmo

del monumento, quasi che si levi

130 contra sua voglia e a chi lo trae resista.

MAGO

Sire, prendete l’ultimo commiato

dalla figliuola vostra

pria che ‘l sepolcro a vostri occhi l’asconda.

ATRIO

Figlia, poiché tu stessa a te facesti

135 la forza che nessun fatto t’avrebbe,

agghiacci col tuo corpo ogni tuo sdegno.

Pur se con colpa io son, né tu sei senza.

Io credei poco e tu credesti troppo.

Io non credei che tu per far mai fossi

140 quel che facesti, e tu credesti ch’io

dovessi far quel che per far non era.

Sposa io ti volsi far per farti madre.

Tu facesti che padre io non restassi.

Vivo ancor del real manto spogliarmi

145 volsi per adornarne il tuo marito.

E tu mi copri d’abito lugubre.

Io per teco restar, privarmi eleggo

dello scettro e donarlo al tuo consorte.

Tu per fuggir da me la morte eleggi.

150 Questi mei merti andran somministrando

conforto all’alma che non può ritrarsi

affato dal dolor di questa carne.

Restati in quel riposo che a noi togli.

Lasciane in questa luce che ne oscuri.

155 E quando tu di qua tornar non puoi,

costà tra poco tempo aspetta noi.

CONFESSORE

Poi che si tosto a rivedere avete

la figlia altrove, omai sciogliete, sire,

dal core il duol, le braccia dal feretro.

ORONTEA

160 Né tu restar, né venir posso io, figlia.

Il dolor crudelissimo tiranno

ch’io mora già non vuol, ma ch’io languisca.

Perch’io porti, vivendo, invidia a morti.

Io, crudel, fui cagion del tuo morire,

165 e tu (qual è il mio merto e ’l mi’ desio)

esser non puoi del mio.

Oh felice Niobbe,

che co’ figli perdesti anco la forma

e in un fosti il cadavero e ‘l sepolcro.

170 Tra morti gli accompagni,

e tra vivi li piagni.

Perché, crudel natura,

d’Altea, d’Agave ai figli non donasti

la vita de’ miei figli e a mei la loro?

175 Non fòran quelle madri scelerate,

né io fòra dogliosa

di viver lassa e di morir bramosa.

Coteste mani al tuo petto composte,

figlia, han guasto ogni nostro bel disegno.

180 Tra tanti fiori, il più bel fior perdiamo.

Perdiam tra tanti lumi, il lume nostro.

Cotesto volto al ciel converso il mira,

quasi sua patria, e noi spinge in abisso.

L’abito bianco, ond’hai coperto il corpo,

185 d’atri pensieri a noi copre la mente.

Le fronde verdi che sotterra porti,

mostrano ben che viene

teco ogni nostra speme.

Questi mei baci prendi,

190 ma perché non li rendi?

Questi, figlia, son tuoi,

e questi renderai a tuo fratello.

Io dianzi tenni te fanciulla in braccio.

E perché la mia vita sarà corta,

195 tu tra le braccia tue mi terrai morta.

Figlia, vattene in pace,

vattene in pace, figlia,

anzi andiamo ambedue.

Tu (se pietoso sei)

200 me sepelisci, e lei.

CONFESSORE

La reina, signor, non sa levarsi

da pianger la figliuola.

Né altri ardisce moverla se voi

non gite ad abbracciarla

205 e con dolce pietate indi levarla.

GENTILDONNA

Il re sostiene e abbraccia la reina.

Ma non so qual di lor per trarne aiuto

sia più forte, il sostegno o il sostenuto.

ORONTEA

Ahi, signor, qual di noi

210 può dar conforto all’altro?

Siam pur senza figliuoli.

Siam pur rimasi soli.

GENTILDONNA

Ite, donne, a soccorer la reina

caduta in accidente

215 e ’l re che mal sostien duo sì gran pesi

che a lui sol sopra stanno.

L’affannata mogliera e ‘l proprio affanno.

NUTRICE

Figlia, se avvien che morte or ne disgiunga,

questa medesma spero che per sempre

220 tosto ne ricongiunga.

GENTILDONNA

Ecco che, con le faccie adietro volte

per suprema pietà quei che n’han cura,

la donzella al sepolcro e al lungo sonno

danno con la maggior fretta che ponno.

MAGO

225 Acconciatela a punto nel sepolcro

come se fosse viva

e non de’ sensi priva.

GENTILDONNA

Oh sventurato re, che delle mani

e della veste si fa muro agli occhi

230 per non veder colei cui già vedere

li fu sommo piacere.

MAGO

Vattene in pace al tuo viaggio estremo,

che te non dopo molto seguiremo.

Dalle, Signor pietoso,

235 sempiterno riposo.

Goda di là nel secolo futuro

giorno perpetuo e puro.

MAGO

Chiudete il lasso. Voi spengete i lumi.

Voi, ministri, portate dentro al tempio

240 gli stendardi, ove restino sospesi.

E voi, signori, or che l’essequie sono

fornite, verso la magion reale,

benedetti dal ciel, movete i passi

coi pianti e coi sospir facendo tregua.

CORO

245 Di che ti alteri, oh uom? Con quale spene

di stancar brami lungamente in questa

valle di pianto che vita si noma?

A che fine? A che bene?

Dove ’l corpo or sostiene,

250 ora l’animo pene.

Or essiglio, or catene.

La fatica or ti pesta,

il caldo or ti molesta.

Or il freddo t’infesta.

255 Or onda, ora tempesta

or guerra, or fame, or peste, ahimè, ti doma

e godi, oh uom, sotto sì grave soma?

Il maggior don che dar possan li dei

è non far nascer gl’uomini o di terra

260 tosto levargli allor che nati sono.

Pensati, oh uom, che sei,

pensati che esser déi.

Pensa ove movi i piei.

Pensa: “Ove andaro’ i miei?”

265 E pensa che sei terra,

pensa che sarai terra,

pensa che movi in terra,

pensa che andaro’ in terra.

E godi poi, se puoi, ch’io tel perdono.

270 Ma non chiuder gli orecchi a questo suono.

Tosto che nati, anzi per meglio dire

che siam concetti noi, non cominciamo

della morte a imparar la trìta via?

Ogni notte il dormire

275 non è un breve morire?

D’ una in altra età gire,

non è l’età perire?

Di che concetti siamo?

Con che pena nasciamo?

280 Con che noia viviamo?

E periglio moriamo?

Pensalo, e poi di’ se matrigna ria

fu a l’uom natura e madre a gl’altri pia.

Nessun altro animal nasce spogliato.

285 Chi con pel, chi con piuma si ripara.

Nessuno altro animal s’annoda in falce.

Chi nasce d’unghie armato.

Chi di denti è dotato.

Chi di corna adornato.

290 Chi di tosco ispirato.

Non fa case od appara.

Non semina, non ara.

La terra, a noi avara,

il tutto gli prepara.

295 Sol l’uomo ignudo e disarmato nasce,

del suo industre sudor si copre e pasce.

Conosce l’util suo, conosce il danno,

per sé si move ogni animal nascendo

e sa ciò che saperse gli conviene.

300 Gli uomini fermi stanno.

Nascendo, a imparar hanno

tutto, sol pianger sanno

il lor futuro affanno.

La donna, partorendo

305 geme, talor morendo.

Ohimè, che augurio orrendo

quando al fanciullo, uscendo

dal matern’alvo con ceppi e catene

come a reo tutto’ l corpo avvinto viene.

310 Il fanciullo senza arte e senza ingegno,

perché ’l latte aborrisca e metta i denti,

parli e impari, qual soffre e porge noia?

Nel giovinetto ha regno

amor, non ha disegno.

315 Fermo e senza ritegno,

di furor, d’ ire pregno,

l’uomo ha i pensieri intenti

a gradi più eminenti,

a entrate, a discendenti,

320 regge famiglie o genti.

Il vecchio è sempre infermo, non ha gioia,

senza sensi, e non può far che non moia.

Oh felice animal, che i freni solve

della vergogna a far ciò che li piaccia.

325 Miser uom, cui l’onor pon sì rio freno:

la morte ti dissolve

e in fumo, in ombra e in polve

il corpo al fin risolve,

e in vermi e in serpi il volve.

330 La casa allor ti caccia,

par che a l’aer tu spiaccia,

l’acqua non vuol che faccia

dimora in lei. Le braccia

apre sola la terra e nel suo seno

335 t’inghiotte qual pestifero veleno.

 

Il fine del Quarto Atto.





[5.1]

Mago solo.



Tutto il disegno ch’io composi dianzi

con Adriana è già quasi successo.

Perché la innamorata accorta e ardita

ha preso il mio consiglio e la mia polve

5 nell’acqua. Ond’ ha provisto a quella sete

c’ha del suo amante, il suo bramoso core.

E con mentita morte oggi ha schernito

non pure i suoi, ma ancor gli Erasistrati,

che già per morta l’han pianta e sepolta.

10 Resta or solo che ’l prencipe Latino

giunga a cavar costei fuor del sepolcro.

Acciò, che ’n lei distrutto il mortal ghiaccio

non si rinovi poi ghiaccio di tema.

E quel che finto fu, vero non fosse.

15 Ché s’ella si vedrà fra i morti viva,

non la troviamo poi fra i vivi morta.

E già stupisco che ei non venga, o almeno

il ministro che incontro li mandai

subito con la lettera notata

20 e soggellata di mia man che ‘l tutto

avvisandoli vien di parte in parte,

come promisi alla real donzella

che per non perder per sempre il suo amante

per molte ore soffrio perder sé stessa.

25 Ma ecco quel che andò proprio a incontrarlo,

ma vien solo. Udirò da lui il tutto.



 

 

[5.2]

Ministro, Mago.



MINISTRO

A colui che affatica par godere

d’ogni fatica sua l’intero prezzo

e gli è grato il sudor, gradita l’opra,

quando può conseguir quel fin che ‘l mosse.

MAGO

5 Ministro, che novella mi rapporti

del viaggio e dell’opra ch’io t’imposi.

E perché tre non siamo, anzi che dui?

MINISTRO

Signor, la mia rattezza è stata quanta

desiar si potea, non che sperarsi.

10 MAGO Temo questo ma non male apporti.

MINISTRO

avuto ho nell’andar la sorte avversa.

Ho raggiunto l’essercito che affretta

dietro al suo duca in Lazio a gran giornate.

Ho domandato di Latino e inteso

15 che un messo pur allor l’avea chiamato,

a cui dietro spronando ello era gito

senza aspettare ’l giorno o dirlo al padre,

senza seco voler servo o compagno,

senza dir dove andasse, o dove o quando

20 fosse per ritornar. Sicché le genti

dietro al padre ne van senza aspettarlo.

La lettera che voi mi commetteste

che non si desse ad altri che a Latino

 (perché spiegata altrui non ispiegasse

25 la vostra mente) altrui fidar non volsi.

Ma la riportai meco e ve la rendo,

vergine com’io l’ebbi. La gran fretta

che mi deste al tornar non mi die’ tempo

d’aspettarlo ivi o di cercarlo altrove.

30 Tanto men non sapendo ove foss’ ito.

E sapendo che più non tornerebbe

là dove le sue genti avea lasciato,

che fuggìan tuttavia verso il lor regno.

E sperando incontrarlo nel ritorno

35 e perderlo temendo nel cercarlo.

Il bisogno che credo che n’abbiate,

e la sollecitudine e ’l desio

di non far poi i passi mei imperfetti,

m’insegnar ch’io lasciassi ordine a molti

40 de’ suoi che quando il prencipe tornasse,

gli dicesser che un messo a nome vostro

era stato con lettere a cercarlo.

Se più far si potea, signor, mi spiace

non lo aver fatto. Quel che fei e basta

45 piena mercede è d’ogni mia fatica.

Se vi pare or ch’io resti o che là torni,

a restare e a tornare eccomi pronto.

MAGO

M’incresce assai che non abbi trovato

il prencipe e che torni a me con quello

50 ch’io non vorrei e senza quel che bramo.

Con la lettera mia senza Latino.

Temo non greve mal qua venga in vece

di costui che non vien pavento e tremo,

che la fortuna non ancor satolla

55 delle lacrime nostre e de’ sospiri,

la tela anzi ’l tramar ne stracci a un tratto.

Che sarà? Che farò? Mira e ascolta

se vedi o senti alcun qui intorno.

MINISTRO                             Io vado.

MAGO

Se non appar alcun, vo trar costei

60 dell’arca e porla in più securo loco

e me levar di tema e pormi in pace.

E ben lo potrò far, poiché lo ’ngegno,

onde i ministri agevolmente alzaro

de l’arca il marmo, ancor non è disciolto.

65 Io lo spedii pur subito ch’ intesi

dal messo il falso annunzio della morte.

MINISTRO

Due persone in qua vengon sì ristrette

e sì celate che (quantunque splenda

Cinzia nel ciel) conoscer non si ponno.

MAGO

70 Il disegno m’è guasto, entriamo dentro

e passati costor tornerem fuori,

che a un gran negozio mio ti vo compagno.

 



 

[5.3]

Latino, Messo.



LATINO

Dunque, credi che qui siam giunti a tempo

che sia la principessa già sepolta.

MESSO

Sepolta è già, che tutta la cittade

sta sepolta in silenzio onde il reale

5 albergo è fatto un’altra sepoltura.

LATINO

Qual è l’arca real che dovea accorla?

MESSO

Là volean por colei che lungo spazio

meritava di viver qui tra noi.

Che vi turba, signor? Di che piangete?

LATINO

10 Cortese affetto e tenero mi tocca

quando penso tra me che una donzella

(per non si maritar contra sua voglia)

è morta lietamente di veleno.

MESSO

Fu morta dal velen, ma più dall’ira

15 contra color che volean farla sposa.

LATINO

Perché qui meco non ti trovi alcuno

e ’l far piacer a me non ti sia danno,

meglio è che vadi e qui mi lasci solo.

Io troverò il gran mago e farò quanto

20 ho a far con lui.

MESSO                 Signor, se l’opra mia

vi pur bisogna, a voi e a me non fate

torto di riputarmi per indegno.

LATINO

Basta quel che facesti e più non chieggio.

E perché mai non seppi esser ingrato

25 verso chi mi servì, ti rendo tante

grazie quante parole e quanti passi

hai speso nel portami l’ambasciata.

E poi ch’altro non ho con che premiarti

meco, ti dono questo manto, e voglio

30 che te ne vesta e ’l porti in rimembranza

lunga del primo e ultimo servigio

che mi fai. Non so quando avrai più loco

mai di servirmi. Aiutami a spogliarmi.

MESSO

Dio mi guardi, signor, che mai si sappia

35 ch’io v’abbia tratto qui di notte solo

e poi spogliato. Assai porto, se porto

la grazia vostra, e voi lasciar non debbo

contra la dignità senza la vesta.

E la nutrice si dorrebbe ch’io

40 voluto avessi il guiderdon da voi

dell’opra del camin ch’ella m’impose.

LATINO

Se nol prendi, io dirò che per nemico

mi tieni. E se nol vuoi per sempre, tienlo

fin che si riveggiam di novo insieme,

45 poich’or mi grava più che non mi copre.

MESSO

Io dunque spoglio voi, non per vestirmi,

ma sol per isgravarvi e compiacervi.

LATINO

Quando ragionerai con la nutrice,

rendile immense grazie a nome mio

50 e dille ch’udirà ben tosto nove

pari a quelle che udire ella mi fece.

E che s’io non avessi a gire altrove,

sì tosto le darei giusta mercede.

MESSO

Domani il tutto le dirò, poich’ora

55 tornar conviemmi fuor della cittade

a un gran negozio.

LATINO               Va’ felice. Il cielo

ti guardi da saper ciò che sia affanno.

MESSO

E voi restate in eterno riposo.





[5.4]

Latino solo.



Or ch’io son sol, posso allargare il passo

alle parole, ai pianti e al fine all’alma.

In questo tempo della meza notte,

in profondo silenzio e ’n queto oblio

5 giace e riposa il tutto, io solo desio,

mi lagno, mi tormento e m’apparecchio

al sonno eterno, in questo eguale a un cigno.

Non ho chi mi conforti a stare in vita

e non ho chi m’aiuti a darmi morte.

10 Eri vidi per me l’ultimo giorno.

Ora veggio per me l’ultima notte

cui maggior notte sovragiunger deve.

Oh Luna, arresta la tua lampa e fammi

grazia ch’io veggia anzi la morte mia.

15 Colei che sul mio pianto ha quella forza

che sovra l’onde hai tu dell’oceano.

Oh sepolcro di quella, in cui sepolto

son io, ti stringo con le braccia e strette

poco dopo farò tra le tue sponde.

20 Un sol rinchiuder pensi e duo rinchiudi.

Benché chiamar sepolcro non ti debbo,

ma erario ove s’asconde il mio tesoro,

o mar di Spagna ove l’mio sol tramonta.

Avess’io la virtù di quella fiera

25 che col ruggito suo ravviva i figli,

che con sì alto tuon griderei ch’io

scoterei questi marmi infin dal fondo.

Oh marmi, che ’l bel viso mi celate

e col ciel vi partiste ogni mio bene,

30 deh, per pietade, apritevi. Ond’io miri

quell’oggetto per cui cari ho sol gli occhi.

Se di mirarlo non avessi speme

con levarne il coperchio o marmi duri,

vi piangerei sì lungo spazio sopra

35 che col lungo picchiar v’incaverebbe

delle lagrime mie l’assidua pioggia.

Oh madre, se sapeste ove or dimora

il figlio vostro, so che a ricercarlo

verreste incontro a minacciose schiere.

40 Quand’io da voi partendo era sì spesso

da voi baciato. Oh, chi v’avesse detto:

“Baciatelo, reina, a voglia vostra

ché a baciar, ché a veder più non l’avete”.

So che non gusterete cibo alcuno

45 che di lacrime vostre non sia tinto.

So ch’io sarò cagion del morir vostro.

E fu del morir mio cagion mio padre.

Qua mi condusse a prender queste mura

e preso il primo giorno io vi restai.

50 Qua mi condusse ad arderle e le fiamme

riflettendo si volser nel mio petto.

Oh sorella mia cara. Oh fida sposa,

già non credei veder la morte vostra,

ma voi la mia. Ma veggio or che vivendo

55 voi, morte non potea farmi morire

che sol mi fa morir col morir vostro.

Adriana, io son quel che vi ha tradito,

che agnella vi lasciai tra molti lupi

e tortorella in mezo a gli sparvieri.

60 Dovea condurti i’ meco, ovunque i’ giva,

e con voi campar vivo o restar morto,

stringermivi nel sen dovea qual donna

stringe il suo non ancor maturo parto.

Né voi tolta mi foste dalle braccia

65 pria che le braccia mie tolte dal busto.

Voi ben me lo accennaste. Io nol compresi.

E voi più chiaro dirlo non osaste.

Quando il padre volea darvi marito,

da tutti abbandonata, in mezo ai mali

70 voi mi chiamaste. Io sordo non v’intesi,

da poi chiamaste morte. Ella vi udio

e di me più pietosa vi soccorse.

Mi meraviglio sol che ’l rio veleno,

poi che si sparse per le membra vostre,

75 non si cangiasse in manna e non perdesse

ciò che avea di mortal, maligno e amaro.

Ma questo avvenne sol perché quel core

che fu dal rio velen ferito e morto

non fu ’l vostro, ma ’l mio che vi donai

80 del vostro in vece e a voi si chiuse in seno.

Ma il velenoso spasmo del mio core

non so perché non abbia tanta forza

in me quanta il velen vero ebbe in voi.

Or vo torre il coperchio, aprir l’avello,

85 trarne fora il cadaver d’Adriana,

pria vagheggiarlo e poi morirli sopra.



 

 

[5.5]

Latino solo assiso, col cadavero di Adriana in braccio, tratto

fuori dell’Arca.



La vista pur mi accerta, oh vita mia

dolce, che tu e io siam fuor di vita.

E veggio, e sento, e piango la mia morte,

e me la stringo in fra le braccia, e faccio

5 l’essequie, e sopravivo a me medesmo.

Son queste, ahimè, le nozze, è questo il letto,

letto di duri marmi ove a giacere

sposi avevamo? È questo il bel convito?

Son queste le vivande, ond’egli è pieno,

10 le lacrime e ’l veleno?

Son questi i crespi crin che mi legaro’

sciolti e legati raddoppiaro’ il nodo?

È questo quel bel volto ove Amor tenne

suo dolce nido? Che già fu mio Sole

15 e or giunto a l’occaso innanzi tempo

apporta a’ giorni mei perpetua sera?

Bel viso, ancor che sii sì scolorato,

non ti doler che nel mio petto stai

de’ tuoi vivi colori adorno e vago.

20 Son queste le tranquille e liete ciglia

che già d’ebano furo, or d’ambro sono.

Già d’amor arco, e arco ora di morte?

Son questi quei begli occhi che assignati

furon fatali stelle alla mia vita,

25 c’ora oscurati adducon la mia morte?

Deh, perché di mirarmi ora sdegnate?

Apritevi, occhi cari, un sol baleno

e rimirate a cui giacete in seno.

È questa quella bocca onde già usciro’

30 sì dolci accenti e care parolette?

Oh potessi ispirarle del mio spirto

tanto che fosse di mia vita a parte.

Come, oh bocca, meschiasti il mèle, e ’l tosco?

Perché ora a’ baci mei non corrispondi?

35 Forse odii quella bocca ingrata ed empia

che potè dirti l’altra notte: “Sposa,

restate, a Dio, per qualche dì vi lascio”.

Lingua, perché ti stai gelata e muta?

Deh, moviti e dì sola

40 una dolce parola.

Et una sola volta mi saluta.

Bel petto, s’alla neve nel candore

ti uguagliava, uguagliartele ben’ora

posso in tutt’altre qualitadi ancora.

45 Oh belle man che ’l cor già m’involaste

e la mia vita in voi scritta tenete,

all’avorio mai più sì propriamente

non potei pareggiarvi come or posso.

Oh nobil corpo, ov’hai mandato l’alma?

50 Ma dovunque sia gita, compagnia

farà l’alma mia all’alma, e l’corpo al corpo.

Ecco che pure ho in braccio

la mia reina eletta.

Ecco che pure abbraccio

55 la mia sposa diletta.

E son (quantunque indegno)

di chi mi sostenea fatto sostegno.

Oh Latino crudel, perché pietoso

teco non sei, donando quella morte

60 a te che la sventura tua ti nega?

Ecco la chiave del mio carcer’ aspro.

Ecco il vaso che meco ogn’ora porto.

E portan tutti i Prencipi ove chiuso

sta il veleno e la morte per usarlo

65 in ogni caso avverso e periglioso.

Voi bramaste il velen qual madre grave.

E nelle vostre viscere il cor mio

riman segnato della stessa voglia.

Fammi grazia, oh velen, di trarmi tosto

70 di questa vita e un’altra grazia aspetta

allor da me di sì bel dono in vece.

Tu, che nome acquistato hai di crudele,

nel tor del mondo una sì bella donna,

or titol di pietoso acquisterai,

75 nel tor del mondo un così miser’ uomo.

Adriana, perché senza voi resto?

Adriana, perché senza me gite?

Adriana, io cagion del morir vostro.

Adriana, del mio cagion voi sète.

80 Adriana, in voi troppo è presta morte.

Adriana, in me troppo è lunga vita.

Adriana, non ci ebbe un letto vivi.

Adriana, ci avrà morti un sepolcro.

Adriana, un amor bevuto abbiamo.

85 Adriana, un velen berremo ancora.

Gustate or, labra mie, quanto è soave

tal bevanda e accettate il dolce invito.

Soave, certo, fu la medicina

che alla salute mia render mi deve

90 e liberar da questa viva morte.

Or che ho beuto il tosco,

posso gettare il vaso

e starmi lieto d’asprettar l’occaso.

Così, mentre le forze ancor son ferme,

95 compor mi voglio nel sepolcro e ’n braccio

la mia donna locarmi, e aspettando

star che finisca in me morte per morte.

Oh Dio, che sento? Sento pur nel petto

batterle il core. E parmi che si mova,

100 e che spiri. Adriana, che è cotesto?





[5.6]

Adriana, Latino.



ADRIANA

Ahi, lassa, dove sono? E chi mi stringe?

Quest’è mago, la fe’ così secura

mi condurrete al mio Latino e intatta?

Violando a lui la fede e la mogliera?

LATINO

5 Oh meraviglia inusitata e nova.

Avvien forse che uscendo da me l’alma,

va ad animar colei che tanto ell’ama?

Deh, dolce donna mia, non conoscete

l’afflitto sposo vostro, qui venuto

10 per morir presso a voi secreto e solo?

(Da poi che presso a voi viver non valse)

perché tra tanti mali aveste almanco

questa felicità l’anima sua?

Oltra che strada più secura e certa

15 non vidi di passare a lochi lieti

che lo spirarvi nelle braccia care.

ADRIANA

Se già la vostra voce e la mia vista

il volto vostro e la lucente luna

non han giurato insieme di mentirmi,

20 voi sète pur Latino, io son pur dessa.

Ma quale errore o qual furor v’indusse

ad assidervi qui? Non vi bastava

saper per nostre lettere, com’io

per involarmi al novo odiato sposo

25 e agli ostinati mei fèri parenti

dovea fingermi morta col soccorso

del mago, e poi che la finta bevanda

digesto avessi, risvegliarmi (come

or faccio) e a voi esser condotta in breve

30 quando accettarmi voi voluto aveste?

LATINO

Oh cruda sorte, oh sventurato amore.

Io di ciò vostre lettere non ebbi.

Dalla nutrice vostra solo un messo

velocissimamente a me mandato

35 la sorte vostra mi apportò per vera.

ADRIANA

Quel dolor che a tal nova voi provaste

prov’io nel sentir ciò. Ma pur godiamo,

quando altro mal ancor non è successo.

Che così a tempo giunti siam che ancora

40 uscendo quinci e in altra parte andati,

vita insieme menar lieta potremo.

LATINO

Eh, non sarà così! La sorte nostra

troppo singolar ben n’avria concesso.

La sorte vuol che voi con lo svegliarvi

45 solo un poco più tardi, e io all’incontro

col disperarmi un poco più per tempo,

commettiamo un error che non ha menda.

E un momento ne tolga un lungo bene.

ADRIANA

E che vuol dir cotesto? Favellate

50 sì ch’io intenda.

LATINO    Ahimè ch’io temo a dirlo

e pur convien che lo sappiate tosto.

E voi chiedete grazia di sapere

quel che di non saper grazia vi fòra.

Non vorrei del dolor mettervi a parte

55 che serro dentro io sol.

ADRIANA      Di grazia dite

fin d’ogni mio desir. Ma donde avviene

che a voi la voce si indebolisce

e di cener si vien facendo il viso?

Rispondete, signore, e a qual persona

60 l’animo vostro rivelar volete

nol rivelando alla diletta sposa?

LATINO

Voi che ’l vostro morir per vero intesi,

arsi di doppio incendio. E perché ’l core

si sostenesse in mezo a tante fiamme

65 (poi che non arde un cor tinto di tosco)

il veleno, composto e misto in modo

che senza scampo e senza indugio ancide

che ad ogni mio bisogno io porto meco,

presi. Il quale acutissimo già sento

70 andar col suo rigor tutto occupando

il corpo e tutto corrompendo il sangue.

Né può molto tardar che al cor non giunga.

Da una parte ’l morir (vedendo ormai

il buon successo a che da voi le cose

75 n’andavano indrizzate e d’esser giunto

il tempo di goderci apertamente,

senza sospetto alla fortuna lieta)

aggrevami e mi aggreva imaginando

in che duol senza me qui resterete,

80 duol ch’ io prima di voi pur mò provai.

D’altra parte la morte assai mi piace.

Poiché Adriana a questo sarà certa

se l’amò il suo Latino e le fu fido.

Poiché or conoscerete la mia fede

85 quando rimunerarla non potrete.

E che ‘l ben che con voi goder non posso,

senza voi, sposa mia, goder non voglio.

E che quel mal che senza me vi oppresse,

vo che con voi me parimente opprima.

ADRIANA

90 Non volea di ciò sì chiara prova.

Dunque per mia cagion, dunque in presenza

mia, vi vedrò morir, dolce signore?

E consentirà il cielo (ancor che poco)

ch’io viva dopo voi? Vorran le stelle,

95 ch’io, che ’n amarvi a par’ sempre vi venni,

in questo ultimo fin vi venga dietro?

Perché la vita mia senza alcun frutto

 (morend’io sola) a noi donar non posso,

che più la meritate e oprate meglio?

LATINO

100 Anzi, se l’amor mio, se la mia fede

vi fu mai cara, viva speme mia,

per questa e quel vi prego, e vi riprego,

che’n vita rimaner non vi dispiaccia.

Così consolerete il padre vostro,

105 così la madre, e sarà il lor conforto

quanto creduto men tanto più grato.

Così gli ubbidirete (come a buona

figlia conviensi) e al Sabino sposo

v’aggiungerete riscotendo gli anni

110 a voi dovuti e diventando madre

d’una onorata e gloriosa prole.

In una vita fortunata e dolce

reggendo il regno d’Adria e de Sabini.

E lasciando colui morto e sepolto

115 che vivo di godervi non fu degno.

Vi prego ben che quando al novo sposo

darete in preda il delicato corpo,

ch’io vi lasciai (né me ne pento) casto,

rivolgiate da lui tal volta il core

120 verso colui che sol per amor vostro

starà tra duri marmi e crude serpi,

mentre voi in gioiosi abbracciamenti

vivrete col novello amato sposo.

Ond’io me n’andrò lieto.

ADRIANA                    Ah, signor mio,

125 e voi credete ch’io far possa questo?

Sì lieve mi stimate, ancor che donna?

E perché noi ancor questo medesmo

consiglio non pigliaste e non viveste

senza me con un’altra eletta sposa?

130 Se voi morir per la mia finta morte

non ricusaste, io per la vostra vera

che farò? Ne morrò duemila volte

(se tante si potrà) nonché una sola.

E se elessi venir con morte finta

135 a voi per qualche tempo, a starvi sempre

di buon grado verrò con morte vera.

Dogliomi sol che ‘l ciel non mi dia modo

d’andarne innanzi a voi. Ma tosto, tosto,

sì come io fui cagion di vostra morte,

140 così sarò compagna.

LATINO                    Anzi, io cagione

son del vostro morir, reina mia.

Che vi tolsi il fratel. Deh, basti ch’io

v’abbia ucciso colui, privone il padre

senza che uccida voi di voi lo privi.

145 Perché la man che l’omicidio fece

porse la pena e ‘l tosco all’omicida.

ADRIANA

Non disputiamo più della mia vita.

Che quasi egual misura

deve aver con la vostra.

150 Ma sol come sarà possibil mai,

ch’io vi rimiri, ahimè, tra queste braccia

non morto, ma morir e andar morendo.

Qual lucerna cui manca il nutrimento

si spegne a poco a poco,

155 né poter dar a voi e a me soccorso.

LATINO

E pur convien che sia.

Ch’io lasci l’una e l’altra vita mia.

E già ogni mia forza si estingue.

Già la virtù a poco a poco manca.

ADRIANA

160 Affidatevi in grembo alla cagione

del morir vostro. Appoggiate la stanca

testa al mio petto.

LATINO           Oh mia gentil colonna.

Non resta altro a fornir il mio viaggio

che da voi prender l’ultima licenza.

165 Poiché la sorte o il poco merto mio

non han voluto ch’io posseda voi,

d’ogni speranza mia principio e fine.

D’ogni fatica mia requie e mercede.

(Benché la morte mia non può dolermi,

170 poiché in coteste amate braccia io moro)

viva restate voi, perch’io non perda

quella ch’avrete ogn’or di me memoria.

Così vi raccommando la nutrice,

de’ nostri dolci amor fido ricetto.

175 Fatele voi quel ben ch’io far non posso.

ADRIANA

Siate certo, signor, del morir mio

subito dopo voi come del vostro.

LATINO

Ahi, ch’io perdo la vista e la favella.

Già spasma il core e giunge al fine estremo.

ADRIANA

180 Deh, signor mio, non mi lasciate ancora.

Restate ancora un poco.

LATINO                       Ahi, ch’io non posso.

Date e prendete omai l’ultimo bacio.

L’ultimo abbracciamento, oh cara sposa,

oh quanto, quanto poco

185 ci siam goduti in terra.

ADRIANA

Ci goderem per sempre in altra parte.

Aspettatemi pur senza dimora.

LATINO

Oh terra, oh stelle, oh luna,

per non vi riveder mai più vi lascio.

190 Sposa, restate in pace. L’alma mia

va donde venne pria.

ADRIANA

Ahimè, ch’egli si more, io son qui sola.





[5.7]

Adriana sola.



Egli è pur morto, egli m’ha pur lasciato.

Ahimè, sposo, ahimè, sposo. Ahimè, marito.

Da dover fu il suo amarmi e ’l suo morire.

Finto parve il mio amor come la morte.

5 Ma non si dirà più certo ch’io finga.

Com’hai potuto dar la morte, oh morte,

a chi morte toglieva e dava vita?

Come non ti cangiasti, oh morte, in vita

presso la vita mia nel darle morte?

10 Oh grato e ingrato, oh dolce e amaro peso,

oh fortunato augel che col tuo sangue

la vita rendi alla tua spenta prole,

dammi cotesta tua virtù che or ora

svenandomi verrò di parte in parte.

15 Darò con la mia morte al morto vita.

Non posso. A me potrò ben dar la morte.

Vorrei che qui giungesse alcun pietoso

che con lui mi tornasse entro la tomba.

Vigor’ io non avrei per far quest’opra.

20 Convien che mio mal grado io viva e aspetti.

Ma perché altrui pietà non mi disturbi,

fingerò d’aver già beuto il tosco

ed esser presso al fin. Ma ecco il mago.

Ora da lui avrò quel che non ebbi.





[5.8]

Mago, Adriana, Ministro.



L’uom che ha negozio in man secreto è grave

quanto più sciolto esser vorrebbe, e questo

più va cercando sviluparsi tanto

più vede attraversarsi impedimenti

5 che mal suo grado il vengono turbando.

Or che sciolto pur sono a gran fatica

da quei che men volea, che men credei,

andiamo onde tornati esser devremmo.

Ahi, signora, che veggio? Con qual arte

10 usciste del sepolcro? A preghi vostri

s’apriron forse i marmi? E chi è questi

che nel bel grembo vostro estinto giace?

ADRIANA

Dunque non conoscete il vostro amico?

Ah, signore, signor. Sì ben mandaste

15 l’ambasciata o la lettera a Latino?

Eccolo. Egli mi trasse del sepolcro

e stimandomi morta il velen prese

e morto cadde allor ch’io fui risorta.

Il che si fe’ due ore o tre più tosto

20 che non portava il tempo della polve

movendomi e stringendomi Latino.

MAGO

Oh sfortunati amanti, oh cruda sorte.

La lettera mandai. Costui portolla.

Ma non trovò Latino, il trovar prima

25 color che gli apportar gli annunzi tristi.

MINISTRO

S’io punto nel camin tardato avessi,

avrei da sospirar, da pianger sempre.

MAGO

Oh prencipe gentile, oh caro amico.

Come vi trovo e perdo. E voi, signora,

30 che pensate di far? Che non è tempo

di indugiar qui, sì che le genti armate

de’ ministri reali andando intorno

vi ci trovino posti a questo modo.

ADRIANA

Ho già fatto il pensier, già fatto l’opra.

35 Già beuto l’avanzo del veleno

(a cui non è rimedio né dimora)

avanzato al mio sposo non potendo

goder altro del suo per darmi morte.

Accioché morte (che poteva sola

40 dividermi da lui) non men divida.

Morte pietosa più de’ mei parenti.

Morte più tarda assai del mio desire.

Benché già sento al cor giunto il veleno.

Ma si tosto non mor, perché ’n sé tiene

45 del suo amante l’imagine vitale.

A voi resta ver noi l’ultimo ufficio.

Acconciarne amboduo dentro all’avello.

Poi chiuderlo e andarvene e far tosto.

Or non restate più pensoso e muto.

MAGO

50 Oh come tardi e senza frutto giungo.

ADRIANA

Vi prego ben (se prego appo voi vale)

che i padri nostri nol risappian mai.

E quando questo pur si risapesse,

io vi prego pregarli a nome nostro

55 a lasciar giunti doppo morte i corpi

come già i cori in vita e ’n morte l’alme.

MAGO

Ohimè, che debbo far,che affatto siamo

privi, voi di soccorso, io di consiglio?

ADRIANA

Pregovi ancor che tutta questa istoria

60 scolpir facciate in duri marmi e porre

dentro al nostro sepolcro. Ove altrui occhio

giunger non possa. E poi supplico il cielo

che qualche autor mosso a pietà negli anni

avvenir la riduca in forma ch’ella

65 possa rappresentarsi a’ fidi amanti,

che de’ caldi sospir, delle pietose

lacrime loro ornin la nostra morte.

E dalla nostra tomba questo loco

prenda e conservi eternamente il nome.

MAGO

70 Promettovi di far quanto chiedete.

Meglio che già non feci, ancor ch’io voglia

tosto lasciar questa città dolente,

piena di tante tragiche sventure.

ADRIANA

Or non s’indugi più, ch’altri non guasti il

75 nostro disegno, e col mio amante in braccio

aiutatemi a por dentro al sepolcro.

MAGO

Guardimi Dio che viva vi sotterri.

Succeda ciò che vuol, soffrir non posso

peggio di quel che soffro.

80 Quinci non partirò fin che partita

non è da voi la vita.

ADRIANA

Sepelite costui di grazia, almeno,

che più regger nol può lo infermo seno.

MAGO

Questo di che pregate è ben ragione.

85 Aiutami al pietoso e crudo officio.

MINISTRO

Mai più men volentier non vi aiutai.

ADRIANA

Mentre costor son occupati in altro,

ago clemente e solo

rimasomi soccorso nel mi duolo,

90 da me trovato a caso

(mentre ‘l sen mi percoto) nella veste

con cui di seta reticelle e d’oro

eran da me conteste,

trammi del mio dolore.

95 E s’egli senza me non può morire,

trammi di vita fuore.

Passa per mezo il core.

Passalo, e ancora raddoppiando il colpo,

passalo un’altra volta, e un’altra, or basta.

100 Aspettatemi, sposo, ch’io vi seguo.

MINISTRO

Ahimè, che avvelenata ella non era.

Ne ha posto in opra e con non so qual ferro

assi aperto nel core ampia ferita.

Et è già fuor di vita.

105 E un gran fiume di sangue si dilaga

dalla profonda piaga.

MAGO

Lasso, che a ingannar gli altri le insegnai

et or con l’arte mia me inganna ancora.

MINISTRO

Ponianla nell’avel, che qui non siamo

110 come omicidi colti. E ’l tutto in fretta

facciasi, che già miro

dal real tetto uscir drappel di donne.

MAGO

Riponianla. Rinchiudi ora il sepolcro.

Adriana, oprerò quanto promisi.

115 E poiché sia scolpita

la mesta istoria della tua sventura,

tornerò a porla in questa sepoltura.

Imparate, donzelle,

non maritavi senza

120 voler de’ padri vostri.

Però che ’l matrimonio senza questo

esser non può, se non dannoso e mesto.

MINISTRO

Restate, amanti, come star vi piace.

Né mai vi turbi alcun la vostra pace.

MAGO

125 Ora, senza tornar più nell’albergo,

sgombriam da queste mura per la porta

che a incontrar va l’essercito Latino,

iI qual se incontrerem ne darà il passo.

MINISTRO

Andiamo tosto. Udite che dolente

130 voce di qua si sente.

Ed ecco apportator di triste nove.

Fuggiam ratto, signor, fuggiamo altrove.





[5.9]

Messo, Coro.



MESSO

Fugga, fugga ciascuno.

Fuggite, uomini e donne, agli alti monti.

Benché monte sì alto esser non puote

che scampi alcun dalla crudel procella.

5 Lasci ciascuno il letto.

Sgombri ciascun la casa

e da questa città ciascun sen’ voli.

Chi per suo bene è fuori,

il pie’ non porti dentro

10 a pigliar pur la vesta o il proprio figlio.

CORO

Che novo mal fìa questo?

Che pianto e grido mesto?

MESSO

Su cittadini, in fretta.

Che fate che vi tiene

15 che non prendete una veloce fuga,

Adria lasciando e le sue meste mura?

CORO

Messo, se non ti grava,

che nova apporti prava?

MESSO

Non chieder altro e fuggi.

20 Fuggi e non chieder altro,

donna, e teco ciascun di questa terra,

né ’n dietro mai si volti.

CORO

Deh, fa che ’l ver più chiaramente ascolti.

MESSO

Mezenzio uscito del paese nostro,

25 dove gran parte di sue genti perde,

non potendo con l’arme vendicarle

(e come da’ suoi proprii or ora ho inteso,

sognato avendo il figlio, il qual dicea:

“Padre, non mi vedrete più, ché resto

30 morto e sepolto nel nemico regno.

Fate del mio morir crudel vendetta

contra il re Atrio, e ’l principe Sabino,

che congiurar contra la vita mia”)

acceso contra noi d’ingiusto sdegno,

35 dalla contraria parte, ov’ei camina,

tagliar fece un’altissima montagna,

schermo e argine antico a tutte l’acque

che ponno apportar noia a questo regno

per inondarlo e sepelir nell’onde.

40 Quelle trottando una sì larga porta,

scendono ora con furia a falde, a masse

precipitose a gara, a laghi, a mari,

con istrepito tal che ’l cielo assorda.

Spingon le prime e son dall’altre spinte,

45 e spargendosi vengon per li campi.

Né perché ’l gran diluvio si dilati

per ogni parte; la sua altezza scema.

Anzi alle nubi sì d’appresso giunge,

che tor l’acque potran per farne pioggia,

50 senz’ire al mar, senza chinasi a terra.

E tutta questa furia a scaricarsi,

come in propria sentina, in proprio vaso,

sovra questa città dritto ne viene.

L’erbe, i fruttici e gli arbori son danno

55 sì lève che di lor non si ragiona.

Questo orribil furor dietro si tira

gli armenti, le capanne e i lor padroni,

anzi le case, anzi le ville intere.

Gli animai d’acqua pieni e d’alma voti,

60 coi musi in alto e coi pastori accanto,

vengon giù tratti dalle rapid’onde.

Gli uccelli stanchi, sostenuti un pezzo

in su ’l valor dell’ale, al fin cadere

si lasciano piangendo in grembo all’acque.

65 Non si ved’altro più che in ogni lato

acqua e ciel, cielo e acqua.

Dovunque passa lo spietato danno,

non differiscon più la terra e l’onde,

il tutto a un guardo sembra un fiume solo,

70 e il fiume non ha rive e non ha fondo.

Più non s’attende alla pietà del sangue.

Ciascun lascia i più deboli e i più vecchi.

Il fratel la sorella. Il figlio il padre.

Il marito la moglie. E ciascun cerca

75 di ricovrarsi alle più alte cime

che al fin poi resteran dall’acque oppresse.

Io con alata fuga mi dileguo

dinanzi a questo impetuoso orgoglio,

che molto non può star, che qui non giunga

80 dove non sarà casa, o tempio, o torre,

che molto inferior non le rimanga.

Sommergeransi i bei palagi nostri,

e tutti quei che vi fìan colti in mezo.

Conche d’acque saran quest’ampie loggie,

85 queste piazze, questi archi e queste mura,

e col tutto del tutto ogni memoria.

E così resteran molti anni, e molti.

CORO

Ahimè, piangiamo insieme

il gran mal che ne preme.

MESSO

90 Non lacrimate, donne, il vostro male,

tutta piangete a un tempo la cittate,

ché ’n danno universale

si disdicon le lacrime private.

Più tosto apparecchiatevi alla fuga.

CORO

95 E dove fuggiremo,

donne imbecilli e stanche?

Sarem preda dell’onde, esca de’ pesci.

Loco infelice a te stesso rincresci.

MESSO

Anzi, non può fuggirsi.

100 Di qua l’acque han la strada,

di là Mezenzio assedia ogni contrada.

Ma che vi dico, donne?

Udite già il rumor che a noi s’appressa,

qual di molte molina accolto suono

105 o come di celeste orribil tuono.

CORO

L’udiamo, e ’l gran timor così ne ’ngombra,

che a noi medesme impedimento siamo,

né fuggir, né fermarci al fin sappiamo.

Ma sol batter le palme e gridar forte,

110 per la morte fuggir, chiamar la morte.

MESSO

Fate, ché intenda il re con la reina

questa sì gran ruina.

CORO

L’alte grida e ’l concento

delle palme percosse

115 il pon destar, se addormentato fosse.

La reina destar più non si puote,

ché ’n perpetuo riposo ha posto l’alma.

Entrata nel palagio e nella stanza

de’ figli, mirar volse ad una ad una

120 le vesti lor. E giunta a quel ritratto

ove stanno dipinti ambo duo i figli

fermossi immota, e’n quel dolente aspetto

stata gran pezzo, torcendo le mani,

vinta dal gran dolor, morta si stese.

MESSO

125 Oh misera, anzi pur lieta reina,

morta innanzi il veder sì gran ruina.

Sol mai non giunge un mal, giungono molti,

sempre in drappel raccolti.

Per poco mai fortuna non comincia

130 a perseguire un misero, ella il preme.

E mentre ei piange, intanto

gli apparecchia cagion di novo pianto.

 

Il fine della Adriana