La Hadriana Tragedia Nova di Luigi Groto Cieco d’Hadria
In Vinegia, Appresso Domenico Farri MDLXXVIII.
Luigi Grotto Cieco D’Hadria
All’Illustriss. S. Paolo Thiepolo, riformator dello Studio di Padova, e Procurator di S. Marco.
IL PIÙ SAVIO consiglio, che possa cader nel petto d’un padre, è il non tenersi lungo spazio in casa le figliuole giovani. Ma subito, che son mature alle nozze, sgravarsene, et collocarle il meglio, che può. Questo avviso avendo io da gli altrui essempii apparato; e a punto da questa Tragedia stessa; l’ho osservato in questa Tragedia medesima. E battendo risoluto di collocarla; ho proposto meco di offerirla a V. S. Illustrissima per tre cagioni. Per merito suo, per beneficio dell’opera, e per interesse mio. Il merito suo è tanto, che merita dominio sovra le fanciulle reali, come è questa. Meritò, che quando il mio intelletto era gravido di questa fanciulla; pria, che la partorisse, disegnasse donargliela. E meriterebbe, che se le Muse proprie. Se Apollo medesimo proponesser di scrivere, le donasser gli scritti loro. Il beneficio dell’opera sarà tale, che ella ne diverrà più pregiata, più dolce, più sicura, più alta, e al fine immortale. Le mani di V. S. tengono della virtù di Mida. La sua bocca serba in parte la qualità delle pecchie. Onde quest’opera di Piombo, e d’Assenzio, ricevuta dalle sue mani, proferita dalla sua bocca, diventerà d’Oro, e di mele: la Natura, poi che ha prodotto i frutti su gli alberi, intendendo l’acerbità loro, gli spiega al Sole, accioché maturati da quel raggio celeste, piacciano al gusto. Io, la natura imitando, volgo questo mio frutto acerbo al Sole della vostra virtù. Colui, che non vuole udire il gracchiar notturno delle rane in un lago, vi fa comparir la notte nel mezo un lume. Io, per acquetar qualunque mormoratore pensasse biasimar questa mia fatica, li pongo avanti gli occhi lo splendore del vostro nome. Le cerve cacciate, non potendo in altra guisa involarsi a i denti de’ cani; rifuggono all’ huomo. Questa mia figlia, quasi tenera cerva, per ischifare i morsi de’ maligni laceratori de gli altrui scritti, in mansueto gesto accomanda sé stessa alla virtuosa humanità di V. S. Clarissima. Le Rondini, per campare i figli da tutti gli altri animali, e leggono nelle nostre case le piu alte travi, à cui sospendono i nidi. Io, per campar questo mio parto da qualunque fiera il pensasse offendere; lo appendo al vostro altissimo nome. Il Prencipe di Scozia, poi che hebbe ornato quel Pino dell’ armi, da lui raccolte; stimò d’assicurarlo maravigliosamente col titolo, che diceva. AR Matura d’Orlando Paladino. E à me parrà d’havere assicurato quell’opera col nome di V. S. Eccellentissima in fronte. Metabo Rè de’ V olschi, per liberar la pargoletta figliuola da ogni pericolo; la dedicò alla Sorella del Sole. Io, che non men amo la mia Hadriana, che quel Re sì amasse la sua Camilla; con accorto consiglio la dedico à V. S. Clarissima. Le statue d’ariento, ò di cera, mentre prattican nelle botteghe de gli artefici lor genitori, son mosse, e maneggiate da tutti: ma poi che l’altrui voto le appende a qualche religiosa altezza; niuno le move più. Cotal privilegio attendo io da questa dedicatura à questo mio parto: tanto fu il saper di Pithagora, che niuno ripugnava al parere approvato da lui per vero. Tanta fu la autorità del favoloso Giove presso i Gentili, che niuno contradiceva à cosa commandata da lui per buona. Cotal ventura sentirà la mia opera col testimonio honorato di V. S. Illustrissima, piena d’ autorità, e di sapere. La Natura, quanto piu profonda il piè dell’albero verso il centro, tanto più leva la sua chioma poi verso il cielo. Et io, quanto più conosco il mio parto humile nello stile; tanto più cerco renderlo alto nella dedicatura. Prometheo, poi che hebbe formato quella sua effigie di terra, bramoso di darle vita; la appressò al Sole. Opi, quando hebbe partorito Giove; accioche non fosse divorato dal tempo, figurato in Saturno; il diede in guardia à i Cureti. Giove, poi che fu nato Hercole, per farlo immortale, lo appese al petto della lattante Giunone. Et io, vago di procacciar vita, et una vita trionfatrice del tempo, et emula della immortalità à questa mia figlia; la appresso, la do in guardia, e la appendo a V. S. Eccellentissima. Si che, se questa mia Hadriana cederà alla mia Dalida sua sorella nella primogenitura, ad Altea nell’antichità della Historia: à Canace, nell’eccellenza dell’Autore, à Cleopatra nella Illustrezza delle persone, à Gismonda nella Nobiltà dello Scrittore, dalle cui novelle è tradotta. Ad Orbech ne’ discorsi morali, à Rosimonda nella brevità, à Sofonisba nella novità dello stile, alle figliuole di Sofocle nell’arte, à quelle di Euripide ne gli affetti, e à quelle di Seneca nelle sentenze, non cederà ad alcuna nella dignità della persona, à cui si consacra. L’interesse mio fia sì grande, che iò locando in tal parte il mio parto, acquisterò nome di savio. Quale acquista il Cocodrilo, mentre conduce l’uova sì in alto, che non vi giungon l’acque del Nilo. E se io sarò conosciuto sciocchissimo nel comporre; sarò almen riputato accortissimo nel dedicare. Rammentisi dunque V. Magnificenza Clarissima, che le rose, e gli usignuoli (ancorche nascano tra le piu incolte spine) son però graditi da ciascun sesso, e ciascuna età. E con questa mente gradisca questa mia Tragedia, intitolata HADRIANA. Parte dalla Principessa introdottavi, parte dalla mia patria (percioche fabricando questi miei cittadini sontuosi palagi; né potendo la mia povertà fabricar, fuor che una picciola casa; né cedendo io lor di grandezza d’animo; ho statuito rinovar tutta intera la patria mia nell’antica Eccellenza, in cui già fioriva) parte da più secreta cagione intesa da pochi, pur intesa da alcuno. Ma udiamo hormai la Hadriana. Così fosse questa eloquente, come quella, per cui è allevata. E quella fosse stata pietosa, e fedele, come questa, in cui è rinata fosse questa bella, come quella. E quella mia come questa di Hadria, il dì 29. di Novembre.
MDLXXVIII.
Persone, che parlano. Hadriana, Infanta. Nutrice. Orontea. Messo. Choro di Gentildonne Hadriane. Latino, Prencipe. Hatrio, Rè. Mago. Consigliere. Gentildonna. Semichoro di Sacerdoti. La Scena è in Hadria, la antica.
PROLOGO
Se mai tragedia agli occhi vostri offerta,
Indi pietoso umor per forza irasse,
Propizii spettatori, questa, ch’oggi
Viene a farvi di sé dolente mostra,
Può trar dal petto vostro, e da le ciglia
Un’Etna di sospiri, e un Mar di pianto.
Tra per l’autor, ch’a voi la ordisce, e trama,
Pien a ogni oscuro, e tragico accidente.
Che chiusi havendo in nube eterna gli occhi,
Meravigia non è, s’eterna pioggia
Di lacrime ne sparge, e altrui le move.
E per color, che ’n lei vanno introdotti,
I più fedeli, e più infelici amanti,
che trafigesse mai lo stral d’Amore,
Anzi d’Amor non già; ma stral di Morte.
E al fin per la citta, dove s’adempie
La mestissima historia. Poiché questa
E la vostra città d’Hadria. Non quella,
Ch’oggi mirate, ma quell’Hadria antica,
Che mandò il nome a quell’ingrato Mare,
Che’n guiderdone a lei tolse la vita,
A l’hor, ch’ella ridea nel più bel fiore,
E con le mura spaziose, ed alte
Sembrava di volersi infra le braccia
Stringer il Mondo, e sostener il cielo.
Dove hor contrita in trita
(et ita à l’aure in preda) poca, e lacrimosa polve
(ò quanto può questo girar di tempo)
Piange il suo grave danno in grembo a l’acque,
E l’acque, e ’l danno accresce à se col pianto.
E qual fosse la sua prima grandezza,
Sol ponno hora insegnar le sue ruine.
Anzi già le ruine ancora sono
Ruinate, e perdute. Ed Hadria il nome
sù alle humili, e con humide penne,
A pena s’alza sovra le paludi
De la cittate à se stessa sepolcro.
E dove prima le carrette altere
Velocissimamente solean correre;
Hor navi incedon tarde a remi lenti.
E i lochi, dove le feconde spose
De gli olmi già porgeano a lor coltori
Il dolce latte, e le cortesi braccia;
E del suo biondo crin fea Cerer copia;
Stann’ hoggi armati di nodose canne.
Dove pascean le gregge, il pesce hor pasce.
Dove solcò l’aratro, hor solca il remo.
Questo pensier nel pensier vostro impresso;
De’ movervi a pietà di questi amanti,
Che però per sé stessi anco pon farlo.
Anzi fu dolce il giogo, il qual congiunse
La reina del Rhodope al nipote
D’Egeo. Bench’egli assai soffra, vedendo
Morta colei, che lui soccorse; et ella
Da speme sciolta, e a duro laccio avvinta,
Amandolo, in Amandolo si muti.
Con lieto auspicio il frigio Enea s’unìo
A la Sidonia vedova Reina.
Bench’ ella havesse dal crudel pietoso
La cagione, e la spada, onde s’uccise,
Et ei fuggisse il certo, e ricercando
Lo incerto, andasse infino a i Regni bui.
Giocondo fu lo indissolubil nodo,
Con cui Piramo, e Tisbe accoppiar l’alme,
Come accoppiate havean le mura, e i tetti;
E come i padri havean disgiunti i cori.
Benché come un medesmo stral d’Amore
Li trafisse, così fosser trafitti
Da una spada medesima ancor di morte.
Sotto felice sella Hero, e Leandro,
Malgrado di quel Mar, che tien l’Europa
Divise, e l’Asia; giunser l’alme, e i corpi.
Quandunque come gli arse un foco siesso:
Li sommergesse una medesim’onda.
Rispetto a le funeste, oscure faci,
Con cui si maritar gli amanti, c’hoggi
vi mostrerà l’apparecchiata scena.
La cui historia, scritta in duri marmi
(Ma men duri però de la lor fede)
Trovò l’autor, con queste note chiusa.
A te, che troverai dopo tanti anni
la scoltura di questo acerbo caso;
Si commette, che tu debbi disporlo.
In guisa, che rappresentar si possa.
Porgendo un vivo essempio in quella etate
D’un amor fido a i giovani, e a le donne.
Benche più lungo spazio ti convenga
Stringer di tempo che non porta l’uso.
Del che per iscusarti; hai qui licenza
D’aggiungere una parte anzi il principio.
Così dicea. Godete dunque homai
Hadria, qual la godero i nostri padri.
E poiché su la porta del palagio
Con la nutrice sua, veggio Hadriana;
A lei volgete l’animo; e la faccia.
IL FINE DEL PROLOGO.
ATTO PRIMO SCENA PRIMA
Hadriana, Nutrice.
Had. Riguarda atorno ben, cara Nutrice,
S’alcun vedi, onde possa esser raccolto
Il nostro ragionar. Nut. Siam sole affatto.
Che (come sai) col Re Hatrio tuo padre
Son tutti quei, che maneggiar ponn’arme
Contra nemici nostri usciti in campo
Hoggi fuor de le porte à la giornata.
E poi con Orontea tua genitrice
Tutte salite son le gentildonne
De la gran Rocca a la più alta ampiezza,
Per mirar di là su qual fin sortisca
L’aspra battaglia, e a lor parenti armati
Forze aggiunger co’ voti, e con la vista.
Had. Vorrei depositar ne’ tuoi orecchi
Il profondo thesor d’un mio secreto.
E che mi promettessi di guardarlo
Sotto chiavi di fede, e di silenzio.
Nut. Come di te depositarie fide
Fur queste braccia; così fia il mio petto
De’ tuoi pensier. si ch’ io lascierò trarmi
Pria la lingua di bocca, o il cor del seno,
Che da questa, ò da quella il tuo secreto.
Had. Ahimè, che a palesarti quanto feci,
Di vergogna mi sento arder la faccia.
Nut. Non convien, figlia, vergognarsi a dire
Quel, che non s’hebbe ad operar vergogna.
Ma il segno non è rio. che quando luce
Qualche favilla dentro al cener freddo,
V’è speme ancor di risvegliarvi il foco;
Had. Tu sai, che varie nimicizie antiche
Sparser semi di guerra tra Mezenzio
Re di Lazio, e mio padre, Re di questo
Nobil paese d’Hadria. Onde colui
Qua venne a stringer la bell’Hadria nostra
Di duro assedio, e numerose schiere,
E a far prova di prenderla con l’arme.
E la preme, e la oppugna hor, più, che mai.
Nut. Così nol sapess’io. Così partita
Foss’io dal Mondo, pria, che’l Rè crudele
Fosse giunto a guastar questo bel Regno.
Had. Il dì, ch’ei con l’essercito qua giunse,
Desio mi nacque di salire al sommo
De la gran torre, ov’hor mia madre ascese,
(onde si scopre a molte miglia in giro)
Per indi rimirar le squadre armate
Spiegarsi, et accamparsi a la campagna.
Così in mal punto senza te v’ascesi.
Nut. Cader non può se non colui, ch’ascende.
La saetta celeste altro non tocca
Per lo più, che materia alzata ad alto.
Had. Ahimè, che’l tuo parlar purtroppo è vero.
Così salita, vidi. Ahimè, che vidi?
Vidi quel, che’l veder poscia mi tolse.
Così stata foss’io circa quel giorno.
Che la parte più lucida del corpo
(ma trae spesso a quel ch’io veggio) in notte l’al-
Nut. Non rileva, che sian cieche le luci;
Ma che cieca non voglia esser la mente.
Hor’dimmi apertamente, che vedesti?
Had. Io vidi il primo, e l’ultimo mio male.
Nut. Ahimè, ch’io tremo. E che mal fu cotesto?
Had. Fu il mio male un piacer senza allegrezza,
Un voler, che si stringe, ancorché punga.
Un pensiner, che si nutre, ancorché ancida.
Un’affanno che’l ciel dà per riposo.
Un ben supremo, fonte d’ogni male.
Un male estremo, d’ogni ben radice.
Una piaga mortal, che mi fec’io.
Un laccio d’or dov’io stessa m’avvinsi.
Un velen grato, ch’io bene per gli occhi.
Giunto un finire, e un cominciar di vita.
Una febre, che’l gelo, e’l caldo mesce.
Un fel piu dolce assai, che mele, ò Manna.
Un bel foco, che strugge, e non risolve.
Un giogo insopportabile, e leggiero.
Una pena felice, un dolor caro.
Una morte immortal piena di vita.
Un’inferno, che sembra il Paradiso.
Nut. Il gir per torte, e disusate strade,
scopre una conscienza, che non osa
Apparir ne la via publica, aperta.
Tu sei innamorata, à quel, ch’io intendo.
Had. L’hai detto tu, non io. né sai mentire.
Era Amor ne l’essercito, e fu’l primo
A dar solo l’assalto à la cittade.
Mi saettò da lungi, ancorché cieco,
E la piu alta parte de la Rocca
Prese quel giorno a colpi di saette.
Nut. Rocca guardata mal, facil si perde.
Ahimè, che questa novità m’ha morta.
Piaccia à Dio, ch’erri la presaga mente.
Hor segui, donde trasse Amor gli strali.
Had. visto mi venne il Prencipe Latino
(A l’arme conosciuto, e ad altri segni)
Figlio del Rè Merenzio, tutto armato,
Dal capo in fuori. Nut. Era scoperta solo
Quella parte, che offender ti potea.
Ma tu, per tua sciocchezza disarmata
Con armato guerrier gisti in battaglia.
Had. Che le schiere ordinava. Nut. E tu le tue
Lasciasti a l’hor disordinate, e sparse.
Had. Per la lunga fatica havea le guancie
Accese in vive fiamme. Nut. E tu nel petto
Le ricevesti. Had. E un bel destrier superbo
Con gli sproni, e col fren, facea far prove,
Qua mai non fecer Cillaro, o Pegaso.
E al cor mio freno, e sproni al mio desire
Strinse in quel punto. Nut. Ohimè come ti perdo.
O cieca diligenza de’ mortali,
Che sotto chiavi tien chiuso l’argento;
E le figlie Donzelle a freno sciolto
Lascia vagar senza custode alcuno.
Had. Da poi, che lungo spazio contemplato
L’hebbi, cacciata dalla notte; scesi,
Non qual salii. Portai legato il core.
Nut. Chi sé stissa legò, scioglier si puote.
Had. Colmi gli occhi portai di novo pianto.
Nut. Se commiser l’error, soffran la pena.
Had. Da indi in poi; né dì, né notte alberga.
In queste luci breve oncia di sonno
Nut. Pur, che’n te la ragion troppo non dorma.
Et io credea, che per la patria fossi
Tanto ansiosa. O come un vizio brutto
sotto vel di virtù spesso s’asconde.
Had. Spinta al fin dal desio, presi partito
Di far palese al Prencipe il cor mio,
Vedendomene offrir l’occasione.
Nut. Così; non ti bastò rimaner vinta;
Se te per vinta ancor non confessavi.
Had. Tu conosci il gran Mago, e Sacerdote
Della Luna, alto mastro in più scienze,
Curvo dal peso del senno, e degli anni,
Che già venne di Persia a questo Regno.
Ma stette prima in Lazio alquanto tempo,
E ’l palagio Real visita spesso.
Che tal’hor con mia madre, et tal’hor meco
Ragiona solo, e solo ha libertate
D’uscire al campo a parlar con nemici,
E tornar dentro. A costui dunque apersi
(Provocata però prima da lui,
Loqual dicea, che’n ciò stava la pace)
Il mio concetto. Et egli mi promise
Di rivelarlo al Principe. e lo fece.
Nut. Destati, o padre, a guardia di tue figlie,
A non fidarti d’huom d’alcuna etade,
A non fidarti pur di te medesimo.
La paglia è sempre paglia, il foco, foco.
Il qual conviene, ò che arda ò almen che tinga.
Hor qual ti riportò costui risposta?
Had. Che havea trovato il Prencipe disposto
Non men di me. che quel medesimo giorno
Mirandomi ne l’alto del castello,
Era per me caduto in fiamme pari.
Nut. Vorrei, che havesse anzi trovato ghiaccio.
Temo coteste riscontrate fiamme
Non adducano incendio troppo grande.
Had. Tosto il mago col Prencipe compose,
che ne venisse a me nella cittade.
E oprò con un di quei, c’hanno le chiavi,
Con cui s’aprono, e chiudono le porte,
che introducesse il Prencipe la notte,
ma sconosciuto, e in abito de’ nostri,
Pur che venisse sol col brando solo,
A un’hora ferma, e ’l rimandasse a l’alba.
Nut. So, che tutti al tuo mal venner concordi.
Ma pur, che tal concordia non produca
Discordia grave. E tu vi acconsentisti?
Had. E che potev’ io far, s’era conchiuso
Già, quando fui richiesta del mio voto?
Se non vivo io, ma vive in me colui,
ch’io amo più di me? s’io non favello,
Ma in me favella Amor, qual Febo in quelli,
Che gli oracoli altrui rendono in Delfo?
Io fui contenta. NUT. Ben contenta fui,
Dicesti. che hor non sei forse. E se hor sei,
Non sarai forse lungamente. HAD. Taci,
Di grazia, e annunzii non mi far sì tristi.
Ne la cittade il principe introdotto.
Indi a due notti, o tre Nut Sò, che il consiglio
Del mal, noto non và, quando si cova.
Had. Le porte entrò del mio giardino Nu. Ahi lassa,
Pur che più adentro ancor non s’introduca.
Had. E quivi mi trovò fra i fiori, e l’herbe.
Nut. E non fuggisti al’hor l’horribil serpe?
Had. Chi può fuggir il cor, la vita, e l’alma?
Cominciommi a parlar si dolcemente,
che così non parlò mai lingua humana.
Nut. Dolcissimo è il cantar de le sirene.
Had. A’ piedi mi cadeo per adorarmi.
Nut. Come viva Panthera, o volpe cade.
Had. Tutto diede sé stesso in mio domino.
Nut. Così fe’ Giove, o semplicetta Europa.
Had. Sovente sparse un copioso pianto.
Nut. Rompon dai duri sassi le fontane.
Had. Più volte sospirò sospir di foco.
Nut. Da le più fredde felci il foco è tratto.
Had. M’astrinse la sua fe’, quanto si puote.
Nut. Vi diè la fe’, che dar suole un nemico.
Had. Testimonii chiamò Giove, e Giunone.
Nut. Testimonii, che irar non lice in prova.
Had. Giurò quanti altri Dei vivono in cielo.
Nut. Chi giura assai, sà, che di fede è indegno.
Had. La morte s’augurò, se mi tradiva.
Nut. S’augurò quel, che ogn’un di noi aspetta.
Had. Le man mi prese, e le sposò d’anella.
Nut. Ciò sposarle non fu, ma fu legarle.
Had. Ecco l’anel, che mi lasciò per arra.
Nut. Anzi per premio di quanto hebbe, forse.
Had. L’oro mostra un’ amor fino, e perfetto.
Nut. L’oro, dice. Così Danae fu vinta.
Had. Mostra il ritondo, amor, che non ha fine.
Nut. Cosi vuol dir, principio unqua non hebbe.
Had. Mostra il Diamante inviolata fede.
Nut. Mostra il Diamante indomita durezza.
Had. E con le braccia al fin mi cinse il collo.
Nut. Fu l’ultima cathena, onde t’avvinse.
Had. Poi mi baciò, come sua cara sposa.
Nut. T’avvelenò, qual Lotofago, o Circe.
Had. Così di me si prese ogni possesso,
Salva la castità, che ancor mi serbo.
Così continuando, a ritrovarmi
ogni sera ne viene cheto cheto.
Nut. E che segno ti dà, quand’egli viene?
Had. Io discendo ogni sera al’hora usata
Nel giardino a veder s’anco è venuto.
E chi prima vi giunge, attende l’altro.
Nut. Qual padre mai, qual madre, ò qual marito
Può promettersi figlia, ò sposa casta,
S’io, che costei sempre accompagno e guardo;
Così da lei schernita oggi mi trovo?
Chi menavi compagna a cotest’opre?
Had. La cameriera mia, morta stamane,
Caduto sopra lei l’arco di pietra,
Che parte sostenea de’ nostri tetti.
Nut. Così foss’ella morta molto prima.
Had. Hora fidar non mi volendo d’altri;
A parte chiamo te del mio secreto.
Nut. Non di secreto piu, ma di periglio.
Had. E perche il tuo consiglio anco mi porga.
Nut. Vano è chiamare il Fisico, o il Chirurgo,
Quando l’infermo ha già spirato l’alma.
Had. Tanto ci resta ancor, cara Nutrice,
Che ben potrà cader sotto consulta.
Tu, che sì spesso al’hor, ch’io pargoletta
stava per traboccar, man mi porgesti;
Porgimi ora consiglio, ond’io non cada.
Nut. Sovra il passato non si dà consiglio.
Had. Dallo su l’avenir, che così chieggio.
Nut. Persuaso voler non si consiglia.
Had. Nova farò forse a me stessa forza.
Nut. Dico, che tu commetti un grave fallo
Contra Dio, la cui mente è, che rendiamo
Ubbidienza a quei, che ne dier vita.
Contra la nobiltà del regio sangue,
Che te produsse in così chiaro lume;
E da te prenderà la prima macchia.
E il peccato è maggior tanto più chiaro;
Quanto è più chiaro, et è maggior chi pecca.
Contra il padre, e il fratel, cui soli tocca
Darti la dote, e sceglierti lo sposo.
Contra te stessa, che su’l gioco arrischi
L’honore, il qual perdendosi una volta,
Non mai più, non più mai può ricovrarsi.
Rese Esculapio a Hippolito la vita.
A Pelope li Dei. Ma a donna, mai
La perduta honestà non rese alcuno.
E non ti scusi amor. che amore ha solo,
Quanto il nostro voler gli allarga impero.
Credi, figlia, che un giovane, in cui more
L’Amor, qual foco di paglia; un nemico,
Ch’altro non può bramar, che tua vergogna.
Un Prencipe, ch’altrui forza non teme.
Un figlio posto in potestà del padre,
Poi ch’habbia spento quell’ardente sete,
Che’l cor gli accese a la stagion più verde;
Servar debba à una femina la fede?
Mal credi, se ciò credi, e se ti fidi,
Ch’egli è signor; ricordati, che a punto
Sembra a l’hora al signor d’esser signore,
Quando può la sua fe’ dare, è ritorsi.
Promessa fatta a forza, non ha forza.
Egli quasi prigion’ ne la tua terra,
Anzi prigion de la bellezza tua;
Non per molto osservar, molto proferse.
Ma per molto impetrar, molto promise.
E pur, che seco goda il suo diletto,
Né si diletti palesarlo al Mondo.
E quando la promessa non ti attenga;
Con chi osa sarai farne querela?
Cui chiederai soccorso, o almen vendetta?
La tua nutrice potrà pianger teco,
Il mago consolarti, e il portinaio
Andarti publicando per infame.
Ch’esser non può, che anch’ei non sappia il
Ma se da i segni uscendo, ti lasciasse(tutto.
Non pur macchiata, ma col ventre grave?
Ricordati, Hadriana, d’Hadrianna,
Che col nome non segua ancho la sorte.
La qual, poiche tradito hebbe il fratello,
Tradita fu per premio da lo sposo.
Poi che tratto hebbe lui del labirintho,
Fu da lui posta in un maggior, senza altra
Speranza di poterne uscir giamai.
Ella concesse a Theseo fama, e vita.
Theseo la fama a lei tolse, e per lui
Non istette a torle anco la vita.
Rammentati, Hadriana di Medea.
La qual, poiché a lo ingrato, infido Greco
De l’aurea spoglia, e de la spoglia opima
De la sua castità fe’ doppio dono,
E di sé viva, e del germano morto;
Sprezzata al fine, e spinta su dal letto,
Che comprato s’havea cotanto caro.
Hadriana, rimembriti di Scilla.
Che, poiché al Re di Creta offerta fece,
De la purpurea chioma, e de la vita
Del nocchio padre; al fin da lui respinta,
E mutata in augel, soffre la pena
De la grave, da lei commessa colpa.
A noi col volo è nunzia di sereno:
E a te sia con lo essempio consigliera.
Sovvengati di Issipile, Hadriana,
Che, né con la beltà, né col piacere,
Né con lo scettro, né col ventre grave
Tener valse appo sé l’ amante infido:
E se né per ragion, né per essempi
Ti movi (che pur mover ti devresti)
Movati almen l’autorità di questa
Vecchia, che travagliato ha tante volte
Per tuo riposo, e si spesso ha vegghiato
Per lo tuo sonno. hor fingi, che Latino
T’ami, e sia quel fedel, ch’ambe vorremo.
Che sarà poi? Che né il suo padre a lui,
Né’l tuo a te lodar vorrà giamai
Coteste lor malgrado occorse, nozze?
Veggio quel che vuoi dir, vuoi dir, che spesso
Il maritaggio è padre della pace.
Più spesso, forse è padre della guerra.
Lo sdegno ha messo troppo alte radici.
Hor con le spade in man ferman gli accordi,
Scrivendo ai corpi lor col sangue i patti.
Invece de la tibia maritale,
Suonan le trombe. in cambio d’Himeneo,
S’invoca Marte. in luoco di ghirlande,
Si portan elmi. e per facelle, spade.
In questo assalto al fìn convien, che i nostri
O perdano, o rimangan vincitori.
Se vincitori fìan, n’andrà Latino
Cacciato quinci a gran fretta lontano,
per più non riveder queste contrade,
Se perderan, Merenzio fia signore.
E a l’hora non vorrà, che’l figlio sposi
Colei, che havrà per prigionera, e schiava.
Ma fingiamo, che’l padre di Latino
A cotal parentado ancor discenda;
Che farà il tuo si offeso, e disdegnato,
E a ragion con Merenzio, e con Latino,
E teco più, se ciò mai si sapesse?
Chi farà ardito mai fargliene motto?
Tu nò. che, se’l rossor non ti accendesse,
Di marmo havresti, e non di carne, il viso.
Io nò. che inghiottirei prima la morte,
Che mai mandassi fuor questa parola.
Altri nò. per rispetto, che à tuo padre,
E per odio che poi porta a’ Latini.
Hor facciamo che sian tutti concordi.
Non pensi tu, che sempre il tuo Latino
Havrà di te sospetto, havendo in mente
Quanto con lui oprasti? Onde non nuoce
Mai à la donna star dentro à suoi segni.
Ma per recarti più vicini effetti,
Quanti in periglio trahi, cieca, non vedi.
Metti prima in periglio te medesma.
O ch’il tuo amante ti disnori, e lasci
O che il padre, ò il fratel ti trovi e ancida.
Così perda la fama, e in un la vita.
Metti in periglio anco il tuo amante. ch’egli
Trovato qui da’ tuoi, la notte solo,
Ti sia su gli occhi horribilmente ucciso.
Metti in periglio hor la nutrice tua.
Benché se per nutrirti io diedi il latte,
Madre, la patria, e ‘l regno. che Latino
Trovando à suo piacer le porte aperte
De la cittate, e del giardino; adduca
Seco gente con armi. e contra il patto
Sforzi le entrate, e la città soggioghi,
Mandando a l’hora il tutto a sacco, e a sangue.
Mira quanti perigli, e quanti danni
Tu sola porti. e ancor non v’apri gli occhi.
Però dei a la piaga, mentre è fresca
Proveder con rimedii apparecchiati,
Pria, che forza maggior prenda col tempo.
Lasciando al tutto il mal concetto amore,
Tenendo te, ne le tue regie stanze,
E lasciando Latin ne le sue tende.
Had. O sventurata me. che dunque faccio,
Quinci frenata da’ consigli tuoi,
Quindi spronata dal crudel tiranno,
Ch’è amaro, et è da noi chiamato amore?
Perderò dunque la vita, e la fama?
Lascerò dunque il mio amator più caro
A me, che l’honor mio, che la mia vita?
Per cui solo son’ io cara a me stessa?
Trarrò l’amante mio dunque in periglio?
Lascierommi morir priva di lui?
Porrò la mia nutrice in questa nave?
Porrò, per salvar lei, me sola in mare?
Tradisco il padre mio, donde ebbi il sangue?
Lascio il mio sposo, da cui spero il seme?
Darò la morte à chi mi die la vita?
Torrò me dunque a chi mi dà se stesso?
Sprezzo chi meco hebbe commune il ventre?
Lascio chi meco havrà commune il letto?
Sprezzo colei, da le cui viscere esco?
Lascio colui, nel cui cor vivo impressa?
Tradirò il mio paese, dove nacqui?
Lascierò il mio signor, nel cui cor vivo?
Ahimè, che questi esserciti fan guerra
Minor d’intorno a queste belle mura,
Che al cor mio intorno i mei varii penseri.
Ma io (per dirti il ver) cara nutrice,
Non volea, che così mi consigliassi.
Ben consigliata esser volea del modo,
Che può darmi ottenuto il mio desire.
Nut. Il consiglio, che punge il voler nostro
Ne par malvagio, e quel, che l’unge, buono.
Ma ciò toccava dal principio al mago:
Had. Insieme habbiam così composto ascolta:
Egli mostrando, che Latino colpa
Non habbia in questa guerra, e predicando
Le sue virtuti, e i suoi regii costumi;
Da indi innanzi si è ingegnato sempre
Porlo in grazia a mia Madre, e l’ha impetrato.
Ella già l’ama, e i suoi be’ modi ammira.
Fermato habbiam, quando ne paia tempo
A queste nozze, usar l’opra di lei.
Promette il mago ancor levar Merenzio
(Non so già con qual’arte di eloquenza)
Hoggi dal fatto d’arme. anzi, che’n tutto
Non sia battaglia più tra questi Regni.
Far, che Merenzio vada, e che Latino,
Acciò, che sappia, ogn’hor quanto qui segue,
O conosciuto, o sconosciuto resti,
O in Hadria, o fuor (ma ben poco lontano)
O sotto specie di trattar la pace,
O di fornire altro negozio fìnto,
Finché si posson maturar le nozze.
Nut. Quel, che quando successo ancor non fosse
Degno di biasmo, e di disturbo fora,
Quando è successo poi, convien lodarlo,
Però (poiche tant’oltre andata sei)
M’havrai seconda, ove m’havresti avversa,
se’l ritrarti, o’l turbarti havesse loco.
Ma riponiam queste parole in serbo.
Ecco tua Madre, e più donne con lei.
ATTO PRIMO
SCENA SECONDA
Orontea, Hadriana, Nutrice.
Oron. Figlia, non sospirar, non han possesso
Sospiri di timor ne’ petti alteri.
Come i venti non l’han ne’ monti eccelsi
Spero, mercè del ciel, che i nostri
(a cui pone arme giuste giusta causa in mano)
Fian vincitori, e gli avversarii vinti.
Had. Quel, che sperar dic’ella, io temer chiamo.
Oron. E i capitani loro il figlio, e ’l padre
In rotta, in fuga, e forse a morte andranno.
Had. Dove crede assaldar, punge la piaga.
Oron. E quei, che ad occupar la terra nostra
Venner, l’occuperan coi corpi morti;
O via fuggendo, e nel lor Lazio ascosi,
Raddoppieranno al lor paese il nome.
Had. O de la fuga lor foss’io compagna.
Oron. Pur quando il punto incerto de la guerra
cada contrario a le speranze nostre;
E del resto facciam; la mano audace,
Col ministerio del benigno ferro
Ne scioglierà di servitù, e di vita.
Had. Voi volete prestar conforto altrui,
Madre, e n’havete più d’altri bisogno.
Come quegli assediati, che lanciaro
Fuor de le mura al campo de’ nimici
Il pane, et essi ne rimaser senza.
Scorgo ben’io le luci, scorgo il volto
Scolpirsi fuor di simulata speme,
Dentro vero dolor premere il petto.
Oron. E qual madre fu mai barbara, a cui
(Sentendosi in battaglia i suoi più cari,
Il carissimo sposo, e ’l dolce figlio,
A cui si teme in lieta pace ancora)
Non tremasse nel sen pauroso il core?
Had. A me duo cori haver fòra bisogno.
Poiché per ambedue le parti io temo.
Né so qual brami, o vincitrice, o vinta.
Né se mi voglio vedova, o pupilla,
Oron Favella almen, si ch’io t’intenda, e possa
Confortarti figliuola. HAD. Il male altrui
Mal sana infermo de lo stesso male.
Nut. Come vi par, che segua il fatto d’arme,
(Se pur il fatto d’arme è andato innanzi,)
Reina? e qual successo homai possiamo
Questo giorno sperar de la giornata?
Oron. Segno ancor non si scorge, onde si possa
Ritrar certo timore, o certa speme.
Il sa solo colui, che sempre il seppe.
Ne le cui man la vita, e la salute
Nostra, e del nostro stato io raccomando.
Deh signor de gli essercitii, e de’ regni,
Fa’, che i Latini, i quai nelle lor forze
Fidati a’ danni son del regno nostro;
Sian da le forze tue cacciati, e vinti.
Fa’, che’l sangue, c’hor piove in sulla terra.
Per noi hoggi produca oliva, o palma.
Fa’, che queste mie man, che disarmate,
E al ciel devote io levo a te, pregando,
Oprino più, che tante armate mani
De gli avversarii nostri combattendo.
Tu, che formasti in noi gli orecchi, e gl’occhi,
Odi, e vedi quel danno, che n’afflige.
Nut. Perche scendeste dalla rocca pria,
Che si scoprisse il fin de la battaglia?
Oron. Vinti da gran pietà questi occhi mei,
Rifuggiro il mirar sì duro aspetto.
Nut. Fin dove di mirar vi diede il core?
Oron. Fin che appiccato il fatto d’arme vidi
D’appresso sì, che più non potea sciorsi.
Nut. Deh narratelo a noi Reina, ancora,
E gli occhi nostri sia la vostra lingua:
Had. Dite madre vi prego, che ben dirlo
Saprete voi; che tanta esperienza
Del mondo havete, stata hor tra le mura,
Hor nel mare, hor ne’ campi, hor ne le selve,
come vi andò rotando la fortuna.
Oron. Dapoi, c’hoggi spirar di qua dal mezo-
Dì, l’oziose ferie della guerra,
E a l’hora destinata alla battaglia
Prefissa già tra l’uno, e l’altro duce;
Marte la porta sanguinosa aperse;
E poi che’l mago (quanto a me ne parve)
Fece opra con Merenzio di ritrarlo,
E da lui riportò dura ripulsa;
Tosto tocchi tamburi a i campi intorno
Con fretta tanta, tal ribombo, e horrore
Chiamarono i pedoni, e argute trombe
Con tal tenor lontan, tanta rattezza
Getta sella sonar, tutti a cavallo,
A cavallo in un chiaro audace suono;
Che al gran romor fremean l’aria, e la terra.
E corni vivi per l’humano spirto
Pur con egual virtù, tumulto eguale
Faceano udirsi altrui con chiuso tuono;
Cominciar da ogni parte a uscir le genti
Trarsi appresso i cavalli, e vestir l’armi
Con espedita, infaticabil opra.
Come a l’hor quando in aria si concipe
O del Borea, o dell’Austro un grave spirto,
Che prima usan confondersi le selve,
E con socchiuso horror, mormorio muto
Fischian le foglie, e fremono le fronde.
Finché prende poi corso, e forza il vento,
E l’animoso fiato apre, et allarga.
Così le nostre, e le avversarie schiere,
Faceano, mescolandosi in sé stesse,
E ponendosi in punto alla giornata.
E noi ascese in cima all’alta torre
Sotto gli occhi havevamo ambe le squadre.
Le nostre chiuse dentro la cittade,
E le contrarie fuor distese al campo.
Cui rimembra d’haver veduto mai
Di qua, e di là su l’una, e l’altra riva
D’un fiume reso torbido, e superbo
Da strutte nevi, e da dirotte pioggie,
Che mezo colmo ponga agli occhi muro,
E stia per traboccar fuor de le sponde,
E dilagarsi o a l’una, o a l’altra mano,
Le ville intere starsi non volendo,
Che dal canto lor rompa, il commun male?
Imagini costui, che tale a noi
S’appresentava a una rivolta d’occhi
Lo spettacol de’ nostri, e de’ nemici;
Tutti si cinser di ferrigna scorza,
Che percorsa dal sol gittava un lume,
Che da lungi abbagliava altrui la vista.
Qual su le prime faci de la sera
La funesta cometa apparir suole.
E traendosi dietro un lungo crine
Tinto di sangue, e sfavillando foco;
Scote gli scettri, e turba lo corone.
Tal ne scosse, e turbò l’armata luce,
Luce, che rifuggir le luci nostre.
Nut. Renda tal lume a noi giorno di pace.
Oron A l’hora l’uno, e l’altro capitano,
Montato in un corsier, va per lo campo,
E prevede, e provede ove bisogna
Con gli occhi, con la lingua, e con le mani.
E rammentando quanto poco sia
Quel, che si è fatto in questo tempo per lo-
Adietro; torna innanzi, a gli altri, a l’hora
Còre aggiungendo, e per l’orme medesme
A l’hora a gli altri innanzi; torna adietro.
Raggira il campo atorno, e torna, ov’era;
Qual Rondinella, che a l’amato nido,
Depositario de’ suoi dolci pegni,
Vede appressarsi il predatore, e mossa
Da sollecito studio, affetto pio,
O volge intorno il mal difeso parto
Hor su, hor giù per l’empia casa geme.
Non altramente il mio signore, e l’altro
Faceano. e ascesi al fine in alto poggio,
Agli esserciti lor raccolti intorno
Fecero un parlamento militare,
Che udirsi non poteo però da noi.
Nut. O rispondan gli effetti a le parole,
Oron. Io mi ricordo, sol che ’l mio signore
Con mano, orando, ne mostrò a soldati.
I quali intenti, e taciti ascoltaro.
E poiché giunse al fin, lesaro un grido,
Che da ogni cavo speco Echo rimise.
Gridaro, andiamo e diamo, Echo soscrisse.
Nut. Piaccia al ciel, bella ninfa, che risuoni
Così le voci de le gioie nostre.
Oron. Come tal hora avvien, che la villana
Adduce al tetto ceppi, purno tolti
Da la nativa madre, ancora pieni
Le verdi membra d’amoroso succo,
(E soffiando, fa forza a farne foco)
Che fuma prima un pezzo e poi che uscito,
E digesto è l’humore; in un baleno
Scoppiano in chiara fiamma, e ’n larga vampa.
Così le squadre udendo il mio signore,
Raccolsero nel petto a poco a poco
Ardire, e sdegno, e ’l tutto poscia a un tratto
Esshalar fuori, e fuor chiesero uscire.
Nut. O fia il numero, e’l grido al tornar pari.
Oron. Tutti n’andar sotto le insegne loro
Alzate, e tremolanti all’aure fresche.
Come al cader del Sol l’api tornando
A casa carche di sudata preda
Ciascuna si ricovra al suo ricetto.
Il Prencipe mio figlio fu lasciato
Dentro a guardia, e difesa delle mura.
Nut. Così non habbia, che difender hoggi.
Oron Furon tirate in ordine le schiere
Sì, che alcun non uscia fuor del suo segno.
Qual dotto Agricoltor negli alti monti
Dispon le viti in disegnato quadro;
E col compasso lor prescrive il filo.
E ad ogni pianta parte giusto l’inter-
vallo, perché lo spazio egual comparta
De la gran madre il succo al nutrimento,
La terra a le radici, e l’aria a l’ombre.
Nut. Tornin le schiere nostre in forma eguale,
E l’altre sparse poi si traggan dietro.
Oron. Ecco aperte le porte, et ecco fora
L’essercito a l’essercito nemico
Incontro armato d’haste, d’archi e spade.
Quando i Giganti per pigliar le stelle,
E metter legge al ciel fatto prigione,
Givan ponendo sopra monte monte.
Et un di lor venia di qua col Pindo
Su gli homeri pien d’arbori e di selve;
E l’altro li venia col Pelio incontro;
(Come talhor dipinti io gli ho veduti)
Potevano sembrar queste due fronti
D’esserciti, che l’haste alte portando,
Venivano a incontrarsi a meza strada.
Una nube di polve alzossi al cielo,
E ’l Sole, e ’l giorno chiuse a tutti gli occhi.
Indi una notte folta di saette
Ratto pendé, su l’uno e l’altro campo.
La qual cessata, e aperto l’aere un poco,
Sembraro estrici a l’hor tutti gli scudi.
L’uno da l’altro essercito lontano
Era, quanto va a punto una saetta.
Ma questo tratt’a un tratto via sparire
Vedemmo, et affrontate già le schiere.
Come s’alcun duo fochi a un tempo accenda
L’uno a faccia de l’altro d’ambo i capi
Di valle, che ’l valor suo tutto spenda
In folta messe d’infeconde canne.
La sparsa fiamma arde lontana alquanto,
Ma poi tutta in un punto aggiunta in uno
Di duo, diventa in modo un foco solo,
Che l’un da l’altro più non si discerne.
Così parver gli esserciti confusi.
Nut. E confusero in noi timore, e speme.
Oron. L’haste a l’hor rupper risolute in pezzi,
Che tanto verso il ciel volaro in alto,
Che a pena Aquila arriva a tanta altezza.
E mille per contrario huomini a l’hora
Giù nel piano havresti visto cascare.
Tratte in un tratto mille spade foro,
Che balenando in alto ferian mosse
Co’l taglio i corpi, e con la luce gli occhi.
E facean quell’aspetto di lontano,
Che fanno in ciel le stelle, o in aria i lampi
La siate su’l principio de la notte
Serena, che rio tempo, o caldo aspetti:
Nut. Segua tal lampi a noi giovevol tuono.
Oron. Poi che furon gli esserciti meschiati,
Vedeansi varie imagini di morti,
E di colpi s’udiva un suono eterno.
E alcune mal concordi, e fioche grida
Di color, che morian d’ambe le parti.
Ond’io più non potendo sostenere
L’horribil vista, me ne son partita.
Nut. E noi per questo siam rimaste al basso.
Had. Madre, vedete di mio padre un messo,
Che affrettandosi, a noi dritto ne viene.
Oron Ahi, che smarrito egli mi sembra in faccia.
Non è tal faccia di letizia segno.
E su le membra par, ch’io tremi tutta.
Deh non mi abbandonar, signor del cielo.
SCENA TERZA
Messo. Orontea. Hadriana. Nutrice.
Mes. Qual fia sì crudo cor, sì ingrata lingua,
Che dar possa a la nostra gran Reina
Nova tanto severa? E pur tu quello
Dei esser. Poiché ad esser ti costringe
L’huom, che di sol costringerti hebbe forza.
Di tante grazie, ch’ella m’ha impetrato
Con la sua lingua fortunata, e saggia,
Mal tu le renderai, mia lingua, merto.
S’io doveva recar tal ambasciata,
Perché non nacqui io muto? Se gran premio
Attende quel, che grate nove apporta.
Qual gastigo attend’io da la Reina?
Oron. Non odo altro, che ’l suono, e tremo a udirlo.
Di chiedere, e di udir temo, e desio.
Mes. Ecco, che’n su la porta del palagio
La infelice m’aspetta, d’udir vaga
Quel, che l’ha da accorar, tosto, che l’oda.
Qual proemio farò? con che principio
Le comincierò a dir la sua sventura?
Oron. Ahimè, che ’l cor di gran dolor presago
A sé richiama il sangue, e ’n sé si stringe;
In vista d’huom, che grave colpo aspetti.
Deh Messo affretta insieme il piè,e la lingua.
Qual nova mi rapporti del figliuolo,
E dello sposo mio? MES. vi apporto nova
Qual si puote miglior, Sacra Reina.
Che guadagnato la vittoria habbiamo.
Oron. Tu, che’l ben mi donasti, donami anco,
Sommo Dio, stil, con cui renderti possa
Grazie de l’una, e l’altra grazia havuta.
Mes. Ma intero un ben non venne mai. Trovossi
Sempre in mezo alle rose qualche spina.
Oron. Ahimè, che tu m’ancidi. Dunque ancora
Non fornisti di dir? Che v’è di male?
Mes. Udite pure. ORON. E tu spaziati tosto.
Poi che aspettato stral, mentre s’aspetta
Trafige molto più, che quando giunge.
Mes. Mentre più ardeva la battaglia, apparve
Fuor del bosco un’incognito guerriero,
In candid’ arme, e sconosciute insegne.
Che n’andò dritto al Prencipe Latino
Sfidandolo a battaglia singolare.
Il Prencipe accettò la giostra, tale,
Che arrestar fece l’uno e l’altro campo
A riguardarla Andò la pugna un pezzo
Di qua, e di là sopra bilancia pari.
Al fin Latino alzò la spada, e diede
Al cavalier non conosciuto un colpo
Sì smisurato e crudo, che gli aperse
Lo scudo e l’elmo, e scendendo nel capo,
Li fece una profonda, e larga piaga.
E sceso per troncar la testa affatto
Al campion de la selva già caduto;
Poi che slacciato gli hebbe l’elmo, e mostrò
A noi l’amato viso; là trahendo
Molta furia de’ nostri; suo mal grado
Li fu levato vivo delle mani.
Oron. Poiché ha scoperto il viso, e a voi è noto;
Fa’, che anch’io riconosca il cavaliero.
Mes. Questo e il punto Reina. questo è l’agro,
Questo è l’amaro calice, che a bere
Io v’appresento. Il cavalier del Bosco
Era il Prencipe nostro, il vostro figlio.
Oron. Ahimè, che dici? MES. Quel che dir mi spiace,
Come prima mi spiacque anco vederlo.
Oron. Non rimas’egli a guardia de le mura?
Mes. Rimase. ma sentendo uscito il padre;
Né potendo temprar l’ardente spirto,
E ’l desio giovenil di far battaglia;
Commesse a un’altro il loco suo. e vestito
D’armi mentite, e peregrine insegne;
Per una porta adultera uscì fuori.
E preso, e fatto un lungo e vario giro
Per boschi, riuscì dove sì male
Riuscir li dovea l’assunta impresa.
Oron. Dunque, ahi lassa, colui, che tu mi narri
sì mal trattato, è il mio figliuolo? ME. è desso.
Oron. Ah empio ferro, onde imparasti l’arte
Di far duo colpi a un tempo, il capo al figlio
Ferire, e’l cor traffigere a la madre?
Dunque ne la commun vittoria, e gioia,
Io sola piangerò, ridendo gli altri?
Mes. Pur troppi havete nel dolor compagni.
E la vittoria sanguinosa costa
Pur troppo caro prezzo. et è dolente
Forse non meno al vincitor, ch’al vinto.
Had. O speranze di vetro. O fratel mio.
Oron. Ah spietato homicida. ah reo Latino.
Piaccia al ciel, che tua madre
(s’hai pur masenta quel che sent’io materno affanno. (dre)
Had. Ciel, non udir questi dannosi preghi.
Ma fa’, che l’ dolor nostro in gioia torni.
Nut. Ecco, Hadriana mia, quanta ragione
Hebbe colei, che ti lattò fanciulla
Di non voler lattar le tue speranze.
Oron. O occhi di diamante, dunque sète
Aridi sì, che non versate tante
Lagrime per lavar l’acerba piaga,
Quanto versa dal capo il figlio sangue?
Had. Stata foss’io nel mezo tra la spada
Del feritore, e’l capo del ferito,
Facendoli del mio pietoso scudo.
O per cotal cagion morir felice.
Oron. Ma segui, e dimmi homai, cortese Messo,
In quale stato, e’n qual loco ei si trova,
E quale speme habbiam de la sua piaga.
Mes. Vedendo i nostri il lor Principe carco
Di sangue, si infiammaro a la battaglia.
Come leone, il qual quando si vede
Insanguinato, a l’hor ruggendo fero,
Rodesi, e corre incontro al ferro ardito,
E divenuto più crudel, si sforza
Di vendicar la sua con l’altrui morte.
Prefero tanta audacia, e tanto sdegno,
Che poser tosto in rotta
I miseri Latini,
Troncando lor le forze.
E li cacciaro in modo,
Che tutti universalmente fuggirono.
Sbandati scompigliati, e fracassati.
Had. Vittoria rea, che ’l vincitor fai mesto.
Mes. Al governo io restai di vostro figlio,
Che intendendo la strage de’ nemici,
E la salute sua già disperata,
Da Fisici, e Chirurgi, che havea intorno;
Levando al cielo, e a Dio gli occhi, e le mani;
In mestissimo suon grazie li rese;
E disse. allo Signor, poi che ti piacque,
Che Latino, e la Parca a un tempo il ferro
Alzassero a troncar questa mia vita;
Grazie ti rendo. che quantunque i’ muoia,
Veggio del mio morir però vendetta.
Indi ti prego, che gli anni dovuti
Al corso natural, che perderò
Io, a quei del padre, e de la madre restino
Aggiunti, che non men mi fian vitali:
Tu, padre mio, perdonami l’errore,
Che feci giovanilmente. poi ch’io
E conosco, e confesso, e provo, come
L’uscir de le tue leggi, e de le mura,
Mi fece parimente uscir di vita.
Prestami un’altra grazia; sepelisci
Il cadavero mio fuor de le mura,
Dov’apunto la giostra si commise.
Perch’io, che vivo dentro non le volsi
Guardar, le guardi fuor sempre hora morto.
Tu, mia già lieta, hora dolente madre,
Armati meglio il cor contra l’affanno,
Che ’l capo io non mi armai contra Latino.
Tu, mia cara sorella (se mai caro
Havesti il compiacermi, e pur l’avesti)
Non ti legar con matrimonio altrui,
Se non a chi ti dia per sopradote
De le tue nozze il capo odioso, e reo
Di colui, ch’è cagion ch’io t’abbandoni.
Torna Merenzio, onde partisti, e ’nvece
Di guadagnarti un’altro regno; perdi
Con l’essercito tuo l’unico figlio.
Ma tu, Latino, c’hai tinte le mani
Ancora del mio sangue piaccia al cielo,
Che dal mio sangue nasca la tua morte.
Poi cada, e muoia in mezo a tuoi nimici,
E procuri tu stesso il tuo morire,
E sii sepolto in peregrina terra.
Had. Ahi, che non posso udir si meste note
Del mio caro fratel. Ponle in silenzio:
Mes. Questo diss’egli, e più parole assai,
Le quai mi commandò ch’io ridicessi.
In tanto morte andava scolorando
Il già si bello e colorito viso.
E ’l colore, e ’l calor venian mancando.
Come purpureo fior, che’l curvo aratro
Habbia passando tronco, il qual perduto
Le sue vaghezze, e ’l bel colore smorto;
Al fin venendo meno,
Cade a la terra in seno:
Hor cosi era labile, e vicino
A morte il figlio vostro. quando il padre
Giunse carco di spoglie di nimici.
E se gli pose sospirando sopra.
Chiese il Prencipe alhora ambedue voi,
Per mirarvi, e morirvi in fra le braccia.
Ma ricusando il Re di far chiamarvi;
Anzi ordinando espressamente a tutti,
Che cotal morte a voi celata fosse;
Pregommi occultamente il figlio vostro,
Che tosto, che potessi, io vi avisassi
Il tutto. il che li fu promesso. Et egli
A la promessa i languid’ occhi aperse,
Gravati già da la propinqua morte.
Poi li rinchiuse in sempiterna sera.
Oron. Dunque di questo cielo il dolce lume
Non fère più ne gli occhi a mio figliuolo?
Mes. Del corpo nò. se n’è ben gita l’alma
Dove i suoi occhi un più bel Sole illustra.
Oron. O figliuol, tu sei morto, et io son viva?
Ah cruda man, che’l figlio ancidi, e crudo.
Più, poi che non ancidi anco la madre.
Ti fa crudele uno homicidio, e dui
Ti farebbon pietosa. O figl uol mio.
Ma come mio, s’io t’ho perduto? ah figlio,
Che a i parenti serrar dovevi gli occhi,
Come senza lor chiuderli ten vai?
Anzi lor li rinchiudi in notte, e ’n pianto.
Può essere, o dolor, che tanta forza
Non habbi nel mio cor, quant’hebbe il ferro
Nel capo di mio figlio, e non mi uccida?
Che faccio di questi occhi, che non denno
Mirarti piu? Che fo di queste orecchie,
Che più non t’hanno a udir? di queste braccia,
Che non ti abbracceran mai più? di queste
Labra, con cui baciar più non ti debbo?
Più preste fur le man de l’homicida
A spegnermi il figliuol, che voi, mie mani,
A batter questo mio rugoso petto,
A stracciar questo mio canuto crine.
Ecco, ò Hadria, caduto il tuo sostegno,
Il terror de’ nemici, e’l pregio nostro.
Had. Tu, fratel, fosti messo a custodirne;
E di custodi tu bisogno havevi,
Che dietro non corressi a la tua morte.
Mes. Io non mi meraviglio, che tal morte
Sia da voi pianta. che Latino stesso
La piange sì, che confortar nol puote,
Né’l padre, né quanti altri son con lui.
Oron. Vittoria, al vincitor peggior, ch’al vinto.
Che se così vinciamo un’altra volta,
Habbiam perduto. che rileva havere
Salvato il Regno, e perduto l’herede?
O figliuol, fu minor la doglia assai
Del partorirti, che l’affanno d’hoggi.
Ma che dirò di me, c’hoggi ti cinsi
De l’armi, onde sì mal fosti difeso?
Nut. Et io, misera donna, ti lattai,
Prencipe illustre, a crudeltate, e a gloria
De tuoi nemici, con tante fatiche
In tanti anni? Noi dunque t’allevammo,
Acciò, che in un’instante andassi poi
A cader sotto la nemica spada?
Mes. Diemmi anco il figlio vostro la camicia
(Che si spogliò pria che tornasse il padre)
De le man di costei vago lavoro,
Lacera tutta, e del suo sangue aspersa.
E mi pregò, che dopo la sua morte
Io la rendessi a voi, che la serbiate
In eterna memoria di vendetta
De la sua morte, e di non far mai pace,
Né tregua con Latini. ecco, la spiego.
Oron. Ah cor mio, non ti spezzi a quest’ aspetto?
Had. Lassa, quand’io formai questi trapunti,
Con l’ago mio medesmo il cor mi punsi.
Oron. Quanto caro mi fosti, o nobli velo,
Mentre copristi le leggiadre membra.
Hor tanto più m’affligi, e mi rincresci;
Né ti posso mirar, non le coprendo,
U lasciasti colui, c’hoggi vestivi?
Horribile tintura, empi lavori,
Che trahesti dal sangue, e da la spada.
Ti serberò ne l’opra a me commessa.
Mes. Tutti i soldati, poi che vider morto
Il lor Signore, in man del Re giuraro
Con solenne, e terribil giuramento
A Latino la morte, e perseguirlo
(desmo per tutto il Regno. OR. anch’io giuro il me-
Had. O sperar nostro, come sei fallace.
Nut. O creder nostro, come ne lusinghi
Oron. Hor dov’è il mio figliuol? MES. lo sposo vostro
L’ha fatto sepelir fuor de le mura
Nel loco, ov’egli si lasciò, morendo.
Oron. O misera Orontea, condotta a tale,
Che a la terra invidiar costretta sei;
Poi ch’ella abbraccia il figlio, a te negato.
Dassi il figlio alla madre universale.
Et a la madre propria si contende.
Nove mesi il portai, sì dolce peso,
E un’hora oggi tener nol posso in braccio.
Voglio andar a trovarlo, a trarlo fuori
Del sepolcro, e baciarlo, e pianger tanto,
Ch’io vi perda le lacrime, o la vita.
Mes. Se pur gite, Reina, almen mostrate,
Che altronde udiste il suo morire. OR. andiamo.
Ahi, ch’io cado: ahi, ch’io moio. aiuto, ancelle.
Nut. Deh, che facesti. ecco la mia Reina
Fuor di sé. conducianla tosto dentro.
Had. Infelice Hadriana, se tua madre
Piange tanto la perdita d’un solo;
Tu che far dei, che duo perdesti a un tempo?
Anzi tre. che perdesti anco te stessa.
Nut. Nel perder de lo sposo hai questo bene,
Che puoi dolerti almanco apertamente,
E sotto vista d’un, pianger un’ altro.
CHORO.
Qual vive in acqua, o in terra
Sì selvaggio animale,
Che potesse ascoltar gli amari lutti,
E ’l gran duol, che si serra
Nel palagio Reale
Con riposato cor, con occhi asciutti?
Ivi s’accolgon tutti
Gradi di Gentildonne
In angosciosi gesti, e ’n nere gonne;
E fanno alti lamenti
Che a fender vanno i venti,
Mogli, madri, e donzelle,
Con grida, ch’ a ferir saglion le stelle.
De la giornata d’hoggi
Si saguinosa, e fera
Piangon dirottamente i mesti casi.
Dove per piani, e poggi
Nel fiume, e a la rivera
Sono i più cari lor morti rimasi.
Piangon gli acerbi occasi
Di tanti huomini illustri,
Bramati, fin che Febo il mondo illustri:
Hanno un conforto solo,
Che son molti nel duolo.
Che al misero è gran bene,
Altri compagni haver ne le sue pene.
Straccia le bionde chiome
La vedova consorte,
Battendo a torto l’innocente petto.
Chiama l’amato nome.
Di colui, ch’ empia morte
Le fura, interrompendo ogni diletto.
Piange ’l diserto letto,
I pargoletti figli,
Privi d’anni, d’aiuti, e di consigli.
Al bel seno stringendo,
Che per altro piangendo
Del lor danno ignoranti,
Accompagnano a caso i mesti pianti.
Stassi da un’altra parte
La sconsolata madre,
Scossa in un’hora de la dolce prole.
Dove Bellona, e Marte
La battaglia e le squadre
Essecra con pietose, aspre parole.
Appresso lei si duole
La tenera sorella,
E l’estinto fratel per nome appella.
Sparsa pel collo il crine
Tien le sedie vicine
Piangendo il morto padre
La figliuola con note amare, et adre.
Ma chi non si dorrebbe,
La strage contemplando,
Che l’aria infetta, e d’horror empie il piano?
Dove’l Tartaro crebbe,
Al regio mar portando
Tributo assai maggior col sangue humano.
Dove vien di lontano
Da spilonche, e da rupi
Turba di cani, orsi, leoni, e lupi
A una funesta cena,
Di cadaveri piena,
Che tutto ’l campo preme
Di vinti, e vincitor confusi insieme.
Non è Selva a lo’ ntorno,
Che non mandi gran frotte
D’augelli, a questa abhominosa mensa.
Così gli huomini il giorno,
E le fiere la notte
Sfogan nel sangue human la rabbia immensa.
Cinzia riguarda, e pensa,
Fuggir da questo cielo,
E le stelle, tirarsi agli occhi un velo,
Per non mirar vivande
Sì brutte, e sì nefande.
E lacerati quivi
Dai morsi i morti, e dagli affanni i vivi.
Del sangue altrui, e nostro
Il terren caldo, e ebro
Pon tema, e doglia in chi passa, o dimora.
A questo horribil ostro
S’aggiunge il fioco, e crebro
Gemito di color, che’n pene ancora
Non son di vita fora.
Chi dunque non si lagna,
E’l pianto universal non accompagna?
Chi (piangendo altri) è in riso.
Di sé tien poco avviso.
Huom non è chi trar puote
Nel commune dolor secche le gote.
Il fine del primo Atto.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Latino solo.
Lat. Con che faccia, audacissimo Latino
Andrai innanzi a la tua Dea, del suo
solo, e caro fratel fresco homicida?
La man del sangue ancor vermiglia, e calda
Di quel che è nato da uno stesso ventre,
E lattato con lei da un petto stesso
Ardirai porle al collo, o porle in seno?
A chi di tanto ben la spoglia e carca,
Contra ogni creder suo di tanta noia
Credi, sciocco, che dar vorrà piacere?
Stimi tu di trovarla sì pietosa,
che se t’havrà ben per l’adietro amato,
Hor l’amorosa fiamma in fiamma d’odio,
E di sdegno non cangi. come spesso
Cortese foco, a cui lieta famiglia
Si scalda, e coce gli opportuni cibi,
Si cangia in tanto ardor, che tutta abbruccia
La casa, e ciò, che vi si trova dentro?
S’hora te le appresenti non fia a punto
Un rinovare in lei l’affanno, come
L’homicida appressandosi a l’ucciso
Dal cadavero uscir costringe il sangue?
Credi tu, c’habbia voglia la infelice,
La sconsolata giovane d’uscire
A udir parole, e prattiche d’Amante,
Anzi crudel nemico, a chiari segni
Ella, che stassi a pianger con la madre
Colui, che amar dovea, come sé stessa?
Ma fingi, ch’ella a suo costume venga.
Con qual cor, con qual’occhio mirerai
La tua luce di tenebre vestita,
La gioia, e’l riso tuo sommersi in pianti.
Lo tuo conforto sconsolato, e mesto.
Lo tuo ben di te schivo, la tua speme
Disperata, e le tue fatali stelle
Girarsi dal tuo aspetto in altra parte?
Potrete, occhi mirar turbato il volto
D’ira, e di doglia, minaccioso il ciglio
Del mio bel Sole, e lacrimosi gli occhi?
Potrete, orecchi, udir gli accenti irati
De la mia cara Donna a l’hor quand’ella
Queste mi dica, o simili parole.
Quando pur di parlarmi il cor le soffra?
“È cotesto il bel premio, ingrato Amante,
Che tu mi rendi? Invece de la vita,
C’hai da me, dare al mio fratel la morte?
Bel pegno certo delle nostre nozze.
Invece de l’Amor, ch’io ti portava,
Odiasti, et uccidesti il mio germano.
Ma lui non uccidesti, anzi l’amore
Ver te de la Sorella. Con quel colpo
Tronchi il filo vital del fratel mio,
E l’amoroso laccio del mio core.
Ciò dirà ella, e più, come a la lingua
sua somministreran l’odio, e l’affanno.
E tu vuoi aspettar questa tempesta,
Questo tuon, questo folgor, che t’opprima?
Eleggi prima volontario essigilo.
Torna più toso a dietro, e tu medesmo
Fa’ vendetta di quel, che ’l tuo cognato
Ti toglie, e annoia la tua cara donna.
Su ’l sepolcro di lui scanna te stesso
A l’ombra del fratello in sacrificio,
Al cor de la sorella in medicina.
Onde Hadriana tua su ’l monumento
Non lacrimi il fratel, che te non pianga.
Deh se morir pur debbo, imitar voglio
La Fenice, la qual morir dovendo,
Nel suo sole affissar vuol prima gli occhi.
Benché posta in quel sol sia la sua morte.
Ah non ti por, Latino, a tal periglio,
Proverà troppo dispietato influsso
Nel capo tuo da la sdegnosa faccia.
I gesti, i detti suoi, son tutti vita.
Mal credi, se ciò credi, fìan mortali.
Mai, Hadriana mia, creder non voglio,
Che giudice sì ingiusto, e sì crudele
Sii, che dar vogli contra a un reo sentenza
Senza prima ascoltar le sue ragioni.
Parte alle parti il giudice gli orecchi.
Dunque da poi, che per l’usata porta
Sì facilmente entrai ne la cittade,
E aperto ritrovai questo giardino,
Com’è l’ordine dato, e par che i raggi
Loro per me celar, celin le stelle,
Attenderò, che fuori esca Hadriana.
Poiché a quest’hora sempre esce la notte
A veder s’io ci son, com’è composto
Tra noi. E par, ch’io senta aprir la porta,
La qual meglio chiamar posso Oriente.
Ecco spunta il mio Sol cinto di nubi
A mezzanotte. Mira, come gli astri
Dan loco al lume suo smarriti in vita.
Come stan l’aure a vagheggiarlo intente.
Felice quel (rispetto a me) che aspetta.
Adhor adhor la pena capitale.
ATTO II. SCENA II.
Hadriana. Latino.
Had. Esci tu poi ancor quand’habbi tempo.
Lat. Riguardando io quel puro, e fermo affetto
Che a servirvi m’inchina, alta signora,
Giurato havrei per quel più riverito
Nume da me qua giù (che sète voi)
Che non potesse in tempo, e in loco alcuno
Succedere accidente, donde io havessi
A scusarmi con voi d’error commesso.
S’error commesso si può dir l’errore,
Che si commette fuor d’ogni scienza.
Hor grazie a Dio. che ’l mio giudice
(ancora che di parte, e di giudice persona
Hor sostenga) non vuol tener di parte,
Ma di giudice ufficio. Né dannarmi
Solo, ma scende a udir le mie ragioni,
Che inappellabilmente in lui rimetto.
E quand’io debba richiamarmi, a l’alma
Pietà, di lui medesmo sia il richiamo.
So, che quantunque il caso del fratello
Non v’apporti quel mal, che forse parvi,
(Anzi la dubbia palma a vostri piega
L’amor diviso de’ parenti vostri
Per duo rivi in voi sola hor tutto accoglie,
Di infanta vi sublima a Principessa,
Lasciando voi di questo Regno herede,
Le nozze vostre agevola, et affretta)
Pur la sua morte (ancor ch’ei l’habbia compra)
V’affligge, vi inacerba a far vendetta
De l’ucciso, e dar pena a l’homicida.
Ma se udirete il mio discorso, spero
Mostrarvi haver quella ragion, che voi
Più desiate, e non credete, c’habbia.
So che’l caso vi è noto. Onde ridirlo
Non convien, ma toccar sol le difese.
De l’entrare in battaglia io non mi scuso,
Poi che una i’ convenia far di due opre.
O trar da la battaglia il padre in pace,
O quinci esser da lui tratto in battaglia.
Onde ritrar non ne potendo il padre,
L’uno effetto di duo far mi convenne.
O accompagnarlo, o stando fuor, mostrarmi
O figlio iniquo, o cavalier da poco,
O prencipe di voi, di stato indegno,
O nemico a mio padre, o amico a voi,
E ciascun di tai segni era mal segno.
Oltra, che la giornata esser non debbe
Senza me. Dove i nostri combattendo
Restar doveano, o vincitori, o vinti.
Se vinti, aitato havrei le schiere nostre,
Anzi le schiere, che già vostre sono.
Se vincitori, a l’hor con lor sarei
Ne la cittade entrato, e havrei difeso
Dal furor militar la cara sposa.
E se dicesse alcun, ch’io son prigione
Vostro, e far contra voi guerra non posso,
Dico, che prigion vostro è solo il core,
E che’l cor contra voi non fe’ mai guerra.
Perché ’l cor mai non fu dov’era il corpo.
Hor discendiamo a quel, che via più importa.
Il fratel vostro sconosciuto venne
A provocarmi, et a combatter meco.
Io, che doveva far? Fingiamo ancora,
Che ’l conoscessi. Il che però san tutti,
E sapete anco voi, che non fu vero.
Insegnatemi voi, fingete voi,
Signora, di trovarvi in loco mio.
Dovea lasciarmi uccidere, et a voi
Uccidere il marito, e voi insieme?
Che s’io misuro ben l’animo vostro
Col mio, potea sperar, che la mia morte
Fosse per generar la morte vostra,
Come dal vostro il mio morir verrebbe.
E s’io lasciava uccidermi, potendo
Difendermi, e difender non volendo,
Non era uno ammazzar me stess? Io a l’hora
Non era ancor de l’homicidio reo?
Né pentirmi potea, com’hora posso.
E voi, e me perdea. né l’homicida
Però forse da’ mei campato fora,
Men teneri di fe’, che de’ lor Regi.
Dunque senza germano, o senza sposo
Vi convenia restar. Se voi più pia
Sorella sète, che mogliera; io certo
son, che’l fratel si lascia per lo sposo.
Se ad ammazzarmi nol mandaste voi
Pentita a esser mia, vaga di sciorvi.
S’io ferìa (lui ferendo) il vostro sangue,
Ei feria, (me ferendo) il vostro core,
(Se finto non è quel, che mi giuraste.)
Dovea fuggire, o rendermi per vinto?
Io, che debb’esser vostro, e a voi congiunto
In una carne, debbo senza macchia
Serbarmi (come voi) per vostro Amore.
Gli sposi avvinti in un nodo, non ponno
Senza l’altro macchiar, macchiar se stessi,
L’honore oltre la vita esser de caro,
E ’l tutto altrui doniam da questo in fuori.
Mentr’io giostrava con colui, e havea
Pensier, che voi la giostra rimiraste,
Havrei potuto sotto gli occhi vostri
Mai risolvermi a rendermi, o a fuggire?
Tolga Dio, che altri mai, che voi mi vinca.
Che a voi sia tal honor commun con altri.
S’io l’uccisi, il valor da voi mi nacque.
Dunque a voi, non a me convien la pena
Di tal colpa, se pur pena ricerca.
Se dar volete pena a chi l’uccise,
Datela a voi, che a me la vita deste.
E quel, che date, mai non ritogliete.
Punite voi, le cui bellezze, vago
Mi fer di vita, e alla difesa pronto.
O perdonate a voi stessa il mio fallo.
Se dar volete pena a chi l’uccise;
Datela a lui, che uscì fuor delle mura
Contra il voler del padre, contra il voto
De’ suoi, e contra ogni ragion di guerra.
Pose ’l tutto in periglio manifesto,
Gettando in altri il peso a sé commesso.
Onde s’havesse ancor vinto, dal padre
Meritava gastigo aspro, e mortale.
Né sentendosi polso atto alla giostra
Corse a sfidarmi, pien di mal talento
Per ammazzarmi, ond’ei sé stesso uccise.
Venne egli stesso ad incontrar la morte:
Se dar volete pena a chi l’ha ucciso,
Datela alla sua spada, che sì male
Il difese. Ma ciò (cred’io) successe,
Che sendogli da voi forse hoggi cinta
Intendendo l’amor, che mi portate,
E me riconoscendo, non mi volse
Ferir, bastando esser da voi ferito.
Né voi già de l’acciar men pia sarete.
La legge natural vuol, che ciascuno
Contra il morir si scherma, e si difenda.
Quinci a ciascun natura arme concesse.
A chi l’unghia, a chi ’l dente, a chi’l veleno,
A chi ’l corno, a chi ’l rostro, a chi la spada.
Che fa il padre, il Re vostro, se non ch’egli
Sé medesmo difende, e le sue genti?
La legge scritta vuol, che si ribatta
La forza con la forza. e lo assalito
Spenga lo assalitor senza gastigo.
Sì che la legge di sua man la spada
Contra gli offenditori offre agli offesi.
La legge de la guerra vuol, che’n giostra
Ciascun s’aiuti, e l’avversario offenda.
A l’huom dato è difendersi da morte.
E perché questo non può farsi senza
Offender quel, che darla altrui si sforza;
Però l’offesa in sua difesa è giusta.
Ma di tante difese in mia difesa
Nel caso del fratel vostro vorrei
Essere affatto privo, quand’io havessi
Lui conosciuto, e conoscendo ucciso.
Ma conosce ciascun, ch’io noi conobbi.
Dal loco non potea saperlo. Uscìo
Fuor de le selve da contraria parte.
Non poteva dal tempo argomentarsi.
Già sapea, che restato egli era in casa
Da le spie, che mio padre ha in questa terra.
Le insegne non potean manifestarlo,
Che peregrine sono. E se co’l padre
Fosse corso a giostrar, potea dal padre
Esser così, come da me fu ucciso.
E voi s’ivi il vedeste (e nol mandaste)
Gli auguraste la morte, e la otteneste.
S’io lasciai di ferir le genti vostre,
Credete, che’l fratel vi havessi estinto,
Quando qual fratel vostro uscito fosse?
Benché non fu. ma vostro, e mio nemico.
Non che un vostro fratel, ma qualunque altro
Havesse ivi invocato il vostro nome.
Nel nome vostro havria trovato scudo
Miglior, che quello, ond’egli era coperto.
Né quando io lo ferii, né quando ei cadde
Per lui sorsero i vostri. Che né i vostri
Il conoscean, se non quando scoperto
Videro il viso smorto, non già smorto
Sì, che più smorto a l’hor non fosse il mio.
E come una sincera posta al specchio
D’una corrotta si corrompe, io a l’hora
Quella doglia sentii, ch’egli sentiva.
A me quivi augurai l’hasta d’Achille,
A’ suoi l’uso de l’api, a lui d’Anteo.
E se ’l mio sangue fosse stato empiastro
Atto a tenerlo vivo, e a farlo sano,
Possa io (com’ei perdeo) perder la vita,
O pur la grazia vostra, (l’ che più stimo)
S’ a l’hora ivi svenato io non mi havessi
Con questo brando mio di vena in vena.
Né dicano color, che me l’han tolto
Vivo di mano, haverlo tolto a forza.
Ch’io quella vita a lui (quando il conobbi)
Donai, che voi a me prima donaste.
Né dica alcun, ch’io trapassassi i segni
(che schermirmi tra assai senza ferirlo)
Che ciò non s’usa. Quando il riconobbi,
Posi tosto nel fodero la spada,
E fui per farle fodero del petto.
Del che, se testimoni produr’ voglio,
Le mie produco, e ancor le squadre vostre.
Tu, ombra de l’ucciso hor qui ti mostra,
E l’innocenza mia meglio difendi,
Che già non difendesti la tua vita.
Ma il maggior testimonio è l’argomento
Che tra voi far potete, e così dire.
L’Amor del mio Latino è vero, o finto.
Se vero; vero è ancor quant’ei mi dice.
Se finto; qual cagione ora il costringe
A venirsi a scusar ne la mia terra,
Né le mie forze con mortal periglio,
Di notte, sol, da’ suoi lontano, poi,
Che da me non ricerca alcun diletto? (glio)
(Ch’altro hor da voi, che’l vostro amor non vo
Ma, che più? Se ’l mio core in mano havete,
Perché ’n lui non leggete i mei penseri?
Queste ragioni, non pur presso a voi,
Ma peso havrian presso alla madre vostra,
che voi vinca in amar, colui, che giace,
Da voi vinta in amar costui, che vive.
Ma se dell’opra mia da me commessa
Al buio, a caso, in vostra, e’n mia difesa,
Trattovi pe’ capei, con arme pari
Mi volete punir; basti la pena,
Che mi dà l’opra stessa, e lo spavento
Del vostro sdegno, che ogni pena eccede.
Ma quando altra ragion per me non vaglia,
Vagliami quel che a tutti gli altri vale.
Ch’io ricorro alli Dei, rifuggo al tempio,
Tempio chiamo il giardin de l’Idol mio.
Pur se nocente mi stimate; e come
Nocente giudicate hor di punirmi,
Movanvi da punirmi gli innocenti.
Che error fece la mia cara sirocchia
(Tenera come voi, non già sì bella)
Cognata vostra, che lo stesso affanno
Proverebbe, che voi ora provate?
Che error fecer mia madre, e la mia sposa
Figlia del buon Re Atrio, che, morendo
Io, non vorran più rimaner in vita?
L’una pria perderà, ch’abbia la nora,
l’altra vedova fia, prima che moglie.
Dunque se giusta giustamento meco
Vi volete portar, debbo ire assolto.
La Giustizia che uccide gli omicidi
Non vuol gastigar l’opra, che se l’opra
Volesse gastigare, i suoi ministri
Poi che avessero ucciso l’omicida,
Sarebbon rei d’altro omicidio anch’essi.
Vuol gastigar la volontà. Se questa
Dunque vuol gastigare; io che non ebbi
Volontà di toccar vostro fratello,
Non debbo per giustizia aver gastigo.
Voi uccidendo me, più grave colpa
Di me commettereste, in uccidendo
Un da voi conosciuto, uno innocente,
Un che v’ama; un che a voi vinto si rende.
Dove tutto in contrario a me successe.
La Giustizia che uccide l’omicida,
Nol sa, vaga d’aggiunger sangue a sangue,
Ma di proporre essempio a chi rimane.
Or quale essempio fia proposto, s’io
Senza scienza mia, contra mia voglia,
Offendo quel, che travestito viene
Per la morte ingannar, che lui non vuole?
Offendo quel, che a provocarmi giunge,
Per la morte chiamar, che da lui fugge?
Giudice saggio non suol dar sentenza,
Che su ’l giudicator tornar mai possa.
Può in voi, può in tutti il mio fallo cadere.
Spesso punir sogliam per vendicarci.
Ma voi sapete, illustre principessa.
Chi fa vendetta, si dimostra forte.
E chi potendo farla, non la face;
Forte si mostra parimente, e pio.
Forte; che far la po'. Pio, che non vuole.
E non pur debbo assolto ir, ma premiato.
Che lo sposo innocente vi difesi.
E se pia piamente hoggi volete
Proceder meco, havrò da voi perdono.
Poiché perdon vi chieggio humilemente.
Una altrui gran pietà non si conosce,
Se a cui perdoni un gran fallo non trova.
Ecco, vi si appresenta hora un soggetto,
A cui d’intorno essercitar possiate
La virtù, che fa l’huom pari alli Dei.
Quel son pur’io, che voi tanto mostraste
Prima d’amar, da voi per vostro eletto.
Voi, che ’n elegger tal giudizio havete.
Ma se disposta sète a darmi pena,
Eccomi presto ad accettarla, e lieto
Pagar con la mia morte il non mio fallo.
Io già fatto l’havrei. già di mia mano
M’havrei dato la morte, ancor che ingiusta,
Ancor che con offesa di innocenti,
Massimamente alhor, che feci il colpo,
Che me più, ch’altri offese. Ma pensando
Che se io così moria, mi diffidava
De la vostra pietate, e vi toglieva
L’occasione, o di mostrarvi pia,
O di punirmi, (e da voi ogni pena
M’è peggior del morir,), me ne ritenni.
Ritenni anco il saper, ch’io, ferendo
Lo mio petto, feriva il vostro volto,
Che impresso ivi si sta per man d’Amore.
E che l’mio cor trovato non havrei
Nel mio sen, poiché s’albergò nel vostro.
Oltra che questa vita a voi donata
Da me, mia non è più. Né per me stesso
Senza vostro voler posso disporne.
Voi, che di voi medesma quel rispetto
Non havete d’haver, potete farlo:
Ecco dunque colui, pietosa donna,
Inginocchiato a’ vostri piedi innanzi,
Che vi fece pur mò sì grave oltraggio.
Ecco la iniqua man, che ’l ferro strinse.
Ecco la spada nuda. Ecco la spada,
Empia ministra del dolente ufficio.
Questa vi porgo, altissima Reina.
Voi la pigliate. Onde al vostro braccio
Alzata al fin, giù declinando poi
Sovra me, porti il flagel vostro seco.
E ’l colpo, che feci io, faccia, e gastighi.
Meschi il sangue del Frate, e de lo sposo.
E tolga il capo al capo del mal vostro.
Ecco, che ’n mano io vi consegno il ferro
Nudo, e nuda la testa in sen vi pongo.
E vitalmi sarà questo morire,
Quando da vostre belle man mi venga.
Così compiti fian gli annunzii tristi,
Che avventò contra me, contra mio padre
Morendo, e minacciando il fratel vostro.
Così compìto fia quant’ei v’impose.
Che sposo non vi sia, se non colui,
Che ’l capo v’offra in man di chi l’ancise.
Così dirò, che notte ho dal mio sole,
E che la vita mia morte m’adduce.
Così dirà ciascun, ch’ove le donne
Vendicate da gli huomini esser denno,
Vendicati hoggi son questi da quelle.
E quel, che armati i cavalieri in campo
Non fecer, fan le verginette in gonna-
M’incresce sol, che non s’ancidan meco
Il Mago, il Portinar, la Cameriera,
Che testimonii fur de nostri Amori-
Acciocché non seguendo più tra noi
Per la mia morte le composte nozze,
Non potessero andarvi diffamando.
Dunque homai proferite la sentenza,
Che a voi, o al fratel vostro m’accompagni.
Had. Scorgo Signor, che forza ne la lingua
Non portate minor, che ne la spada.
E quantunque la doglia del Germano
Quinci; e quindi l’amor, che di voi m’arde,
Mi vadano adombrando lo intelletto;
Pur la ragion discerno, e miro quanto
Giustificata è ben la causa vostra,
E di quanto al fratel son debitrice.
Non vi danno però, né vi perdono.
Che dove huom non ha colpa, non ne deve
Chieder, né riportar perdon, né pena.
Levatevi, Signore, e riponete
La spada, e i preghi, hor ch’io ripongo l’ira.
Che troppo empia sarei, se profanassi
Cotesto amato, avventuroso capo,
Che di duo Regni duo corone attende,
Del gemino valor giusta mercede.
Lat. A le cortesi note, e al cortese atto
Grazie renda colei, di cui io sono
Io ben comprendo, che coteste braccia
Non han potuto sollevarmi in piedi,
Ma mi ponno essaltar fin sovra il cielo.
Non havrà invidia il vostro capo al mio.
Ma la più preziosa, alta corona
Del mio capo sarà del vostro amore.
Chi è colei, che fuor vien verso noi?
Had. E la nutrice mia, cui (sendo morta
Hoggi la cameriera) ho convenuto
L’amor nostro scoprir, non men fedele.
ATTO II. SCENA III.
Nutrice. Hadriana. Latino.
Nut. Ritrahetevi a l’ombra de la Luna,
Che ’l lume suo non giovi, e noccia a un tem
Scoprendovi l’un l’altro, et ambo altrui:
(po, stanchi di sospirar, di pianger fiochi
Tutti in palagio hor tien languido sonno.
Io, poi che non è d’huopo la mia ascolta
Più dentro, uscita son, come ordinaste.
Had. Giovò sempre il restare, e ’l venir tuo,
Nut. Signor, come gran gloria presso a tutti
V’è il vincere un guerrier, che si difende;
Così grave disnor vi fòra, quando
Non favoriste una real donzella,
Che al primo assalto a voi vinta si dona.
Lat. Donna, i conforti tuoi come son veri,
Così soverchi son. Che tanta fede
Troverà in me costei, tanta fermezza,
Quanta io ritrovo in lei beltade, e Amore.
Et hora col periglio, che tu vedi,
A rivederla torno, e a favellarle,
Per ordir meglio i bei nostri disegni.
Had. Fingete pur con tutti esser de’ nostri.
Lat. Io non fingo, anzi è ver, che vostro sono.
Signora, i vostri han posto in rotta, e ’n fuga
Le nostre genti. E ’l padre mio ritratto
A’ confini del Regno in certa villa
(Per passarsene poi subito in Lazio)
Sta raccogliendo le reliquie sparse
Del perseguito essercito. E con molti
Mi ha mandato a tracciarle, e unire in massa
Ma io, ch’altro pensier volgea nel petto,
Come ho sentito dell’amica notte
L’alto silenzio; i mei lasciando; solo,
Anzi di più pensier fatto compagno,
Da Amor guidato, vengo a tor da voi
Partir dovendo, l’ultima licenza.
Non piangete cor mio, levate il volto.
Non guastate piangendo i teneri occhi.
Eh non battete lo innocente petto
Contra ragion. Che colpa ci ha il bel petto,
Se mi parto io? Che colpa ci han le chiome,
Da volerle sconciar? Che colpa il viso
Da volerlo percoter con le palme?
Nut. Tra quante infirmità, tra quante doglie
Ha sotto ’l ciel, non ha maggior di questa,
Che l’amorosa febre in noi produce.
Had. Pietà, cieli, pietà. Pietade, Amore,
Se nel tuo terso ciel le voci ascolti
De’ miseri vassalli, e non sei cieco,
E sordo parimente. O solo e sommo
Ben de l’anima mia, mia speme, dunque
Mi volete lasciar? Daravvi il core
Dunque d’andar senza Hadriana vostra?
E non vi annoderò queste mie braccia
D’intorno sì, che non v’usciate mai,
Qual’Hedera, qual Salmaci, qual Vite,
O qual rete tenace di Vulcano?
Deh fate, ch’io da voi non sia disgiunta.
Lat. Quel, che a voi nego, a me prima negai.
E porto più dolor partendo meco,
Che vosco voi restando non tenete.
Ma, che poss’ altro? Restar non poss’io.
Menar non posso voi. Datemi voi
Qualche via, qualche modo. e poi vedete
Se ad essequirlo mi trovate pronto.
Volete ch’io qui resti, e qui da’ vostri
Vi sia smembrato innanzi a brano a brano?
Volete ch’io vi meni, e a meza strada
Tolta mi siate, o il mio padre ne ancida,
O ’l vostro venga in Lazio a farne guerra,
come n’andò tutta la Grecia a Troia?
E forse avrebbe più ragion di farlo.
E voi d’odio dotata, infamia, e sangue,
Al Regno marital patiate il foco,
E dal Regno natio leviate il meglio?
Amboduo questi regni, che pur vostri
saranno al fin, voi risvegliate a l’armi,
Dove qualunque perda, voi perdete?
E l’amorosa face, che noi arde,
Dolce non sia de’ nostri petti fiamma,
Ma fiamma rea, che i be’ paesi accenda?
Had. E s’io star non potea, non dirò un giorno,
Ma un’hora pur senza vedervi; hor, come
Tanto da voi starò spazio lontana?
E se pensando al partir nostro solo,
Tanto ho dolor, che fia quando parthiate?
Che fia quando poi siate al fin partito?
Ogni dì mi parrà maggior d’un anno.
Il Sol zoppo, il ciel’orbo, il giorno notte,
La notte inferno, l’aria tenebrosa.
Amare l’acque, e vedova la terra.
Saran le luci mie prive di luce,
Dove entrerà, per non uscirne, il pianto.
Dond’uscirà, per non entrarvi, il sonno.
Con voi verrà il cor mio, resterà il seno.
Alfin né morta restero, né viva.
Non morta; sentirò pur troppo affanno.
Non viva; Lungi da la vita mia.
Ite veste, ite gioie, ite cathene.
Prendi, Nutrice, quel, che del fratello
Non m’ha fatto por giu l’acerba morte.
Nut. Figlia, tempra la voce, e tempra il pianto,
Che di pianto maggior non fia cagione.
Lat. Il buon nocchier nel tempestoso mare,
Il fin oro nel foco. E ne gli avversi
Casi provar si suol l’animo saggio.
Armate dunque il cor; dunque asciugate,
Per Amor mio, le rugiadose ciglia.
Had. E voi, signor, perché sì spesso in dietro
Volgete il viso? LAT. Perché ’l pianto vostro,
Come l’acqua di vite il cor m’accende,
Benché da lungi Amor le faci scota.
E Amor qual fabro a quel pietoso humore,
Che va rigando le fiorite guancie,
Gli strali tempra, e immolavi la rota,
A cui gli affili, e ’l petto indi m’impiaghi.
Had. E perché voi ancor di pianto carchi
Portate gli occhi? LAT. deh non mi sforzate
Signora, a dirlo. HAD. ditelo di grazia.
Lat. Voltomi, e piango, come ’l sol la sera,
Che guardandosi indietro annunzia pioggia.
E mentre a confortavi m’affatico,
D’altri ho bisogno, ond’io conforto prenda.
Qual notator, che ’n fiume alto si scaglia,
Per soccorrer colui, che si sommerge.
Né ’l soccorre, e con lui resta sommerso.
Piango, perché due volte, ahimè, mi parto.
Partomi, che da voi mi so lontano,
Partomi, che per mezo mi divido.
E si resta il miglior di me con voi.
Sì che né quì sarò, né dove io vado.
Che andando senza voi, senza me vado.
Had. Restando io senza voi, senza me resto.
Lat. Spronerò inanzi il mio destriero, e Amore
spronerà i pensier miei più forte adietro.
Così sol due farò contrarie strade.
Had. Perché s’ogn’hor mi dai l’aspre tue pene,
Non mi presti hora, Amor, l’aure tue penne
Onde dietro al mio cor mova col corpo?
Nut. Le penne opra l’angel, l’ingegno l’huomo.
Had. Ma, che speme ci è poi? La speme al manco
Suol condir col suo mèle ogni veleno.
Qual fine al fine havrà questo rio stato?
Lat. Quel fine havrà, ben mio, che desiate.
Duo mesi non andran, che ferma pace
Lo cui nodo saran le nozze nostre
Stringeranno tra lor vostro, e mio padre,
Per opra mia. NUT. Dove i figliuoli tanto
S’amano, come odiar potransi i padri?
Had. È pur lungo aspettar. LAT. L’agricoltore
sospira un’anno la sperata messe.
Had. Ma intanto, chi mi fia luce, e conforto
In questa osura, e sconsolata vita,
Ch’io, come tortorella a viver resto?
Lat. De gli amor nostri il secretario fido,
Il Mago, a cui rivolger vi potrete,
Quando accidente inaspettato occorra.
Egli mi avviserà per fidi messi,
Dando a voi mie risposte, e suoi consigli.
Had. E se i petti indurati, e d’odio pregni
De’ nostri genitori havesson fisso
Di non giunger tra lor pace, né tregua?
Lat. A lhor, quando altro mezo non mi vaglia,
Ve ne trarrò per mezo al ferro, e al foco
Senza vostro disnor per viva forza,
Anzi per vivo amor, che a voi mi stringe.
Had. Ma se quando sarete uscito fuori
Del mio Regno, io v’uscissi fuor di mente?
Qual vivrebbe nel cerchio della terra
Più misera di me? La morte prima
Senta, che sentir ciò. NUT. Quel, che non vuoi
Che avvenga, non dei dir, né dei temere.
Lat. Del Sol, del gusto, e del mio nome prima
Mi scorderò, che della faccia vostra.
Né lunghezza di tempo, né distanza
Di loco, né successo, o buono, o rio,
Né speme, né timor, né beltà nova,
Né l’impiombato stral, né l’rio di Lethe,
O carissima donna, faran mai,
Che mi perdiate. Il farà morte solo.
E s’anco dopo morte amar si puote;
Dopo morte d’amarvi anco vi giuro.
Non fia per mutar Sol, ch’io muti mente.
Né, che per cangiar pèl, cangi pensero.
Né che ai freddi anni il dolce foco scemi.
Ogni terra, ogni tempo, ogni fortuna
Vedrammi vostro. Ma cotesta tema
Per qual porta vi entrò, Donna, nel petto?
Se (non ch’altri) lasciai me stesso ancora
Per esser vostro? Habbiate ferma fede,
Ch’io non son per lasciarmi in tempo alcuno.
E se volessi, che voler non posso.
E se potessi, che poter non voglio.
Che poter, che voler, né so, né debbo.
E se va dalla lingua il cor diverso,
I’ prego Dio, che questa acuta spada
Con questa punta, a cui lo appoggio, il passi.
Nut. Dio vi guardi, Signor, di tanto male.
Had. Ma se rompeste le promesse mai
Per forza (che per volontà, son certa
Che non le romperà quel cor gentile)
Io del vostro mentir la pena paghi.
Lat. Come a la vostra la mia destra giungo,
Cosi giungo il mio core al vostro core.
Di ciò te chiamo in testimonio, o Luna,
Che dal ciel piena, e limpida or ne miri.
E voi chiare di lei compagne stelle,
Che voi, prima la terra, e l’erbe il cielo
Terrà, che me tenga altra, che Hadriana.
Nut. La fede sola altrui data in occolto,
E ’l flagel de la propria con scienza
Può tanto in cor gentil, quanto in cor vile
Può ’l timor del supplicio apparecchiato
In tribunal di giudice terreno.
Lat. Hor su, speranza mia, sperate bene.
E con la speme del ritorno lieto,
Temprate il duol de la partita trista.
Che ancor d’Hadria, e di Lazio alta Reina,
E mia sposa vedrovvi ire adorata
Da le madri latine, et Hadriane.
E ’n vece de la spada, che a cotesta
Man regia porsi, porgerò lo scettro.
Had. E ciò mi fa temer. Che a tal conforto
Non mi sento istillar dramma di gioia.
Nut. Chi molto spera, molto ancor paventa.
Had. O Dio, tu solo sai u’, quando, e come
Mai più mi troverò co’l mio Latino,
Lat. Tempo è di porsi in via. Meglio è far tosto
Quanto s’ha a far, che prolungarlo, e insieme
La doglia prolungar pungente, e verde.
Had. Deh, (si mi amate) non partite ancora.
Perché pensando, che partir dovete,
La mente impari a sofferirlo meglio.
Lat. E che facciam più qui, se siam da’ vostri
Cacciati? se lo star qui non ci giova
Ad altro homai, che a punger più la piaga,
E l’un l’altro invitarci al duolo, e al pianto?
E (s’io non erro) e presso il far del giorno.
Udite il Rossignuol, che con noi desto,
Con noi geme fra spini, e la rugiada
Col pianto nostro bagna l’herbe. Ahi lasso.
Rivolgete la faccia all’Oriente.
Ecco incomincia a spuntar l’alba fuori
Portando un altro sol sopra la terra,
Che però dal mio sol resterà vinto.
Had. Ahimè, ch’io gelo. Ahimè, ch’ io tremo tutta.
Questa è quell’hora, ch’ogni mia dolcezza
Affatto stempra. Ahimè, quest’è quell’hora,
Che m’insegna a saper, che cosa è affanno.
O del mio ben nemica, avarà notte,
Perché sì ratto corri, fuggi, voli
A sommerger te stessa, e me nel mare.
Te nelo Ibero, e me nel mar del pianto?
O dalla invidia accelerata aurora,
Che agli altri luce, a me tenebre apporti;
Muti per me l’ufficio, il passo, e ’l nome.
O luce, che mi ferì gli occhi, e ’l core.
O Luna, perché ’l ciel sì tosto lasci?
Nut. Ella, che guarda il natio freddo, fugge
sentendo già scaldarsi a’ tuoi sospiri.
Had. Hoggi sul Regno mio pace si leva;
E ’n me tramonta, e ’n me guerr’aspra sorge.
Lat. Hor troppo il lito d’India ne minaccia.
E qual offesa ebbe da noi? LAT. Come somma
Volontà dunque homai vi abbraccio, o dolce
Cor del mio cor, de la mia vita vita.
Had. Qual mio fallo, qual forza, o qual destino
Mi vi trae de le braccia? Ove sen vanno
I fuggitivi mei, rari diletti?
Lat. Restate in pace, e m’aspettate tosto.
Had. Aiutami, ch’io moro, o mia Nutrice.
Sostentami ch’io cado. NUT. Ahimè, figliuola.
Lat. Deh richiamate l’anima smarrita
A lochi suoi. Sentite, ch’anco in seno
Sète al vostro Latino, e ch’ei v’abbraccia.
Ripigliate lo spirto. aprite gli occhi.
Serbatevi a più candida fortuna.
Vedi tu, Donna, di condurla dentro.
Né parlar, né indugiar più posso. A Dio.
Nut. Ite, e portate nella mente impresso
In quale stato la lasciate andando.
Lat. Scusoti, Orfeo, se per voltarti indietro
Perdersti già la riconcessa sposa,
Ch’io mille volte ogn’hor la perderei.
CHORO
Scotete il giogo dur, rompete il freno,
Sforzate la prigion di Citherea,
O servi all’amorosa, ingiusta Dea.
Poiché ad altro non porge occhio sereno,
Che quando avvien, che pianto stempri gli occhi,
O piaga crudel sangue trabocchi.
Ma, che stupor, che alle ferite rida
Una di Marte, e di Vulcano amica?
Che una di Febo asprissima nemica
Spenga ogni lume in quel, che ’n lei si fida?
Che sangue chieggia, e sol lagrime amare
Una nata di sangue, e nata in mare?
O nel campo d’ Amor cavalier fidi,
Fuggite dai costui feri stendardi
Tosto, bench’ogni tosto sarà tardi.
Che s’avvien, ch’egli ancor molto vi guidi,
Potrà condurvi a un precipizio seco.
E qual guida sperar si può da un cieco?
Qual da un uccel riposo, o qual fermezza?
Qual arte, o qual prudenza da un fanciullo?
Quale speme, qual gioia, o qual trastullo
Da chi la propria madre impiaga, e sprezza?
Qual pietà; qual perdon da un Dio sì crudo,
E qual premio sperar da un Duce ignudo?
Con dura legge Amor, crudel tiranno
Face adorar vana bellezza in terra.
Arma i nemici, e fa agli amici guerra.
Affligge la bontà, prezza lo inganno.
Honora, e premia gesti iniqui, et adri.
Consiglio, e aiuto dà a dui occhi ladri.
Vuol, ch’altri serva senza esser premiato.
Sia senza pena, chi un cor’ ha tolto.
Che chi ancide, e accende vada assolto.
E chi non fece error resti dannato.
Il reo discioglie, e lo innocente lega,
Noce a chi gli offre, e fa penar chi’l prega.
Lo suo vassallo questo empio condanna
A fallaci seguir, nemiche scorte,
E ad amar La cagion de la sua morte.
A por sempre più fede in chi lo inganna,
Ad aspettar, da chi lo offende, aita,
A offrir a suoi nemici in man la vita.
A pascer de’ suoi pianti chi il trafige.
A vivere, e penar tra fiamme, e onde.
A chiamare, e pregar chi non risponde
A render grazie, e glorie a chi l’afflige.
A misurare i campi, e ’l suo dolore,
A contar tutti i passi, e tutte l’hore:
Arde nel ghiaccio, e agghiaccia in mezo al foco
L’amante alge la state, e arde il verno.
L’altrui a doglia, il suo mal prende a scherno:
Corre senza mutar, né piè, né loco
Apre gli occhi al ben d’altri, al suo li chiude.
Le viscer’ offre a fier nemico ignude.
Non gradisce ’l morir, ne ’l viver brama.
La mente al suo ben pigra, al danno ha presta.
Ove sé stesso accenda il foco desta.
Ove sé stesso annodi i lacci trama.
Tra speme falsa, e non dubbii martiri,
Pan di lagrime mangia, e di sospiri.
Ma dove fia dinanzi al crudo arcero
La fuga vostra? nel nivoso Ponto?
Per distrugger le nevi il foco ha pronto.
Forse nel ciel? Nel terzo cielo ha impero.
Sotterra forse in alcun cavo speco?
Ei come Talpa, è per seguirvi cieco.
Vi andrete forse a por tra gli animali?
E fornito di strai, di lacci, e d’arco.
Sott’acqua forse? Ei va di veste scarco.
Nell’aria tra gli augelli? Anch’egli ha l’ali.
Dunque scampar da l’amoroso telo,
Acqua, aria non vi può, terra, né cielo.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Orontea. Hadriana. Nutrice.
Oron. Sgombra, figlia, la nebbia de l’affanno
Da l’aria della mente; e della faccia.
Tra, perché al suo coltor frutto non rende,
E poi, per non turbar le tue allegrezze
Tu stessa a torto. HAD. E che allegrezze madre?
Oron. Le maggiori di quante può donzella
Al mondo desiar che fian radice
In te di contentezza, in noi di speme.
Had. Pur qual subito lampo d’allegrezza
Può rilucermi in notte si profonda?
Oron. Non hai cagion di rallegrarti, figlia,
Tra poche ore aspettando le tue nozze?
E che sposa sarai del più gentile,
Più bello, e forte prencipe, che attenda
Regno in Italia dopo i dì del Padre?
Had. Qual è cotesto Prencipe? ORON. Il figliuolo
Del Re, che a senno suo stringe, et allenta
Il morso al Regno antico de’ Sabini.
Il giovane animoso heri spronato
Da doppio spron, d’amore, e di pietade
Qui giunse, cinto di fiorite squadre
A l’assedio discior da queste mura,
Che già per nostro mal disciolto n’era.
Il padre tuo, che pria lettere, e messi
Sopra questo maneggio havea spedito;
Conchiuse il maritaggio heri in presenza.
E assicurò da’ suoi nemici il Regno.
Non die’ la caccia lor sendo già sera,
E da lunga via stanchi i Sabini.
Né questa notte entrato nel palagio
Sarebbe il Re per la celata porta,
Che nel castel risponde, se’l desio
Di palesarmi quanto era successo,
Non ve l’havesse occoltamente tratto.
Dove anco stassi, e donde uscirà tosto.
Tu piangi? Tu rivolti il viso altrove?
Nut. Esser non può, che vergine inesperta
Non si scuota, e spaventi a questo suono,
E non le paia a prima faccia grave
Ciò, ch’ella ancor non ha provato mai.
Oron. Che rispondi? HAD. rispondo, che non posso
Risponder se non ho prima licenza
Di farlo da colei, che mi domanda.
Oron. Hai licenza, rispondi. HAD. Maritarmi;
Madre, e signora mia, con pace vostra
(Pesami il dirlo, fin su’l cor) non voglio.
Oron. E sei osa di dirlo, e di mostrarmi?
Né sotterra t’ascondi mille braccia?
Non puoi risponder contra il voler mio,
E contra il mio voler disvolver puoi?
Puoi, e vuoi ripugnare a’ tuoi maggiori?
Had. Io non conosco alcun maggior di Dio.
Oron. E che vuoi dir perciò? HAD. Che Dio medesmo
Sforzar non vuol la volontade altrui,
E che né voi sforzar la mia vorrete,
Che mi die’, sua mercè, libera Dio.
E le nozze non hanno effetto, dove
Non dan gli sposi libero il consenso.
Oron. Noi non vogliam costringerti, che vogli,
Ma che vogli voler. HAD. Voler non posso.
Il corpo, che da voi, che da mio padre
Ricevei, dar potete a chi vi piaccia,
(Quando vi piaccia) in preda l’alma, dove
Né voi, né d’egli ha parte, né fatica,
Datami in dono dal Signor di sopra,
Non donerete altrui contra mia voglia.
Oron Se non vuoi, che stia l’alma, dov’è il corpo,
Disgiungerem dal corpo a forza l’alma.
Nut. Figlia non dir così. modi sì strani
Non t’insegnò giamai la tua Nutrice.
Buon figlio haver non de’ proprio volere
Dove al voler paterno s’attraversa.
Se intelletto non hai, figliuola, credi
A chi n’ha più di te. S’hai intelletto,
Intendi, che dal padre, e dalla madre
Vinta nel senno sei, come negli anni.
E che questi ad amar te cominciaro
Pria, che tu stessa te medesma amassi.
E però credi, che i parenti tuoi
Sendoti affezzionati, e sendo saggi
Non ponno errar nel procurarti il bene.
Oron. L’ho udita, e a pena alle mie orecchie credo.
La veggio, e a pena credo agli occhi miei.
Nut. Temprate l’ira voi, somma Reina.
Che a poco a poco ella s’andrà avvezzando
A consentirvi. Tra le fiere sono,
Tratte dagli antri, indomite, e silvestri.
Che dai vezzi, e da i commodi addolcite
Con sue lentezze il tempo, humilia, e doma.
Prendo il savio consiglio, che mi dai.
Cosi prenda costei quel, che a lei desti.
Udite dunque le sue scuse prima,
Favellando con lei più quetamente.
ll farò, purché al fin meco s’accordi.
E al mio voler la mente sottoponga,
E all’anel dello sposo offra la mano.
Se ’n tutta la mia età corsa fin’hoggi,
Madre, io qual figlia ubbidiente mai
Le labra a contradirvi non apersi;
Ma del vostro voler legge mi feci;
Turbar non vi dovrete a questa volta,
Se al vostro imperio, e all’uso mio resisto.
Ma con la rimembranza del passato
Perdonarmi il presente. OR. Anzi per questo,
Credo, che non vorrai senza construtto
Romper la tua ben nata, antica usanza,
E la perpetua in ubbidir chiarezza,
Di cui ti vieni ornando a dramma a dramma;
Perdere, et oscurar così in un punto.
E voi, che madre pia sempre mi foste,
Di compiacer tutte mie voglie, vaga,
Non vorrete mutarvi hoggi in matrigna.
Rendimi dunque grazie, e dammi il premio
Di tanta cortesia, che ’n me provasti.
Non ripugnando a quel, di c’hor ti prego.
Torrò dunque marito, con cui debbo
Viver fino alla morte, senza averlo
Veduto prima? OR. Ei fa teco il medesmo:
Così l’ubbìdienza fia più grata.
Con più sano occhio noi per te il vedemmo.
Had. Vedesti il volto, e l’animo sta chiuso.
Oron. Tu, dunque, a che volevi haverlo visto?
Had. sono ancor troppo tenera alle nozze.
Oron. Se sì tenera sei, lasciati dunque
Facilmente piegar. HAD. Son troppo acerba
Al maritaggio, dico. OR. Acerba certo.
Al maritaggio no, ma al voler nostro.
Had. Senza voi non saprei, senza mio padre
Vivere un’hora. e uscir di casa vostra
Non voglio ancor. Né voi sì crudi, credo,
Sarete, che scacciarmene vogliate.
Oron. A ciò provisto habbiam. Viene il tuo sposo
In casa nostra. In lui tuo padre vuole
Por la somma del Regno, io in te del tutto.
Had. Madre mia cara io voglio ancor qualche anno
Viver sotto la vostra disciplina
Beendo i saggi vostri, almi ricordi.
Oron. Fai ben s’hai cotal animo. il mio primo
Ricordo è, che ubbidischi in questo a noi.
Had. Io, che del mio fratel morto, la imago
Lacera ho innanzi, havrò pensier di sposo?
Oron. A punto questa è la cagion, che noi
Ti marithiam. Per supplir dove ei manca.
Perché non resti senza herede il Regno.
Tu in loco del fratel lo sposo acquisti.
Il genero habbiam noi del figlio in vece.
Had. Disubbidir non voglio al gran precetto,
Ch’egli mi diè nel passo estremo; voglio
Chi mi darà l’anel, la testa prima
Mi dia quel, che ’l mio germano uccise.
Oron. Non ti metter pensier, ch’egli è per farlo,
E perché tu il disponghi, hor fian le nozze.
Had. Vo pria piangere un anno il mio fratello.
Oron. Stato è pianto abbastanza dalle piaghe
De’ suoi nemici in lagrime sanguigne.
Pur se piangerlo vuoi, piangi anco sposa.
Il che tanto farai più di cor, quanto
Ti veggia collocata mal tuo grado.
Fra un anno sarai gravida d’un figlio,
Onde forse uscirà l’alta vendetta
Cantra tutto’l paese de’ Latini.
E questo dal fratel fia più gradito,
Che le lagrime tue sterili, e vane.
Had. Dunque hor tutta s’accoglie in me la guerra?
Oron. Anzi tutta la speme dello stato.
Had. Perché non aspetthiam, che s’oda intorno,
Che colui, che sarà genero vostro
Re sarà ancor di questo nobil Regno?
Che forse appariran più alte nozze.
Oron. Affrettiamo il locarti anzi per questo.
Che molti, non di te, ma del tuo regno,
Innamorati, non vengano a gara
A chiederti. E noi dar non ti potendo,
Fuor che ad un sol, non siamo astretti agli altri
Dar ripulsa, e non ci tiriamo adosso
L’odio di tutti i Prencipi vicini.
Né vogliam, che di noi più alta vadi,
Né di te stessa. Può cader chi sale.
E il Re de’ prima perder la corona,
Che romper la sua fede. HAD. Io già non sono
Tenuta ad osservar le sue promesse.
L’erede, che aver vuol l’ereditade,
Le promesse osservar del padron deve.
Had. Lasciate almen, ch’io mi rihabbia alquanto
Dal dolor del fratel, che ancor mi preme.
Né sì languida, e brutta alcun mi veggia.
Oron. Anzi per iscusar la tua bruttezza,
Il fresco affanno tuo, verrà opportuno.
Had. Concedetemi almen termine breve
A pensarvi a dispormi. ORON. ogni consiglio
Di noi Donne improviso, è assai migliore,
Senon quel, c’hora hai tu. Poi qui condotto
E il prencipe adescato a questa speme
(E quel, ch’è più) tra noi con l’arme in mano.
Hora ritratterem quanto si è fatto?
Hora direm, che la figliuola nostra
Non vuol con nostro, e suo disnor? Che noi
Non possiamo voler se non vuol ella?
Così di guerra in guerra andrem cadendo?
Had. Io dunque son la vittima, che deve
Tosto cader per l’acquistata pace.
Ma se non val ragion, vagliano i preghi.
Oron. Se vuoi, che ’l prego tuo meco habbia forza,
Che non l’han teco i miei, che poi fur primi?
Ma per me ti darei qual ti piacesse,
Quando fosse anco il figlio di Merenzio.
(Benché so, che nol vuoi, che l’odii a morte)
Ma il tuo padre, e signore (a quel, ch’io stimo)
Vorrà, che a senno suo, non che a tuo facci.
Et ecco a punto, ch’egli esce col mago
(Che hersera entrò con lui per consolarlo)
A lui ti volgi, e lui medesmo ascolta.
ATTO III. SCENA II.
Hatrio Re. Hadriana. Orontea. Mago.
Hat Credo, Hadriana, c’habbi già raccolto
Da la Reina quanto habbiam disposto
Di te. Che sai, che vigiliamo ogn’hora
Sovra il tuo ben con attentissimi occhi.
Resta, che ti disponghi, e ti apparecchi
A le tue nozze. e levi al ciel le mani.
Che né tu, né d’alcun di te più saggio
Né con man, né con lingua, né con mente
Saputo havrebbe fingerti uno sposo
Miglior di quel, che noi t’habbiamo eletto.
Che a te giungersi, e a noi succeder merta.
Che veggio? Piangi forse? Che ti affligge?
Di che sospiri? A chi dich’io? Rispondi.
Non vorrai quel che vuole il Re, e tuo padre
E la tua genitrice, e’l tuo germano
(Benché già morto) e tutto il regno insieme?
Had. Questo mai non vorrò, padre, e da questo in-
Fuor, non vi negherò cosa altra mai.
Hat. Sei Hadriana, o sei un mostro, o sei
Uno spirto, o una furia dell’abisso?
Tu non vuoi? A voler ti sforzeremo.
Had. Sforzato esser non può chi sa morire.
Hat. Tu morrai. HAD. Girò incontro a mio fratello.
Hat. Qual mano mi ritien da stringer’hora
La giusta spada, e scioglierti dal busto
Quel capo, onde già sciolto è lo intelletto?
Che porta quella lingua audace, e degna
Che dopo sì profana empia parola
Non pronunzii mai più parola alcuna?
Tu, tu, figlia, proterva, havesti ardire
Al Reale, al paterno imperio opporti?
Se di tua madre il casto animo noto
Non mi fosse (ascoltando quel che dici)
Giurerei, che non fossi mia figliuola.
Ah sfacciata, impudica. ORON. Moderate
L’ira, Signor, ch’ella sarà contenta
Di quanto a voi fia a grado. Il so ben’ io.
Alla inesperienza verginale,
E al dolor del fratel, date perdono.
Hat. Donzella, che ritrosa alle sue nozze
Troppo si rende, per pietà nol face.
Ma per pensiero immondo ascoso in seno,
Che non osa mirar la luce in faccia.
Oron. Al voler nostro, e al giogo maritale
Pentita del suo error, piegherà il collo.
Hat. O a giogo maritale, o a mortal colpo.
Stai fissa ancor ne la pazzia di prima?
Had. Padre, voi ben potete trar la spada,
E quella per li fianchi, e per lo petto
Mille volte passarmi, ritogliendo
La vita che mi deste, ch’io humile
Starommi, e ubbidiente a’ colpi vostri;
Ma la mente invisibile, immortale,
A cui fren non può por forza, né ingegno,
Né con foco potrete, né con ferro
Vincer, né ritener. D’ogni supplizio
Avete potestà su questo corpo
Generato da voi, da voi prodotto.
Su l’alma no. Però canchiudo, ch’io
Porger più tosto eleggo il collo al ferro
Micidial, che alle braccia dello sposo,
Hat. Non m’impedir, che per coteste chiome
Prenda questa Megera, e di mia mano
Sacrificio ne faccia ad Himeneo.
Mag. Fermisi vostra Maestà, Signore,
Che star giunti non ponno il Regno, e l’ira.
Poi che ’l Regno è una giusta signoria,
Et una ingiusta servitute è l’ira.
Hat. Può esser, c’hieri, et hoggi i mei figliuoli
(Anzi non mei, che regger non li posso)
Lega a disubidirmi habbiano fatto?
E ch’esser di tai figli io voglia padre?
Esser può, che tu sii prima sì ardita,
Che ardisca dirlo, e poi sì pertinace,
Che perseveri ancor nel tuo parere?
Né di vergogna il tuo viso s’accenda,
Nè la tua lingua di timor s’agghiacci?
Che sprezzi quella forza, e quello sdegno,
Che paventa ciascun di questo stato?
E di chiamar colui per padre ardisca,
A cui tu neghi esser figliuola? Spento
Sia il seme di tai figlie. Io vo più tosto
Sentir la doglia della vostra morte,
Che l’odio della vostra ingrata vita.
Mag. Figlia, habbiate di voi stessa pietade.
Hat. Quest’è la somma. Io torno nel palagio
Per passar nel castello, et indi uscire
Per la porta, ond’io venni, e giunti in campo,
Dividere egualmente tra’ Soldati
Le guadagnate spoglie de’ nemici.
Poi col prencipe sposo darò volta
Nella cittade a celebrar le nozze.
E (testimonii siate voi) ti giuro
Per questa sacra e coronata testa,
Per questa invitta mia, vindice destra,
che se di ripugnanza, o di tristezza
In un minimo accento, un minim’atto
Mostri un sol segno, io lascierò un essempio
A tutti i padri, e a tutte le figliuole
Perverse, come tu; gravi, com’io,
A quei di farsi riverire, e a queste
Di riverirli, si spietato, e chiaro,
Ch’ogni etade, ogni historia, ogni linguaggio
Habbia di che parlar, di che stupirsi.
E d’Eolo, e d’Athamante, e di Saturno
Mi mostrerò più crudo. Sappi certo
Ch’io voglio quel che voglio, perché è giusto.
E voglio quel che voglio, perché voglio.
E pensa di corcarti questa notte
Nel letto maritale, o nel sepolcro.
Oron. Non ve ne andate voi di grazia, o saggio
Mago, e gran secretario delli Dei,
Ma restando, provate a questa sciocca
Persuader con vostri dotti avisi
E celesti ricordi, il proprio bene.
Hat. Restate, poi che alla reina piace.
Mag. Farò, per farlo, ogni possibil’opra.
Oron. Andiamo dentro, tu Nutrice, e voi
Amiche Donne. Voi, Signor, restate
Qui con costei. Tu, figlia, resta, e ascolta
Quest’huom, che l’ascoltarlo sempre giova.
ATTO III. SCENA III.
Mago. Hadriana.
Mag. Signora, io veggio ben, che la Fortuna
Cominciato non ha istancarsi
A pungervi, e piagarvi d’ogni parte.
Di quel, che più bramate esservi parca,
E prodiga di quel, c’havete a schivo.
Benché non so, se la Fortuna, o voi,
Più valor mostri, e più costanza serbi.
Che vi pare hor ch’io faccia? Ch’io v’esshorti
A novo maritaggio, o ch’io m’assida
A sospirar con voi? Che rispondete?
Had. Che volete, Signor, che vi risponda,
Se non, che quando una di noi ci nasce,
Se le devrebbe far del proprio sangue.
Il primo bagno, e culla del feretro?
Che posso dir, se non dolermi al cielo
Dello infelice stato di noi donne,
E invitar tutte in suon flebile unito
A pianger meco le miserie nostre?
Che cessiam dunque, o donne, d’accordarci
A pianger tutte insteme i nostri mali?
Di pigliarci per mano, e disgombrando
Il mondo parzial, di noi dolenti
Correre ad affogarci in mezo all’acque?
E che vogliam far qui tra padri duri,
Tra crude madri, fra infedeli Amanti,
Fra sposi alteri, Tra tiranni ingiusti,
Tra gli huomini, mortali a noi nemici?
Mag. E ’n qual profondo mar le vele vostre
Portar lasciate ai venti dello sdegno?
Hor non sapete voi, che la virtute
Da’ contrarii agitata mei’ si scopre?
Non sapete; che odor soave, e grato
Rendono a l’hora gli arbori odorati,
Quando soffian tra lor contrarii venti?
Tempo non v’è da spendere in querele.
Discorriam dunque chetamente il tutto,
E veggiam se rimedio vi si trova.
Had. E qual consiglio, o qual rimedio a questo
Si può trovar, se nol trovate voi?
Far sapere a Latino i gran travagli,
Di cui sorte improvisa hor mi circonda,
Qual fiera cinta d’arrabbiati cani
(Con lui partita ogni ventura mia)
Non possiam che per farlo, huopo è di tempo.
Impetrar tempo non si può. tentato
Ho questo prima con ripulse aperte,
E preghi simulati. E questi, e quelle
Riuscitemi son d’effetto vòte.
La madre, il padre fier
(se però padre, se madre denno dirsi aspri nemici)
Voglion, che questa sera i’ chiuda gli occhi
Nella morte, o nel prendere il marito.
Che ’l breve spazio di tre giorni soli
Comprerei con tre anni di mia vita.
Essere a colui sposa, io non consento.
E tutto trarmi dalle vene il sangue
Pria lascierei, che questo sì di bocca.
Qual fé, qual cor darei a lui, se dato
L’ho già a Latino? come potrei farmi
Sua, se mia più non son, ma tutta d’altri?
Colui meco giacendo, giacerebbe
Con un cadaver puro, o un fier nemico.
Lasciar lo mio Signor, né vo, né posso.
Posso, e voglio lasciar prima la vista,
Anzi la vita, che sol vive, e nacque
Per esser cara a lui, da lui goduta.
Ben si dorrebbe, e giustamente, ch’io
Tanto della sua fé temuto havessi,
E la mia poi sì tosto havessi rotto.
Come colui, che navica, a cui sembra,
Che parta il lido stabile, e part’egli.
Anzi il giudicio in sé, li Dèi giurati
Da me, torrebbon con giusto gastigo,
Facendomi provar, che alcun non deve
Più tema haver d’huom, che de li Dèi.
Scoprirlo al padre è vano. E chi non vede,
Ch’ei vorrà prima, ch’io di fede manchi,
Che mancarn’egli? Ma facciam, che voglia.
Quand’egli intenda poi qual’io m’elessi,
Non leverà da farlo ogni pensero?
Ma quando balenasse anco speranza,
Che volesse mancar di fede il padre,
E giunger mi volesse a un suo nemico;
Chi terrebbe giamai sì grande ardire,
E sì picciol pensier di sua salute,
Che portasse a mio padre annunzio tale?
Alla madre scoprirlo fòra peggio.
Di tanto sdegno sta infiammata contra
Chi la spoglia dell’unico figliuolo,
Che pietose appo lei Progne, e Medea
Potrebbon dirsi. E ancor Tigre, a cui habbia
Veloce cacciator, rubato i figli.
Nascondermi, o fuggir non m’è concesso.
Quanto più alto è il grado, ov’hor mi trovo,
Tanto vista, e notata meglio sono.
Come cittade in alto poggio assisa.
Prender lo sposo, che mi dà mio padre
Per farne strazio poi la prima notte,
(come di Danao fer le ardite figlie,
Riempiendo io tra lor lo scemo loco)
Troppo apporta periglio, e troppo danno.
Che prima, ch’io levassi a lui la vita,
Egli levato havrebbe a me l’honore.
L’honor, che al mio signor solo conservo.
Dissuader colui dalle mie nozze
Potrei sperar, quand’io non fossi herede
Di questo ricco, e bellicoso regno.
Ma il mio Regno medesmo hor mi fa guerra.
Che si de’ dunque far? Voi, mio gran Mastro,
Che alta scienza, esperienza somma
Nelle divine, e umane cose havete,
E havete potestà di parlar meco,
D’ogni afflitto speranza, e aiuto certo;
Voi, che del nostro amor principio, e mezo
Foste; voi, cui Latino mi commise,
Ch’io ricorressi in ogni mio bisogno;
Per l’amicizia candida, e tenace,
Che con l’amante mio giunta tenete;
Per quella confidenza, ch’egli ha in voi;
Per quella riverenza, ch’io vi porto;
Per liberar dall’ira acre del padre,
Dalle rapaci man del novo sposo,
Dallo sprezzar la fede, altrui giurata,
Dal perder l’honestade altrui dovuta,
O da morte, e da inferno una donzella,
Figlia d’un Re, d’un vostro amico sposa,
A voi raccomandata, a voi ancella,
Amante sì fedel, sì giovanetta,
Lungi dal suo amator, del fratel priva,
Dal padre, e dalla madre abbandonata,
Che non sa, che non vuol volgersi altrove;
Tentate, aprite, imaginate modo
Di darmi alcun soccorso, il qual s’io vile
Femina a riconoscer non son atta;
Riconosciuto fia dal mio Latino
Cui la vita due volte havrete dato
La mia, e la sua, che nella mia si vive.
Deh non v’incresca farlo. Poi che l’uno
Prender de’ duo partiti mi bisogna.
O che mi diate voi presto consiglio,
O ch’io morte prestissima mi dia.
Mag. Coteste vostre lagrime, con voi
Movonmi a lagrimar. Né ciò ricuso.
Quando più honesto è il pianto che spargiamo
Ne le miserie altrui, che nelle nostre.
Ma in tanta angustia, e inopia di partiti
Riprovati da voi, struggomi dentro
Di voglia, e d’impotenza d’aiutarvi.
Meco discorro, e cerco, e trovo questo
solo, che nulla trovo. HAD. Io so, Signore,
Che il saper vostro è tanto, che al ciel poggia,
Sotterra scende, e l’aria, e l’onde abbraccia,
E mi potete aitar. Pur quando d’altro
Non vogliate aiutarmi, almen vi prego,
Che una mi diate, o due di tosco dramme,
Che di Nettare invece eterne saranno.
Quel, che a’ dannati è pena, a me sia grazia.
Di questo ho somma sete. e vi prometto
Render del mortal don grazie immortali.
Perché con men mio carco, men dolore
Del mio Latino, con maggior prestezza,
E con minore strepito i’ mi sciolga
Da la vita, dal duolo a e dalle nozze.
Altramente, so ben, quel ch’io disegno.
Divenuta crudel contra me stessa
Con maggior biasmo mio, maggior sua doglia
Nel mio petto (mercè la pronta mano)
Convertirò l’inessorabil ferro.
E vedrò se mio padre sarà buono
Per darmi, mal mio grado, hoggi marito.
Mag. Voi già mi sconguiraste per tai cose;
(Che tale amor porto a Latino, e tale
Ad Hadriana; E con si forti nodi
Legano i dolci preghi un cor gentile)
Che grazia alcuna a voi negar non posso.
Pregovi ben, che ciò resti sepolto
In profondo silenzio, e ’n alto oblio.
Onde la mia pietà non sia, com’acqua,
Chi gli altri monda, e se medesma tinge.
Had. Datemi pur questo velen, che questa
La via proprio sarà d’assicurarvi,
Che ciò non s’habbia a risaper. MAG. Veleno
Non vi darò già io, che s’io ve’l dessi,
Degno i’ sarei di berlo poi. Ma intenta
L’orecchie, e’l cor prestate al mio consiglio.
Io vi darò una polve, che mi diede
Di sua man propria il Sonno a l’hora, quando
Io visitai le sue cimerie case,
Piena di inestimabile virtute.
Questa beendo voi con l’acqua cruda,
Darà principio a lavorar fra un poco.
E vi addormenterà sì immota, e fissa,
E d’ogni senso renderà sì priva:
Il calor naturale, il color vivo,
E lo spirar vi torrà sì, sì ’i polsi,
(In cui è il testimonio della vita)
Immobili staran senza dar colpo;
Che alcun per dotto fisico, che sia,
Non potrà giudicarvi altro, che morta.
Et io, che lo saprò, ne starò in dubbio.
E tante ore starete cosi, quanta
Fia stata la misura della polve.
Ecco l’arca real là fuor del tempio,
Dove i defonti della casa vostra
Composti son, dal fratel vostro in fuori.
Per morta in questa vi porran. Ma dite,
Non prenderavvi horror di tanti morti?
Had. Se questa via dee darmi al mio Latino,
Non per l’arche passar fra i corpi morti;
Ma tra l’alme dannate per l’inferno,
Non mi spaventerei. Seguite pure.
Mag. Tra tanto manderem fidato messo
Occoltamente in fretta al vostro Amante,
Che poco ancor da noi lontan camina,
Con lettere secrete ad avvisarlo
Di tutto ’l fatto. Il qual senza dimora
A dietro l’orme rivolgendo, tosto
Sarà qui giunto, et egli, o
(se fia tardo alquanto) io vi trarrò de l’arca fuori.
E travestita andrete fuor con esso.
E così nella morte, e nel sepolcro
La vita troverete, e il maritaggio.
Così l’ira paterna fuggirete,
Le odiate nozze, e con pietà commune
senza alcun biasmo, senza alcun periglio
Lieta cadrete al vostro amante in mano.
Had. Trovar non si potea strada migliore.
Né di voi sperar altro si doveva.
Né d’altro da me credersi era giusto
Mag. Ecco la polve, ch’io vo darvi. tanta
Vi farà morta star ben sedici hore.
E sedici hore ben sono abbastanza.
Prendete, e fate, com’io dissi. HAD. In tanto
Non vi si scordi, che ne vada il messo.
Perché n’habbia il mio amante avviso tosto.
O virtuosa polve, fammi lieta.
Fa’, che’n polve non vada il mio disegno.
Chi di me fia più fortunata in terra?
Signore, odi il mio prego, e l’essaudisci.
Mirerò mai più lieta il mio Latino?
Mag. Entrate in casa, io dirò a queste donne,
Che a punto ad incontrami hor escon fuori,
Che disposta venite a queste nozze.
Donne, fornite il nobile apparecchio
De le beate nozze, e ’n chiaro grido
Invocate Himeneo. Poi ché placata
Vien la novella sposa al suo marito.
CHORO
Specchio del dì, foco celeste, e sacro
Al lido occidental porta la faccia
Spronando col desio nostro il camino,
E nel salso del mare, ampio lavacro
Tu la tua Theti in dolci nodi abbraccia,
E la sua sposa il prencipe Sabino.
Prolunga il matutino,
Pensa stringer la Ninfa tra le braccia,
Di cui mutata i rami, hor ti consacro.
Fa’ vendetta di Clizia; ch’ella tardi
Più dell’usato il tuo bel viso guardi.
E tu, s’a riscaldarti il freddo seno,
Cinthia, entrar mai d’Amor fiamme cocenti
Da i Lammii, o da i Menalii sassi scosse;
Nel theatro del ciel puro, e sereno
Scopri veloce i tuoi forbiti argenti,
Tra le compagne in folta squadra mosse.
Tu figlia di Minosse
De l’aureo cerchio tuo, di rai lucenti
(Come d’ogni virtute il capo ha pieno)
Cingi alla sposa nostra hoggi le chiome.
Così dato le havrai la gloria, e’l nome.
Tu, ciel, comincia accender le tue stelle;
Tu terra, a gara alluma olivo, e cera,
Portando i cigni quel, questa le pecchie.
Sicché, se’n terra, o in ciel di più fiammelle
Splenda, non sappia pur la stessa sera,
Che fuor d’ogni uso attonita si specchie.
Il tutto hor s’apparecchie
Che poi su per li tetti a schiera a schiera
Le lucerne comparse, e le facelle
Della notte squarciando il fosco velo,
Emule sian dello stellato cielo
Vieni agli sposi, e tu notte beatrice,
Lunga trahendo al trappassar dimora,
Sul tuo stellato carro trionfando.
Vieni, poiché saper sola a te lice
De’ lor diletti onesti il tempo, e l’hora.
E come l’ape i fior va depredando,
Tu va, saggia, adunando
Da’ bei lumi, onde ’l ciel tutto s’indora,
Ogni influsso più prospero, e felice.
Poi tutti insieme accolti, eletti, e novi
Sopra i duo sposi a man piene li piovi.
Tu le mani intrecciato, e ’l viso cinto
Della tua casta, immaculata face,
Vieni, è grato, e legitimo Himeneo.
Del grazioso giogo il collo avvinto,
Che ’n duo corpi una sola anima face,
Lasciando il chiaro vetro Pegaseo.
Voi, che al pastore Ascreo,
Dotte sorelle, apriste ingegno audace.
E tu, Febo, sgombrando Eurota, e Cintho,
Portate a queste nozze il suono, e ’l canto,
Cantate degli sposi il doppio vanto.
Vieni del sommo Re moglie, e sorella,
Che hai regno sopra i geniali letti
Con Lucina dipinta di pietate.
Portando di tua man le caste anella.
Che insegnino a goder casti diletti,
Sulle Hesperide piante, a nel ciel nate:
Con gemme sì pregiate,
Che ’l lor pregio la sposa in modo alletti;
E le dita, anzi ’l cor le stringa, ch’ella
In vece di tai gioie non si aggrave
Dar la più cara, e ricca gioia, che have.
E tu Prometheo, al lume eterno ascendi;
E avvicinando a quel l’audace verga;
Del divin foco haver semi procura,
E a questi sposi poi le facci accendi.
Tu segno amato, in cui a l’hora alberga
Il Sol, che’l Capricorno più non cura
(Accioché un’acqua pura
S’appresenti a gli sposi, e ’n lor s’asperga)
Con pace del tuo amante a noi discendi.
E de l’acque, che stan su ’l fermamento
Giunte in ghiaccio, empi pria l’urna d’argento.
Voi, Dive, a queste nozze venite anco,
Che attorceste gli stami altrui vitali,
E col fuso adduceste un sì bel Sole;
ornate questo dì d’un velo bianco,
E trame apparecchiate auree immortali
Per quando giunga la bramata prole.
Lo sposo homai si duole,
Hespro, di te, che innanzi al giorno salì,
Né di correre ancor ti mostri stanco.
Rimanti al Sol da tergo, accioché come
Tu muti, muti la Donzella il nome.
Il fine del Terzo Atto.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Messo. Choro.
Mes. O Chiaro occhio del ciel, che non ti ammanti
D’una pallida ecclissi, e tenebrosa,
Sendo ecclissati i bei lumi, onde havevi
La luce, come l’ha da te la Luna?
Né più potendo tu co’ raggi tuoi
Cosa mostrarne, che ne piaccia al mondo?
Mentre nell’aere circosparso appesa
Penderai; piangi, o terra, che prodotto
Hai la mortifer’ herba, il fier veleno,
Che ha dato morte alla real Donzella.
Non rendete più grazie al Sol nascente,
Herbe, il mattin, com’è costume vostro.
Poi che alcuna di voi virtù non hebbe
D’essaudir nostri voti, e sanar lei.
Cho. Ahi, che voce si sente
Dietro a noi sì dolente?
Mes. Ah Donne ingrate, e più, che marmi dure
(Che questi almen tacendo mostran segno
Di pensier, di dolor, di meraviglia)
Che fatte di cotesti accenti lieti,
Da queste porte mille miglia, e mille
Banditi eternamente? è questo quello,
Amor, che al Re portate, e alla figliuola?
Cho. Perché contra ragion così ne incolpi
Messo gentil? Palesa ancora a noi
Quale improviso, insolito accidente
In sì questa bonaccia
De la gioia real turba la faccia.
Mes. Voi dunque qui cantate, e non sapete
Il pianto ancor, che si fa dentro? CHO. Nulla
Sappiam di ciò. Deh non t’incresca dirlo.
Mess. Dirò, sè dai singhiozzi, e dai sospiri
De la voce il camin non m’è interchiuso.
Cho. come al giorno la notte è ogn’hor vicina,
Così col riso il pianto ogn’hor confina.
Mes. Dopo il secreto ragionar contesto
Fra il gran Mago, e la vergine Reale;
Poi ch’ella nel palagio, esso andò al Tempio,
Le donne ornate di letizia il volto,
Ruppero dentro, e accelerando i passi,
A l’antica reina rapportaro,
Come la figlia inespugnabil pria,
Con accorto consiglio arresa s’era.
E rotto il duro suo primo proposto
A le aborrite nozze era discesa.
Cho. E fu pur ver. Se ’l vero egli ne disse.
Mes. Del, che lieta Orontea tosto si trasse
A recitarlo al Re, che d’ira acceso
Contra la pertinacia della figlia,
Da qutesti tetti ancor non era uscito,
De la cittade, a gran negocii intento.
Mentre assisa col Re stava Orontea,
Mosse Hadriana: e innanzi a lor comparsa,
In supplie sembiante, e ’n gesto humile,
Cader lasciossi riverente a terra
A piè de’ gran parenti; e’n lor figendo
Gli occhi; sciolse la lingua a queste note.
O genitori mei, con l’ostinata
Durezza, onde mi cinsi il cor d’intorno;
Se pur v’offersi (che vi offersi certo)
Pentita del mio error, conoscitrice,
In colpa me ne do con questi colpi,
Che la man nuda al petto nudo imprime:
(E ciò dicendo percoteasi il petto)
E d’havervi noiato ho maggior noia,
Che non haveste voi del mio noiarvi.
E più digiuna della pace vostra
Son, che non sète voi delle mie nozze.
E quinci mai non sorgerò, se voi
Sovra la testa mia non ispargete
Del bramato perdon l’alma rugiada.
Che s’egli avvien, che chiave avara questo
Sospirato thesor mi neghi, e chiuda;
Mi parrà, che fuggendone Himeneo,
A le mie infauste, e sfortunate nozze
Col velenoso crin, Megera sieda.
E trattone il dì d’hoggi, vi prometto,
Che mai più non udrete questa lingua
Levarsi contra voi, né questo core.
Cho. Parole da spezzare un cor di marmo.
Mes. Di tenerezza lacrimando a l’hora
I genitori suoi, l’alzar da terra.
Quei per la destra man, questa per l’altra.
E stampandole doppio bacio in fronte,
Et influendo in lei grato perdono,
Al primo seggio della grazia loro,
Commendandola assai, la ritornaro.
Cho. O corrisponda al bel principio il fine,
E grato vento in grembo all’onde morte
Col tuo dolor la tema nostra porte.
Mes. Ciò fatto, comandò la bella sposa,
Che se le apparecchiasse un fresco bagno
Soavissimamente temperato.
In cui lavata, e d’odor vari sparsa
(Per non contaminar le nozze sue)
Si rivestì d’un manto, che’n bianchezza
Giostrar potea col latte, o con la neve.
E poi che l’aureo crine in aurea rete
Con maestrevol cerchio hebbe ritorto,
E dallo specchio suo preso consiglio;
Già tutta ardendo nelle proprie gemme,
E coronata delle sue Donzelle;
Entrò nel bel giardino, e con gioiosa,
Che parea proprio innamorata mano,
Andò cogliendo i più ridenti fiori,
Le più vaghe herbe, e le più care fronde,
E se n’empìo le man, se n’empìo il grembo.
E poi se ne tessé nobil ghirlanda,
A composti capei soave peso.
Onde parca l’augello orientale,
Che’n grembo ad odorate, elette fronde
Del propinquo morir l’annunzio aspetti.
O l’incauta Proserpina, a l’hor, ch’ella
Della Siciglia nel fiorito seno
Dal notturno Amator rapir si vide.
Cho. Non è già questa ancor trista novella.
Ma tristo, e pien d’antiveduti guai
È ben l’augurio, o Messo, che ne fai.
Mes. Tornata dal giardino a la sua stanza,
Tosto ch’ebbe in affetto ogni sua cosa.
Assisa sopra il letto ad una, ad una
Abbracciar volse le Donzelle sue.
E con parole affettuose, e vive,
Che, con tacita forza dalle luci
Altrui spiccavan liquidi cristalli,
Ringraziò tutte degli ufficii loro,
Che havean d’intorno a lei fin’a l’hor fatto.
Le sue parole, e gli altrui merti ornando
Di varii premii, dispensati in giro.
Dicendo. Quel, c’hoggi sposar mi deve,
Non vorrà, forse da mei preghi addotto
Qui soggiornar. Né voi, forse verrete
Meco là, dove andar bramo, e disegno,
Per la sorte, che qui sempre m’afflisse.
E Dio sa, se mai più di rivedervi
Impetrerò dalle venture mie.
Poi comandò, che tutta la famiglia
Delle sue serve s’accogliesse altrove,
E chiudesson le porte, e le finestre
De la sua stanza. Però ch’ella stanca
Da la vigilia della notte adietro
Lacrimata da lei sopra il fratello,
Con un breve riposo in braccio al molle
Suo letto si volea prender ristauro.
Regnando il maggior sol nel cor del cielo.
Cho. O non questo riposo
Grave travaglio adduca,
E sì buon seme, rio frutto produca.
Mes. Uscendo queste, alla nutrice impose,
Che le recasse un vaso d’acqua fresca,
Per mitigar la sua fervida sete,
Pria, che al sonno vicin si desse in preda.
La buona vecchia ubbidiente, e presta,
Con effetto rispose alle parole.
E presentòle una gran coppa d’acqua
La qual brillava ancor nella freschezza,
Portata dalla sua natural vena.
E sembrava stemprato, e puro argento,
Et empiva la tazza insino al labro.
Con ambe man la giovane la prese,
E mandò la Nutrice in tanto a torno
Al bel letto a tirar l’usata nube,
Che quei, ch’entro vi son tranquilla, e adombra.
E con avidi sorsi il liquor tutto
Beendo, al vaso apparir fece il fondo.
Poi favellò. (s’io posso) mal mio grado,
Padre, non mi darete oggi marito.
La Nutrice hor comprende queste voci,
Che ne è verace interprete il successo.
Ma già non le comprese a l’hora, quando
Era più di comprenderle bisogno.
E uscita anch’ella fuor, la stanza chiuse,
Dove in mezo alle tenebre ivitate;
Hadriana restò su’l letto sola.
Cho. Guardane, o Dio, di male
(Benché avvenuto è il mal, che avvenir deve)
O s’egli è troppo greve,
Rendilo almanco breve,
O se pur lungo, almen facile, e lève.
Mes. Lunga stagion le Damigelle fuori
Stetter, pur aspettando, che la bella
Sposa riscossa dal soave oblio,
A sé le richiamasse. Ma poi ch’elle
Si furo accorte lei non risvegliarsi;
E a gran passo ire il dì verso la sera;
Sparrati gli usci, entraro, et
(o pietosa vista da far sentir le sue dolcezze
Ne le fiere, ne gli arbori, e ne’ sassi)
La giovane real, la nova sposa
Su’l suo letto trovar distesa, e morta.
Cho. Ahimè, Messo, che reciti? MES. Le foglie
De la Sibilla. Quel, che né tacere
Posso, né raccontar con giuste note.
Cho. E donde questa inaspettata morte
Nasce alla mia signora? MES. La cagione
Dicavi chi la sa. Dirvi l’ effetto
A me sol basta. CHO. Pur, che si sospetta?
Mes. Ciascun sospetta (e’l sospettar non falle)
Ch’ella havesse il velen già preparato
A darle in sonno non sentita morte.
La sete, e’l sonno a studio simulasse,
E del succo letal condisse l’acqua,
Portata a lei da la Nutrice, mentre
In altri ufficii l’occupava; e poi
L’avvelenato calice votando,
Cagionasse ella stessa il suo morire,
Per non si maritar contra sua voglia.
Cho. O misera Donzella,
Come miseramente la beltade,
E la tua verde etade
Perdesti. E questa, e quella,
Come rosa novella,
Che da raggi del sol percossa langue;
Rimane estinta, in te rimasa essangue.
Ma segui, e dinne, Messagier cortese,
In che gesto corcata la trovaro.
Mes. Da’ panni era coperta infino a’ piedi.
Le belle man s’avea composto al petto
Con le dita incrocciate. Il volto vòlto
Al ciel tenea. Né suoi chiusi occhi morte
Sembrava trionfar, divenir bella.
Come prima, di fior cinto havea il capo,
Su un origlier soavemente posto,
E tal si dimostrava nell’aspetto,
Che viva addormentata ancor parea.
Cho. O vergine infelice,
Che ti sostieni in piè tra tante noie,
E cadi all’apparir delle tue gioie.
Mes. Tutte le squadre delle sue donzelle
Tinte la faccia d’un color di terra,
E d’un liquor’ honesto di pietate,
Del letto ai fianchi, et alle fronti avvolte,
Da poi che con la voce, e con le mani
Tentar di richiamarla a questa luce,
E si videro al fin non essaudite,
Dier nelle strida, e somigliaro i venti,
Quando nel carcer lor chiusi, e compressi
Tra sé stessi gemendo in tuon discorde
Fremon d’intorno ai chiostri, e accolto sforzo
Metton per farsi spaziosa uscita.
Surse, e si sparse per l’ampio palagio
Un vario pianto, al cui crescente suono
Corse Orontea. Corse il Re Hatrio, e udita,
E vista la cagion, gli accrebber forza.
Non giunse a voi? E cominciar lamenti
Da intenerir l’horror del freddo, e duro
Caucaso, e del sassoso hirsuto Atlante.
Cho. Ben havevi ragion, Messo gentile,
Di lamentarti in sì doglioso stile.
Ma il nostro giunger tardi alla tristezza,
Contrapesato fin dalla gravezza.
Mes. Deh, che voi non havete udito nulla;
Restami ancor a dir la maggior parte.
Ma già la notte all’orizonte sale,
E d’ogni intorno il vel bruno dispiega,
E dove il Re mi manda, andar conviemmi.
Cho. E dove ti mand’egli, se tu giunga
A tempo, ove t’invii, nunzio fedele?
Mes. Disse, che per veder, se la figliuola
Pur risorgesse, io mi fermassi un’hora
(Che mentre con voi parlo e già passata)
Poi (s’altro avviso non intendo) vuole,
Ch’io vada al tempio a dar contezza al Mago,
Del frutto, che han prodotto i suoi ricordi.
E ch’ei venga con gli altri sacerdoti
In apparato publico, e solenne;
Come la notte habbia sepolto il giorno,
A celebrar l’essequie d’Hadriana.
Poi esco dalle mura incontro al novo
sposo, figlio del Re sabino, e a nome
Nostro lo avviso, com’egli non have
Qui più, che far, che può tornarsi a dietro,
S’a parte esser non vuol de’ nostri guai.
Poi, per comission de la Nutrice
Più là si stende ancora il mio viaggio,
Cho. Deh, dillo ancor’ a noi, se ti si presti
Cinthia nel tuo camin fida compagna.
Mes. Vuol costei, ch’io rompendo ogni dimora,
Tosto raggiunga il Prencipe Latino,
Il qual da noi ancor poco lontano
Conduce in Lazio le sue vinte squadre.
E trattolo in disparte, il mesto occaso
Gli annunzii della misera Hadriana.
Perché, non so. né di saper mi cale.
Poi ch’ella il ricercarlo m’interdice.
Ma lei vedete appunto sulla porta.
Udirete da lei quel, che m’avanza.
Cho. Va col favor del ciel, messo cortese.
ATTO IIII. SCENA II.
Nutrice. Choro.
Nut. Afflitta d’ascoltar sazia di udire,
Dentro gli strani strazii, e l’aspre strida,
Esco fuori a dolermi d’Adriana.
Ah figliuola crudel, se erario fido
De’ tuoi secreti m’eleggesti prima,
Perché mi nascondesti hor questo solo?
Se in ogni tuo viaggio mi menasti
Compagna teco, perché ’n questo estremo
Sola n’andasti, e mi lasciasti sola?
Temesti, che negar ciò ti potessi?
Non sapevi, che più dovea spiacermi
Il viver senza te, che’l morir teco?
Temesti, che seguir non ti potessi?
Qui s’haveva a lasciar la scorza grave
Sotto l’fascio degli anni afflitta, e stanca.
Quando in abbracciar l’altre, me abbracciasti
Anchor, perché non dirmi nell’orecchio,
Nutrice, hoggi morrò, seguimi tosto?
E della tua bevanda farmi parte,
Come a ogni altra cosa far solevi?
Ma, che risponderò, lassa, a colui,
Che mi ti lasciò in grembo tramortita
Al suo partir, quand’ei mi ridomandi
Il deposito suo? dirò, ch’io stessa
Via l’ho gittato, e aspretterò la pena,
E per pena la morte. Benché morte
(Se questa ha da condurmi, ove tu sei)
Pena non mi sarà, ma grazia immensa.
Voi scelerate man, voi foste quelle,
Che a fin metteste l’essacrabil opra,
Porgendo a quelle labra il vaso
(donde uscì spietata, e dolorosa morte)
Cui già porgeste gli alimenti primi.
Io quella, io quella fui, che dissi, bevi
Figliuola, bevi. E tu figliuola, fosti
Quella cosi inhumana, che volesti,
Che chi già dato il nutritivo humore
T’havea, ti desse poi l’acqua mortale.
Io dunque ti allevai con darti il latte,
Per anciderti poi, dandoti l’acquai?
Dunque con queste man, nata; di terra
Io ti ricolsi, acciocché queste mani
Fosser cagion, che poi sotterra andassi?
A voi, ciechi occhi mei, toccò vedere,
S’ella ponea nel vaso, o polve, o succo.
Quale, adunque, fia quel vindice giusto,
Che tronchi queste man, cavi questi occhi?
Cho. Deh, Nutrice, perché ti affanni tanto?
Nut. Chi’l nome mio vuol darmi, dìami nome,
Non di Nutrice più, ma d’homicida.
Cho. La intenzion nell’ opre si riguarda.
Come al peccar la voglia prona basta.
A pena meritar, benché non pecchi.
Così colui, che di peccar non crede,
Quantunque pecchi pur; di scusa è degno.
Però queta i sospir, ristagna il pianto,
E narra hor dove è la donzella morta.
Nut. Com’ella si lasciò nel letto stesa,
Sulla barra funebre è stata posta.
Che di sua mano havendo sì lei dato
Pur mò il bagno, altro bagno non occorse.
Il capo ha cinto anchor di fresche rose
(Miste con altri fiori, et herbe in cerchio)
Che a chi la mira son pungenti spine.
Cento donne le stan piangendo intorno
Vestite a la divisa de la notte,
Co’ capei sparsi. il letto e d’ogni parte
Circondato di lumi atri, e funesti.
La giovane tra quei sembra la Luna
In mezo a molte stelle a l’hor, ch’eclissa.
Cho. Che conchiudono i fisici reali?
Nut. Che già sette hore son, ch’ella è passata
Per bevuto velen di questa vita.
Cho. La Reina, che fa? NUT. Chi vuol vedere
Turbato il cielo, e tempestoso il mare;
Miri a quest’hora lei. Non così folta
Tocca, e percote la tempesta i tetti,
Com’ella con le pugna il sen si batte.
Cho. Il Re, come sopporta questo colpo?
Nut. Egli, per esser’ huom d’animo altero,
Con occhi di diaspro in fronte ferma
Dentro a più saldo mur l’affanno stringe.
Non però sì, che non se’n legga parte
Fuor ne’ gesti. Ei si fa della sinistra
Letto alle guancie. E con la destra mesce
La barba carca d’honorato verno.
Di vivo marmo in humil seggio pensa,
Pensando tace, e tacendo sospira.
Onde paiono un sol l’assiso, e’l seggio.
Ma eccolo uscir fuor col consigliero.
Et io per dargli loco, entrerò dentro.
Cho. Va, Nutrice, che l’cielo haggia pietade
Del tu’ duol, del tuo error, della tua etade.
ATTO IIII. SCENA III.
Hatrio. Consigliero. Choro.
Hat. Non mi dorrò d’haver perduto i figli?
Cons. Non perde il suo colui che l’altrui rende.
A la terra dovevansi i corpi; l’alme
A Dio, tutto ’l composto a la Natura.
Non biasmate colui che ve li toglie
Sì tosto. Ma più tosto li rendete
Grazie, che tanto spazio ve gli lascia.
Hat Di quei che da me amati, e chiesti foro,
Quando in esser non fur, né per venirvi,
Hora non mi dorrà, che per poche hore
Havendoli goduto, resto privo?
Cons Dio vuol farne veder, che domandiamo
Cosa tal volta, che abhorrir devremmo.
E che devremmo al suo saper più tosto
Rimetter sempre ogni domanda nostra.
Dio, mirando, che noi poniam ne’ figli
Quell’amor, quella speme, che devremmo
Porre in lui, giustamente ne li toglie,
Come cortesemente ne li diede.
E’n lui solo sperare, e amar lui solo
Ne insegna, né fondarci in questo mondo.
E così Dio sovente ne gastiga
In quel proprio soggetto, in cui pecchiamo.
La pianta disgravata de’ suoi parti,
Leva le braccia in alto, e’l capo al cielo,
Quasi grazie rendendoli, che scarca
Del peso sia, che la curvava in giù.
E voi de’ figli scarco vi dolete.
Chi non può riveder con gli occhi i figli,
A rivederli con la mente vada,
Parte nostra più bella, e più perfetta,
Ch’esclusa d’altri oggetti esser non puote.
Se buoni i fìgli fur; godete. Poi,
Che andati sono anzi’l venir malvagi;
E andati in parte, dove la mercede
Godon delle buon’opre. E tal mercede,
Che lor non sarà tolta in alcun tempo.
Se rei; godete, che ve gli habbia Dio
Levati innanzi il diventar peggiori.
E allegerito voi di quel pensiero,
Che cruccia i genitor de’ figli rei.
Se amate i figli, habbiate estrema gioia,
Che siano fuor delle miserie humane.
Se gli odiate; allegrateui altretanto,
Che levati vi sian dinnanzi a gli occhi.
Se i figliuoli vi amavano, acquetate.
Il duol, per non turbarne il lor riposo
E se in odio vi havean, non date loro
La contentezza del vedervi in doglia,
Mentre l’anime lor son qui d’intorno.
Se questa vita è amabile, e felice,
Non vi carcate di dolor, che questo
Non sia cagion di farvene partire.
Se odiosa, e infelice è questa vita,
Non v’ingombri dolor de’morti figli.
Se credete, che Dio sia savio, e giusto,
(che se non fosse tal, non fòra Dio,
Anzi è giustizia, e sapienza somma)
Credete ancor, che savia, e giustamente
V’habbia levato i figli. Il che, se è vero;
sentir non ne dovete alcuna doglia.
Hor non havete più, Sir, chi vi faccia
Vegghiar le notti, e i giorni; e haver fatica
Di bramar, d’acquistar, di conservare.
Di perder tema, e duol d’haver perduto.
Viveste altrui, vivete hora a voi stesso.
Se (come han molti) non havete figli
(Come molti non han) voi stesso habbiate.
Goda il mio Re d’havere havuto figli,
Da non dolersi già d’haverli havuti,
E da desiderar dì rihaverli.
Meglio è del buon figliuol pianger la morte,
Che del malvagio sospirar la vita.
Chi ’l suo figlio mortal piange, scordato
De la mortalità sua stessa parmi.
Tante volte l’altrui, né mai la nostra
Morte piangiamo, che ogni dì si vede.
I figli eguali a noi in ogni cosa
Bramiamo. E nel morir sì innato à l’huomo,
Ne duol d’havergli a noi prodotto eguali
Hat. Non mi dorrò, che ’n loro età più verde
Fèra tempesta abbatta i frutti mei?
Cons Meglio è che’l frutto sia spiccato verde,
Che stia tanto ne l’arbor, che si guasti.
Fingete, che i figliuoli in si lontana
Parte habbian preso già marito, e moglie,
Che voi non siate più per rivederli.
Voi forse morto esser vorreste in quella
Etade, in cui moriro i figli vostri,
Per esser fuor delle miserie nostre.
Quanto moriam più giovani, moriamo
Tanto più puri, e con maggiore speme
Di gire in parte riposata, e lieta.
Non è la lunga vita un viver lungo.
Ma un lungo affanno, e lungo aspro morire.
Non perderanno, i figli, come voi.
Né come voi, dubiteran del Regno.
Hat. Duolmi, che morti siano avanti il tempo.
Quanti disegni, ahimè, mi vanno or guasti.
Cons. Avanti il tempo, e dopo il tempo, alcuno
Non more. Ogn’uno ha il tempo stabilito,
Avanti il qual non può morire. E dopo
Il qual non e possibil, che più viva.
Ma, rispetto all’eterno, che credete,
Che sia un’età, che più viviamo al mondo?
A un giorno, a un’hora, a un attimo non giunge.
Vecchio more ciascun quanto al suo fine.
Giovane quanto al viver nostro breve,
Quanto al desio di chi riman, fanciullo.
Assai lunga è la vita, s’ella è piena.
Piena di virtuose opere buone.
Un viver lungo, e voto, i’ chiamo breve.
Chi è, fuor, che nemico, o invidioso
Quel,che si duol che troppo tosto sia
Giunto al porto il nocchier, che alla vittoria
Sia troppo tosto giunto il Capitano?
I figli vostri hebbon più breve essiglio
Da la patria, a cui già tornati sono,
Che non haveste voi. Hor, se piangete;
Non per lor, ma per voi si versa il pianto.
Come siam differenti in istatura,
Laqual nessun può far più lunga, o breve;
Così siam differenti in quello spazio
D’anni, che a viver ne prescrive il cielo.
Hat. Fossemi almen di duo rimaso un solo.
Cons. Più tema v’apportava un sol rimaso.
La sorte or non ha più strai da ferirvi,
Né voi più loco havete, in cui vi fera.
Hat. Di tanta mercè sola i giusti Dèi
Mi havessero degnato almen, che a un tempo
Non mi fossero mancati ambeduo insieme.
Cons. Peggio era, che l’amor, che in ambo dui
Fu misuratamente compartito,
Si sarebbe ridutto tutto in uno.
Onde ogni volta ambascia, quale hor sente
La fragilità vostra, havria sentito.
Hat. Chi prima venne, andar prima dovea.
E chi dopo arrivò, partirsi dopo.
Cons. Più lieta hor se n’andrà l’Altezza vostra,
Non lasciando, ma andando a rivedere
Quei, che l’aspetteran nell’altra vita.
Sgombrata di quel carco prezioso,
Che dietro si trahea sopra le spalle;
E c’hor si manda innanzi. Hor più secura
Caminerà senza voltarsi a dietro.
Ma cotesto, Signor, non è la morte
Pianger de’ figli; ma la vita vostra.
Hat. Quando da morte naturale spenti
Fossero stati, havrei men doglia assai.
Cons. Il morire a ciascuno è naturale.
E la morte è tutt’una. ancor che molte
Sian le maniere. Onde, o nessuno more
Di morte violenta, o moion tutti.
Poiché tutti la morte a un modo preme.
Ma per uscir d’una prigion, che importa,
Che s’aprano le porte da sé stesse:
O fian per molta forza aperte, e rotte?
Ma quei, che elesser; che invitar la morte,
Come morir di morte violenta?
Violenta è la morte di colui,
Che suo, mal grado more, e molto pena.
Non di colui, che vuol morire, e ’n breve
Spazio da questa vita si diparte.
Hat. Duolmi di questo sfortunato Regno,
Che dopo me restar de’ senza herede.
Cons. Spesso al Re manca il Regno. Al Regno mai
Non manca il Re. Cotesta cura agli altri,
Che verran doppo voi, lasciar dovete.
Purtroppo habbiam travaglio del presente;
Senza prender pensier de l’avvenire.
Pur, se tanta pietà del Regno havete,
Tanti giovani egregii Hadria sostiene,
Adottatevi alcun di lor per figlio.
Che prima conosciuto, e prima eletto
Sia, che diletto. e da la elezione
Nasca l’amore. il che avvenir non puote.
(Anzi il contrario avvien sempre) ne figli,
Dal padre amati pria, che conosciuti.
Ma ecco il Mago, e dietro a lui lo stuolo
De’ Sacerdoti in loro abiti sacri
Co’ libri in mano, che dal tempio uscendo,
Vengono a sepelir la pena vostra.
Cho. Ecco la mia Signora, anzi non ella,
Ma il cadavero suo sopra la barra.
Tu Donna, tu Donzella,
Che sì superba vai di tua beltade;
Mira costei, che già sì fresca, e bella,
E viva, e sana, e lieta
Entrò nel suo palagio;
Come dopo lo spazio di poche hore
Ne vien portata fuore.
Odi, e vedi Orontea sotto atro velo,
Che spargendo ne vien lamenti al cielo.
ATTO IIII. SCENA IIII.
Mago. Orontea. Gentildonna. Hatrio. Semichoro. Nutrice. Consigliere.
Mag. Hor, che cinta de l’ombra de la terra
vien la notte, andiam tutti a tor la figlia
Del Re, per sepelirla. Voi tre soli
Restando, alzate con ingegni il marmo,
Che a la tomba real porge coperchio.
Oron. Dunque tanta impietade in voi si trova,
Che la figliuola mia di casa tolta,
Da queste braccia, e dal materno aspetto
M’havete a mio dispetto?
L’esser Reina vostra, che mi giova?
Ma non sarà così. Che così incolta
Vi seguirò dovunque andrete. E insieme
Con la figliuola mia sarò sepolta.
Qual sarà quell’Oreste,
Qual sarà quella rea,
Quella Progne, o Medea,
Che mi divida dal mio amato seme?
O figlia, a me più, che questi occhi cara,
Noi ti uccidiam con le parole vane.
Tu con la vera tua morte ne uccidi.
Con le minaccie, che da questa bocca
Mia vengono, io ti uccido. E tu mi spira
Del bevuto velen mentre ti bacio,
Onde. e vendetta, e compagnia t’acquisti.
Ecco la prima speme
Del genero bramato, e la seconda
Degli aspettati poi dolci nipoti
Sì verde, e sì gioconda,
secca, e perduta a un tratto.
O come ’l nostro ben sen fugge ratto.
Così del Regno de’ Sabini prendi
Lo scettro, e la Corona?
Così si va a marito, e al maritale
Letto tra l’ossa morte?
Il palagio Reale,
Che a te, novella Sposa, apre le porte
Sarà la sepoltura
Solitaria, et oscura?
A tai splendide nozze t’accompagna
Lo tuo popolo, e’l padre,
E la tua mesta madre?
(Anzi non madre più, né men più padre.)
In vece delle faci maritali
Ardono i torchi mesti.
Questi pianti funesti
Risuonan d’Himeneo le chiare lodi.
Gent. Già lungo spazio i Sacerdoti fermi
Qui v’attendon, Reina,
Tratti al suon della vostra alta ruina.
Mag. Rendere, o Re, o Reina, è tempo homai
Alla terra il terren di costei velo,
Gli occhi, e ’l cor, dalla figlia ergere al cielo.
Hat. Chiuda quanto più tosto il monumento
La figlia, e ’l nostro cor chiuda il tormento.
Oron. Figlia, da che non puoi restarti meco,
Verrò al sepolcro teco.
Tu, pietoso feretro,
Tanto in te fammi loco,
Che con la figlia mia caper vi possa,
Sì che da lei mai più non sia ritmossa.
Mag. Lumi, che portiam per l’aer nero
Rischiarino il sentiero
A l’alma, che pur mò fece partita
Da questa nostra vita.
Semic. Dalle, Signor pietoso,
sempiterno riposo.
Goda di là nel secolo futuro
Giorno perpetuo e puro.
Gent. L’ordine dell’essequie homai si stende.
Vanno innanzi spiegati i confaloni,
E d’Hadriana assai più alti doni.
Ma ’l primo è lo stendardo, c’hoggi tolto
Fu al re Merenzio, e al prencipe Latino.
Non so, se per ventura o per destino,
Nut. Ecco il dolente scettro, e la corona,
Che tu portar dovevi in testa, e ’n mano,
Ti son portati avanti in alto e in vano.
Gent. Quattro maggiori prencipi del Regno
Le generose spalle han sottoposto
A l’honorato peso del feretro;
E gli altri vengon poi piangendo dietro.
Nut. I lumi, onde vai cinta d’ogni intorno
T’apran di là, figliuola, un chiaro giorno.
Gent. Ecco, la pompa funeral s’invia;
Et il Re sventurato
Col consigliero a lato,
E la Reina mia
Con la nutrice appresso, e l’altre donne
D’Hadria in oscure gonne
Ponsi con gli altri in via,
E noi ancor faccianle compagnia.
Mag. Spirto quinci partito
Tal compagnia di quelle alme felici,
T’accompagni di là, qual hor tra noi
Al sepolcro accompagna i membri tuoi.
Semich. Dalle, signor pietoso,
Sempiterno riposo.
Goda di là nel secolo futuro
Giorno perpetuo, e puro.
Oron. O figlia (se pur dir figlia mi lece)
T’accompagna colei dunque allo avello,
Che dovea andarti innanzi?
Tu dunque più di me ami il fratello,
Che ne lasciò pur dianzi?
Gent. Non v’affligete alta Reina nostra.
Che se la figlia vostra
Non è tra le Reine maritate,
E tra l’alme beate.
Accolta homai nel bel sito felice,
Rinovata vita meglio, che Fenice.
Oron. E me lassa, a che guisa
Lascia nel mondo, in cui fin qui vissuta
Tanti giorni non son, quanto in un solo
Giorno vi soffro duolo?
Gent. Sono i martìri, e i mali
Medicina a’ mortali.
Oron. O voi, che foste, o voi che sète madri,
A voi mi volgo sole,
Che sole il grave affanno mio stimate.
Deh, di grazia pensate
Qual esser debba, e quanto
Lo mio angoscioso pianto; in duo dì soli,
Duo unichi perdendo almi figliuoli.
Gent. Hor giunti siamo al porto
D’ogni miseria humana,
A la casa, al seplocro d’Hadriana.
Nut. Fino i sassi han pietà de la tua morte.
Ecco levarsi a gran tardanza il marmo
Del monumento. quasi, che si levi,
Contra sua voglia, e a chi lo trae resista.
Mag. Sire, prendete l’ultimo commiato
Dalla figliuola vostra,
Pria, che’l seplocro a vostri occhi l’asconda.
Hat. Figlia, poiché tu stessa a te facesti
La forza, che nessun fatto t’havrebbe;
Agghiacci col tuo corpo ogni tuo sdegno.
Pur se con colpa io son. né tu sei senza.
Io credei poco, e tu credesti troppo.
Io non credei, che tu per far mai fossi
Quel, che facesti, e tu credesti, ch’io
Dovessi far quel, che per far non era.
Sposa io ti volsi far, per farti madre.
Tu facesti, che padre io non restassi.
Vivo ancor del real manto spogliarmi
Volsi, per adornarne il tuo marito.
E tu mi copri d’habito lugubre.
Io per teco restar, privarmi eleggo
Dello scettro, e donarlo al tuo consorte.
Tu per fuggir da me, la morte eleggi.
Questi mei merti andran somministrando
Conforto a l’alma, che non può ritrarsi
Affato dal dolor di questa carne.
Restati in quel riposo, che a noi togli.
Lasciane in questa luce, che ne oscuri.
E quando tu di qua tornar non puoi,
Costà tra poco tempo aspetta noi.
Cons. Poi che si tosto a rivedere havete
La figlia altrove, omai sciogliete, sire,
Dal core il duol, le braccia dal feretro.
Oron. Né tu restar, né venir posso io, figlia.
Il dolor crudelissimo tiranno,
Ch’io mora già non vuol, ma ch’io languisca.
Perch’io porti, vivendo, invidia a morti.
Io, crudel, fui cagion del tuo morire,
E tu (qual’è il mio merto, e ’l mi’ desio)
Esser non puoi del mio.
O felice Niobbe,
Che co’ figli perdesti anco la forma.
E in un fosti il cadavero, e’l sepolcro.
Tra morti gli accompagni,
E tra vivi li piagni.
Perché, crudel natura,
D’Altea, d’Agave ai figli non donasti
La vita de’ miei figli, e a mei la loro?
Non fòran quelle madri scelerate,
Né io fòra dogliosa,
Di viver lassa, e di morir bramosa.
Coteste mani al tuo petto composte,
Figlia, han guasto ogni nostro bel disegno.
Tra tanti fiori, il più bel fior perdiamo.
Perdiam tra tanti lumi, il lume nostro.
Cotesto volto al ciel converso il mira,
Quasi sua patria, e noi spinge in abisso.
L’habito bianco, ond’hai coperto il corpo,
D’atri pensieri a noi copre la mente.
Le fronde verdi, che sotterra porti,
Mostrano ben, che viene
Teco ogni nostra speme.
Questi mei baci prendi,
Ma perché non li rendri?
Questi, figlia, son tuoi,
E questi renderai a tuo fratello.
Io dianzi tenni te fanciulla in braccio.
E perché la mia vita sarà corta,
Tu tra le braccia tue mi terrai morta.
Figlia, vattene in pace,
Vattene in pace, figlia,
Anzi andiamo ambedue.
Tu (se pietoso sei)
Me sepelisci, e lei.
Cons. La Reina, signor, non sa levarsi
Da pianger la figliuola.
Né altri ardisce moverla; se voi
Non gite ad abbracciarla,
E con dolce pietate indi levarla.
Gent. Il Re sostiene, e abbraccia la Reina.
Ma non so qual di lor per trarne aiuto
Sia più forte, il sostegno, o il sostenuto.
Oron. Ahi signor, qual di noi
Può dar conforto a l’altro?
Siam pur senza figliuoli.
Siam pur rimasi soli.
Gent. Ite donne, a soccorer la Reina,
Caduta in accidente,
E ’l Re che mal sostien duo si gran pesi.
Che a lui sol sopra stanno.
L’affannata mogliera, e’l proprio affanno.
Nut. Figlia, se avvien, che morte hor ne disgiunga,
Questa medesma spero, che per sempre
Tosto ne ricongiunga.
Gent. Ecco, che con le faccie adietro volte
Per suprema pietà quei, che n’han cura.
La donzella al seplocro, e al lungo sonno
Danno con la maggior fretta, che ponno.
Mag. Acconciatela a punto nel seplocro,
Come se fosse viva,
E non de’ sensi priva.
Gent. O sventurato Re, che de le mani
E de la veste si fa muro agli occhi,
Per non veder colei, cui già vedere
Li fu sommo piacere.
Mag. Vattene in pace al tuo viaggio estremo,
Che te, non dopo molto seguiremo.
Semic. Dalle, Signor pietoso,
Sempiterno riposo.
Goda di là nel secolo futuro
Giorno perpetuo, e puro.
Mag. Chiudete il lasso. voi spengete i lumi.
Voi ministri, portate dentro, al tempio
Gli stendardi, ove restino sospesi.
E voi Signori, hor che l’essequie sono
Fornite, verso la magion reale,
Benedetti dal ciel, movete i passi,
Coi pianti, e coi sospir facendo tregua.
CHORO.
Di che ti alteri, o huom? con quale spene
Di stancar brami lungamente in questa
Valle di pianto, che vita si noma?
A che fine? a che bene?
Dove ’l corpo hor sostiene,
Hora l’animo pene.
Hor essiglio, hor cathene.
La fatica hor ti pesta,
Il caldo hor ti motesta.
Hor il freddo t’infesta.
Hor onda, hora tempesta
Hor guerra, hor fame, hor peste, ahimè, ti do-
E godi o huom sotto si grave soma?
(m. il maggior don, che dar possan li dei,
È non far nascer gl’huomini, o di terra
Tosto levargli, a l’hor, che nati sono.
Pensati, o huom, che sei;
Pensati, che esser dei.
Pensa; ove movi i piei.
Pensa, ove andaro i miei?
E pensa, che sei terra,
Pensa che sarai terra,
Pensa, che movi in terra,
Pensa, che andaro in terra.
E godi poi, se puoi, ch’io tel perdono.
Ma non chiuder gli orecchi a questo suono.
Tosto che nati, anzi per meglio dire,
Che siam concetti noi, non cominciamo
Della morte a imparar la trìta via?
Ogni notte il dormire
Non e un breve morirei?
D’ una in altra età gire,
Non è l’età perire?
Di che concetti siamo?
Con che pena nasciamo?
Con che noia viviamo?
E periglio moriamo?
Pensalo. e poi di’, se matrigna ria
Fu a l’huom natura, e madre a gl’altri pia.
Nessun altro animal nasce spogliato.
Chi con pel, chi con piuma si ripara.
Nessuno altro animal s’annoda in falce.
Chi nasce d’unghie armato.
Chi di denti è dotato.
Chi di corna adornato.
Chi di tosco ispirato.
Non fa case, od appara.
Non semina, non ara.
La terra, a noi avara,
Il tutto gli prepara.
Sol l’huomo ignudo, e disarmato nasce,
Del suo industre sudor si copre, e pasce.
Conosce l’util suo, conosce il danno,
Per sé si move ogni animal nascendo,
E sa, ciò che saperse gli conviene.
Gli huomini fermi stanno.
Nascendo, a imparar hanno
Tutto. sol pianger sanno
Il lor futuro affanno.
La donna, partorendo
Geme, talor morendo.
Ohimè, che augurio horrendo,
Quando al fanciullo, uscendo
Dal matern’alvo con ceppi, e cathene
Come a Reo tutto’ l corpo avvinto viene.
Il fanciullo senrza arte, e senza ingegno,
Perché ’l latte abhorrisca, e metta i denti
Parli e impari; qual soffre, e porge noia?
Nel giovinetto ha regno
Amor: non ha disegno.
Fermo, e senza ritegno,
Di furor, d’ ire pregno.
L’huomo ha i pensieri intenti
A gradi più eminenti.
A entrate, a discendenti,
Regge famiglie, o genti.
Il vecchio è sempre infermo, non ha gioia,
Senza sensi, e non può far, che non moia.
O felice animal, che i freni solve
De la vergogna a far ciò, che li piaccia.
Miser huom, cui l’onor pon sì rio freno:
La morte ti dissolve,
E in fumo, in ombra, e in polve
Il corpo al fin risolve.
E in vermi, e in serpi il volve.
La casa a l’hor ti caccia,
Par, che a l’aer tu spiaccia.
L’acqua non vuol, che faccia
Dimora in lei. Le braccia
Apre sola la terra, e nel suo seno
T’inghiotte, qual pestifero veleno.
Il fine del Quarto Atto.
ATTO QUINTO.
SCENA PRIMA.
Mago Solo.
Tutto il disegno, ch’io composi dianzi
Con Hadriana, è già quasi successo.
Perché la innamorata accorta, e ardita
Ha preso il mio consiglio, e la mia polve
Nell’acqua. ond’ ha provisto a quella sete,
C’ha del suo amante, il suo bramoso core.
E con mentita morte hoggi ha schernito
Non pure i suoi, ma ancor gli Erasistrati.
Che già per morta l’han pianta, e sepolta,
Resta hor solo, che ’l prencipe Latino
Giunga a cavar costei fuor del sepolcro.
Acciò, che ’n lei distrutto il mortal ghiaccio
Non si rinovi poi ghiaccio di tema.
E quel, che finto fu, vero non fosse.
Che s’ ella si vedrà fra i morti viva,
Non la troviamo poi fra i vivi morta.
E già stupisco, che ei non venga, o almeno
Il ministro, che incontro li mandai
Subito con la lettera notata,
E soggellata di mia man, che’ l tutto
Avvisandoli vien di parte in parte.
Come promisi alla real donzella.
Che per non perder per sempre il suo amate.
Per molte hore soffrio perder sé stessa.
Ma ecco quel, che andò proprio a incontrarlo.
Ma vien solo. Udirò da lui il tutto.
ATTO V. SCENA II.
Ministro, Mago.
Minis. A colui, che affatica, par godere
D’ogni fatica sua l’intero prezzo,
E gli è grato il sudor, gradita l’opra,
Quando può conseguir quel fin, che’l mosse.
Mag. Ministro, che novella mi rapporti
Del viaggio, e de l’opra, ch’io t’imposi.
E perché tre non siamo, anzi che dui?
Minis. Signor, la mia rattezza è stata quanta
Desiar si potea, non che sperarsi.
Ma, MAG. Temo questo ma, non male apporti.
Minis Havuto ho nell’andar la sorte avversa.
Ho raggiunto l’esstercito, che affretta
Dietro al suo Duca in Lazio a gran giornate.
Ho domandato di Latino; e inteso
Che un messo pur a l’hor l’havea chiamato :
A cui dietro spronando ello era gito,
Senza aspettare ’l giorno, o dirlo al padre,
Senza seco voler servo, o compagno,
Senza dir dove andasse, o dove, o quando
Fosse per ritornar. Sicché le genti
Dietro al padre ne van senza aspettarlo.
La lettera, che voi mi commetteste,
Che non si desse ad altri, che a Latino
(Perché spiegata, altrui non ispiegasse
La vostra mente) altrui fidar non volsi.
Ma la riportai meco, e ve la rendo,
Vergine com’io l’hebbi. La gran fretta,
Che mi deste al tornar, non mi die’ tempo
D’aspettarlo ivi, o di cercarlo altrove.
Tanto men non sapendo ove foss’ ito.
E sapendo, che più non tornerebbe
Là, dove le sue genti havea lasciato;
Che fuggìan tuttavia verso il lor Regno.
E sperando incontrarlo nel ritorno,
E perderlo temendo nel cercarlo.
Il bisogno, che credo, che n’habbiate,
E la sollecitudine, e ’l desio
Di non far poi i passi mei imperfetti,
M’insegnar, ch’io lasciassi ordine a molti
De’ suoi, che quando il Prencipe tornasse,
Li dicesser, che un messo a nome vostro
Era stato con lettere a cercarlo.
Se più far si potea, signor, mi spiace
Non lo haver fatto. quel, che fei, e basta
Piena mercede è d’ogni mia fatica.
Se vi pare hor, ch’io resti, o che là torni;
A restare, e a tornare eccomi pronto.
Mag. M’incresce assai, che non habbi trovato
Il prencipe, e che torni a me con quello,
Ch’io non vorrei, e senza quel, che bramo.
Con la lettera mia senza Latino.
Temo non greve mal qua venga in vece
Di costui, che non vien. pavento, e tremo;
Che la fortuna non ancor satolla
De le lacrime nostre, e de’ sospiri,
La tela anzi ’l tramar ne stracci a un tratto.
Che sarà? che farò? mira, et ascolta,
Se vedi, o senti alcun qui inorno. MIN. Io vado.
Mag. Se non appar alcun, vo trar costei
De l’arca, e porla in più securo loco,
E me levar di tema, e pormi in pace.
E ben lo potrò far. poiché lo’ngegno,
Onde i ministri agevolmente alzaro
De l’arca il marmo, ancor non e disciolto.
Io lo spedii pur subito, ch’ intesi
Dal messo il falso annunzio de la morte.
Minis. Due persone in qua vengon sì ristrette,
E sì celate, che (quantunque splenda
Cinthia nel ciel) conoscer non si ponno.
Mag. Il disegno m’è guasto, entriamo dentro,
E passati costor, tornerem fuori.
Che a un gran negozio mio ti vo compagno.
ATTO V. SCENA III.
Latino. Messo.
Lat. Dunque credi, che qui siam giunti a tem
Che sia la principessa già sepolta.
Mes. Sepolta è già. che tutta la cittade
Sta sepolta in silenzio. onde il reale
Albergo è fatto un’altra sepoltura.
Lat. Qual è l’arca real, che dovea accorla?
Mes. Là volean por colei, che lungo spazio
Meritava di viver qui tra noi,
Che vi turba signor? Di che piangete?
Lat. Cortese affetto, e tenero mi tocca,
Quando penso tra me, che una donzella
(Per non si maritar contra sua voglia)
È morta lietamente di veleno.
Mes. Fu morta dal velen, ma più da l’ira
Contra color, che volean farla sposa.
Lat. Perché qui meco non ti trovi alcuno;
E ’l far piacer a me non ti sia danno;
Meglio è che vadi, e qui mi lasci solo.
Io troverò il gran Mago, e farò quanto
Ho a far con lui. MES. Signor se l’opra mia
Vi pur bisogna; a voi e a me non fate
Torto, di riputarmi per indegno.
Lat. Basta quel che facesti, e più non chieggio.
E perché mai non seppi esser ingrato
Verso chi mi servì; ti rendo tante
Grazie, quante parole, e quanti passi
Hai speso nel portami l’ambasciata.
E poi ch’altro non ho, con che premiarti
Meco, ti dono questo manto; e voglio,
Che te ne vesta, e ’l porti in rimembranza
Lunga del primo, et ultimo servigio,
Che mi fai. non so quando havrai più loco
Mai di servirmi, aiutami a spogliarmi.
Mes. Dio mi guardi, Signor, che mai si sappia,
Ch’io v’habbia tratto qui di notte solo,
E poi spogliato. Assai porto, se porto
La grazia vostra. e voi lasciar non debbo
Contra la dignità, senza la vesta.
E la Nutrice si dorrebbe, ch’io
Voluto havessi il guiderdon da voi
Dell’opra del camin, ch’ella m’impose.
Lat. Se nol prendi, io dirò che per nemico
Mi tieni. E se nol vuoi per sempre; tienlo
Fin che si riveggiam di novo insieme.
Poich’hor mi grava più che non mi copre.
Mes. Io dunque spoglio voi, non per vestirmi,
Ma sol per isgravarvi, e compiacervi.
Lat. Quando ragionerai con la Nutrice,
Rendile immense grazie a nome mio,
E dille, ch’udirà ben tosto nove
Pari a quelle, che udire ella mi fece.
E, che s’io non havessi a gire altrove
Sì tosto; le darei giusta mercede.
Mes. Domani il tutto le dirò. Poi ch’hora
Tornar conviemmi fuor della cittade
A un gran negozio. LAT. Va’ felice. il cielo
Ti guardi da saper, ciò che sia affanno.
Mes. E voi restate in eterno riposo.
ATTO V. SCENA IIII.
Latino solo.
Hor, ch’io son sol, posso allargare il passo
A le parole, ai pianti, e al fine all’alma.
In questo tempo della meza notte,
In profondo silenzio, e’n queto oblio
Giace, e riposa il tutto, io solo desio,
Mi lagno, mi tormento, e m’apparecchio
Al sonno eterno, in questo eguale a un cigno.
Non ho chi mi conforti a stare in vita,
E non ho chi m’aiuti a darmi morte.
Heri vidi per me l’ultimo giorno.
Hora veggio per me l’ultima notte,
Cui maggior notte sovragiunger deve.
O Luna, arresta la tua lampa, e fammi
Grazia, ch’io veggia anzi la morte mia
Colei, che su’l mio pianto ha quella forza,
Che sovra l’onde hai tu de l’oceano.
O seplocro di quella, in cui sepolto
son io; ti stringo con le braccia, e strette
Poco dopo farò tra le tue sponde.
Un sol rinchiuder pensi, e duo rinchiudi.
Benché chiamar seplocro non ti debbo,
Ma erario, ove s’asconde il mio thesoro,
O mar di Spagna, ove l’mio sol tramonta.
Havess’io la virtù di quella fiera,
Che col ruggito suo ravviva i figli.
Che con sì alto tuon griderei; ch’io
scoterei questi marmi infin dal fondo.
O marmi, che ’l bel viso mi celate,
E col ciel vi partiste ogni mio bene;
Deh, per pietade, apritevi. ond’io miri
Quell’oggetto, per cui cari ho sol gli occhi.
Se di mirarlo non havessi speme
Con levarne il coperchio, o marmi duri,
Vi piangerei sì lungo spazio sopra,
Che col lungo picchiar v’incaverebbe
De le lagrime mie l’assidua pioggia.
O madre, se sapeste, ove hor dimora
Il figlio vostro; so, che a ricercarlo
Verreste incontro a minacciose schiere.
Quand’io, da voi partendo, era sì spesso
Da voi baciato; o, chi v’havesse detto,
Baciatelo, Reina, a voglia vostra,
Che a baciar, che a veder più non l’havete.
So, che non gusterete cibo alcuno,
Che di lacrime vostre non sia tinto.
So, ch’io sarò cagion del morir vostro.
E fu del morir mio cagion mio padre.
Qua mi condusse a prender queste mura,
E preso il primo giorno io vi restai.
Qua mi condusse ad arderle, e le fiamme
Riflettendo, si volser nel mio petto.
O sorella mia cara. O fida sposa,
Già non credei veder la morte vostra.
Ma voi la mia. ma veggio hor, che vivendo
Voi, morte non potea farmi morire,
Che sol mi fa morir col morir vostro.
Hadriana, io son quel, che vi ha tradito,
Che agnella vi lasciai tra molti lupi,
E tortorella in mezo a gli sparvieri.
Dovea condurti i’ meco, ovunque i’ giva,
E con voi campar vivo, o restar morto,
Stringermivi nel sen dovea, qual donna
Stringe il suo non ancor maturo parto.
Né voi tolta mi foste dalle braccia,
Pria, che le braccia mie tolte dal busto.
Voi ben me lo accennaste. Io nol compresi.
E voi più chiaro dirlo non osaste.
Quando il padre volea darvi marito,
Da tutti abbandonata, in mezo ai mali
Voi mi chiamaste. Io sordo non v’intesi,
Da poi chiamaste morte; ella vi udio,
E di me più pietosa vi soccorse.
Mi meraviglio sol, che ’l rio veleno,
Poi che si sparse per le membra vostre,
Non si cangiasse in manna, e non perdesse
Ciò che avea di mortal, maligno, e amaro.
Ma questo avvenne sol, perché quel core,
Che fu dal rio velen ferito, e morto,
Non fu ’l vostro, ma ’l mio, che vi donai
Del vostro in vece, e a voi si chiuse in seno
Ma il velenoso spasmo del mio core
Non so, perché non habbia tanta forza
In me, quanta il velen vero hebbe in voi.
Hor vo torre il coperchio, aprir l’avello,
Trarne fora il cadaver d’Hadriana,
Pria vagheggiarlo, e poi morirli sopra.
ATTO V. SCENA V.
Latino solo assiso, col cadavero di Hadriana in braccio, tratto fuori dell’Arca.
La vista pur mi accerta, o vita mia
Dolce, che tu et io siam fuor di vita.
E veggio, e sento, e piango la mia morte,
E me la stringo in fra le braccia; e faccio
L’essequie, e sopravivo a me medesmo.
Son queste, ahimè, le nozze, è questo il letto,
Letto di duri marmi, ove a giacere
Sposi avevamo? È questo il bel convito?
Son queste le vivande; ond’egli è pieno,
Le lacrime, e ’l veleno?
Son questi i crespi crin, che mi legaro
Sciolti, e legati raddoppiaro il nodo?
È qttesto quel bel volto, ove Amor tenne
Suo dolce nido? Che già fu mio Sole,
Et or giunto a l’occaso innanzi tempo,
Apporta a’ giorni mei perpetua sera?
Bel viso, ancor che sii sì scolorato,
Non ti doler. che nel mio petto stai
De’ tuoi vivi colori adorno, e vago.
Son queste le tranquille, e liete ciglia,
Che già d’Hebano furo, hor d’ambro sono.
Già d’amor arco, et arco hora di morte?
Son questi quei begli occhi, che assignati
Furon fatali stelle alla mia vita,
C’ora oscurati, adducon la mia morte?
Deh, perché di mirarmi hora sdegnate?
Apritevi, occhi cari,un sol baleno,
E rimirate a cui giacete in seno.
È questa quella bocca, onde già usciro
Sì dolci accenti, e care parolette?
O potessi ispirarle del mio spirto
Tanto, che fosse di mia vita a parte.
Come, o bocca, meschiasti il mèle, e’l tosco?
Perché hora a’ baci mei non corrispondi?
Forse odii quella bocca ingrata, et empia,
Che potè dirti l’altra notte, sposa
Restate, a Dio, per qualche dì vi lascio.
Lingua, perché ti stai gelata, e muta?
Deh moviti, e dì sola
Una dolce parola.
Et una sola volta mi saluta.
Bel petto, s’alla neve nel candore
Ti uguagliava : uguagliartele ben’hora
Posso in tutt’altre qualitadi anchora.
O belle man, che ’l cor già m’involaste,
E la mia vita in voi scritta tenete,
A l’Avorio mai più sì propriamente
Non potei pareggiarvi, come hor posso.
O Nobil corpo, ov’hai mandato l’alma?
Ma dovunque sia gita, compagnia
Farà l’alma mia all’alma, e l’corpo al corpo.
Ecco, che pure ho in braccio
La mia Reina eletta.
Ecco, che pure abbraccio
La mia sposa diletta.
E son (quantunque indegno)
Di chi mi sostenea, fatto sostegno.
O Latino crudel, perché pietoso
Teco non sei, donando quella morte,
A te, che la sventura tua ti nega?
Ecco la chiave del mio carcer’aspro.
Ecco il vaso, che meco ogn’ora porto.
E portan tutti i Prencipi, ove chiuso
Sta il veleno, e la morte, per usarlo
In ogni caso avverso, e periglioso.
Voi bramaste il velen, qual madre grave.
E nelle vostre viscere il cor mio
Riman segnato della stessa voglia.
Fammi grazia, o velen, di trarmi tosto
Di questa vita, e un altra grazia aspetta
A l’hor da me di sì bel dono in vece.
Tu, che nome acquistato hai di crudele,
Nel tor del mondo una sì bella donna,
Hor titol di pietoso acquisterai,
Nel tor del mondo un così miser’huomo.
Hadriana, perché senza voi resto?
Hadriana, perché senza me gite?
Hadriana, io cagion del morir vostro.
Hadriana, del mio cagion voi sète.
Hadriana, in voi troppo è presta morte.
Hadriana, in me troppo è lunga vita.
Hadriana, non ci hebbe un letto vivi.
Hadriana, ci havrà morti un sepolcro.
Hadriana, un amor bevuto habbiamo.
Hadriana, un velen berremo ancora.
Gustate hor, labra mie, quanto è soave
Tal bevanda, e accettate il dolce invito.
Soave, certo, fu la medicina,
Che a la salute mia render mi deve;
E liberar da questa viva morte:
Hor che ho bevto il tosco,
Posso gettare il vaso,
E starmi lieto d’asprettar l’occaso.
Così mentre le forze ancor son ferme,
Compor mi voglio nel sepolcro, e ’n braccio
La mia donna locarmi, et aspettando
Star, che finisca in me morte per morte.
O Dio, che sento? Sento pur nel petto
Batterle il core. e parmi, che si mova,
E che spiri. Hadriana, che è cotesto?
ATTO V. SCENA VI.
Hadriana. Latino.
Had. Ahi lassa, dove sono? E chi mi stringe?
Quest’è, Mago, la fe’ così secura
Mi condurrete al mio Latino, e intatta?
Violando a lui la fede, e la mogliera?
Lat. O meraviglia inusitata e nova.
Avvien forse, che uscendo da me l’alma,
Va ad animar colei, che tanto ell’ama?
Deh, dolce donna mia, non conoscete
L’afflitto sposo vostro, qui venuto
Per morir presso a voi secreto e solo
(Da poi che presso a voi viver non valse)
Perché tra tanti mali haveste almanco
Questa felicità l’anima sua?
Oltra, che strada più secura, e certa
Non vidi di passare a lochi lieti,
Che lo spirarvi nelle braccia care.
Had. Se già la vostra voce, e la mia vista
Il volto vostro, e la lucente luna
Non han giurato insieme di mentirmi;
Voi sète pur Latino, io son pur dessa.
Ma quale errore, o qual furor v’indusse
Ad assidervi qui? non vi bastava
Saper per nostre lettere, com’io
Per involarmi al novo odiato sposo,
E agli ostinati mei fèri parenti,
Dovea fingermi morta col soccorso
Del Mago, e poi che la finta bevanda
Digesto havessi, risvegliarmi
(come hor faccio) e a voi esser condotta in breve
Quando accettarmi voi voluto haveste?
Lat. O cruda sorte, o sventurato Amore.
Io di ciò vostre lettere non hebbi.
Dalla nutrice vostra solo un messo,
Velocissimamente a me mandato,
La sorte vostra mi apportò per vera.
Had. Quel dolor, che a tal nova voi provaste,
Prov’io nel sentir ciò. ma pur godiamo,
Quando altro mal ancor non e successo.
Che così a tempo giunti siam, che ancora
Uscendo quinci, e in altra parte andati,
Vita insime menar lieta potremo.
Lat. Eh, non sarà così? La sorte nostra
Troppo singolar ben n’havria concesso.
La sorte vuol, che voi con lo svegliarvi
Solo un poco più tardi, et io all’incontro
Col disperarmi un poco più per tempo,
Commettiamo un’error, che non ha menda.
E un momento ne tolga un lungo bene.
Had. E che vuol dir cotesto? favellate
Sì, ch’io intenda; Lat. ahimè ch’io temo a dirlo
E pur convien, che lo sappiate tosto.
E voi chiedete grazia di sapere
Quel, che di non saper grazia vi fòra.
Non vorrei del dolor mettervi a parte,
Che serro dentro io sol. Had. di grazia dite,
Fin d’ogni mio desir. ma donde avviene
Che a voi la voce si indebolisce
E di cener si vien facendo il viso?
Rispondete, Signore. e a qual persona
L’animo vostro rivelar volete,
Nol rivelando alla diletta sposa?
Lat. Poi che ’l vostro morir per vero intesi;
Arsi di doppio incendio. e perché ’l core
Si sostenesse in mezo a tante fiamme
(Poi che non arde un cor tinto di tosco)
Il veleno composto, e misto in modo,
Che senza scampo, e senza indugio ancide,
Che ad ogni mio bisogno, io porto meco;
Presi. il quale acutissimo già sento
Andar col suo rigor tutto occupando
Il corpo, e tutto corrompendo il sangue.
Né può molto tardar, che al cor non giunga.
Da una parte ’l morir
(vedendo hormai il buon successo, a che da voi le cose
N’andavano indrizzate, e d’esser giunto
Il tempo di goderci apertamente,
Senza sospetto alla fortuna lieta)
Aggrevami, e mi aggreva, imaginando
In che duol senza me qui resterete;
Duol, ch’ io prima di voi pur mò provai.
D’altra parte la morte assai mi piace.
Poi che Hadriana a questo sarà certa
Se l’amò il suo Latino, e le fu fido.
Poiché hor conoscerete la mia fede,
Quando rimunerarla non potrete.
E che’l ben, che con voi goder non posso,
Senza voi, sposa mia, goder non voglio.
E che quel mal, che senza me vi oppresse,
Vo, che con voi me parimente opprima.
Had. I’ non volea di ciò si chiara prova.
Dunque per mia cagion, dunque in presenza
Mia, vi vedrò morir, dolce Signore?
E consentirà il cielo (ancor che poco)
Ch’io viva dopo voi? Vorran le stelle,
Ch’io, che’n amarvi a par’ sempre vi venni,
In questo ultimo fin vi venga dietro?
Perché, la vita mia, senza alcun frutto
(Morend’io sola) a noi donar non posso,
Che più la meritate, e oprate meglio?
Lat. Anzi, se l’amor mio, se la mia fede
Vi fu mai cara, viva speme mia,
Per questa, e quel vi prego, e vi riprego,
Che’n vita rimaner non vi dispiaccia.
Così consolerete il padre vostro,
Così la madre; e sarà il lor conforto
Quanto creduto men, tanto più grato.
Così gli ubbidirete (come a buona
Figlia conviensi) et al Sabino sposo
V’aggiungerete; riscotendo gli anni
A voi dovuti, e diventando madre
D’una onorata, e gloriosa prole.
In una vita fortunata, e dolce
Reggendo il Regno d’Hadria, e de Sabini.
E lasciando colui morto, e sepolto,
Che vivo di godervi non fu degno.
Vi prego ben, che quando al novo sposo
Darete in preda il delicato corpo,
Ch’io vi lasciai (né me ne pento) casto,
Rivolgiate da lui tal volta il core
Verso colui, che sol per amor vostro
Starà tra duri marmi, e crude serpi,
Mentre voi in gioiosi abbracciamenti
Vivrete col novello amato sposo.
Ond’io me n’andrò lieto. Had. Ah, Signor mio,
E voi credete, ch’io far possa questo?
Sì lieve mi stimate, ancor che donna?
E perché noi ancor questo medesmo
Consiglio non pigliaste, e non viveste
Senza me, con un’altra eletta sposa?
Se voi morir per la mia finta morte
Non ricusaste; io per la vostra vera,
Che farò? ne morrò duemila volte
(Se tante si potrà) nonché una sola.
E se elessi venir con morte finta
A voi per qualche tempo; a starvi sempre
Di buon grado, verrò con morte vera.
Dogliomi sol, che’l ciel non mi dia modo
D’andarne innanzi a voi. Ma tosto, tosto,
Sì come io fui cagion di vostra morte;
Così sarò compagna. LAT. anzi io cagione
Son del vostro morir, Reina mia.
Che vi tolsi il fratel. deh, basti, ch’io
V’habbia ucciso colui, privone il padre,
Senza che uccida voi; di voi lo privi.
Perché la man, che l’homicidio fece
Porse la pena, e’l tosco all’omicida.
Had. Non disputhiamo più della mia vita.
Che quasi egual misura
Deve haver con la vostra.
Ma sol, come sarà possibil mai,
Ch’io vi rimiri, ahimè, tra queste braccia
Non morto, ma morir, e andar morendo.
Qual lucerna, cui manca il nutrimento,
si spegne a poco a poco,
Né poter dar a voi, e a me soccorso.
Lat. E pur convien, che sia.
Ch’io lasci l’una, e l’altra vita mia.
E già ogni mia forza, si estingue.
Già la virtù a poco a poco manca.
Had. Affidatevi in grembo alla cagione
Del morir vostro. appoggiate la stanca
Testa al mio petto. LAT. o mia gentil colonna.
Non resta altro a fornir il mio viaggio,
Che da voi prender l’ultima licenza.
Poiché la sorte. o il poco merto mio
Non han voluto, ch’io posseda voi,
D’ogni speranza mia principio, e fine.
D’ogni fatica mia requie, e mercede.
(Benché la morte mia non può dolermi,
Poiché in coteste amate braccia io moro)
Viva restate voi; perch’io non perda,
Quella ch’havrete ogn’hor di me memoria.
Così vi raccommando la nutrice,
De’ nostri dolci amor fido ricetto.
Fatele voi quel ben, ch’io far non posso.
Had. Siate certo, signor, del morir mio
subito dopo voi, come del vostro.
Lat. Ahi, ch’io perdo la vista, e la favella.
Già spasma il core, e giunge al fine estremo.
Had. Deh, signor mio, non mi lasciate ancora.
Restate ancora un poco. LAT. ahi, ch’io non pos
Date, e prendete omai l’ultimo bacio.(so.
L’ultimo abbracciamento, o cara sposa,
O quanto, quanto poco
Ci siam goduti in terra.
Had. Ci goderem per sempre in altra parte.
Aspettatemi pur senza dimora,
Lat. O terra, o stelle, o Luna
Per non vi riveder mai più, vi lascio.
sposa, restate in pace. L’alma mia
Va donde venne pria.
Had. Ahimè, ch’egli si more, io son qui sola.
ATTO V. SCENA VII.
Hadriana sola.
Egli è pur morto. egli m’ha pur lasciato.
Ahimè, sposo, ahimè sposo. Ahimè marito.
Da dover fu il suo amarmi, e’l suo morire.
Finto parve il mio amor, come la morte.
Ma non si dirà più certo, ch’io finga.
Com’hai potuto dar la morte, o morte
A chi morte toglieva, e dava vita?
Come non ti cangiasti, o morte, in vita,
Presso la vita mia nel darle morte?
O grato, e ingrato, o dolce, e amaro peso.
O fortunato augel, che col tuo sangue
La vita rendi alla tua spenta prole;
Dammi cotesta tua virtù, che hor hora
Svenandomi verrò di parte in parte.
Darò con la mia morte al morto vita.
Non posso. a me potrò ben dar la morte.
Vorrei, che qui giungesse alcun pietoso,
Che con lui mi tornasse entro la tomba.
Vigor’ io non havrei per far quest’opra.
Convien che mio mal grado io viva, e aspetti.
Ma perché altrui pietà non mi disturbi:
Fingerò d’haver già bevto il tosco,
Et esser presso al fin. Ma ecco il Mago.
Hora da lui havrò quel, che non hebbi.
ATTO V. SCENA VIII.
Magro, Hadriana, Ministro.
Mag. L’huom, che ha negozio in man secreto, e
Quanto più sciolto esser vorrebbe, e questo
Più va cercando sviluparsi; tanto
Più vede attraversarsi impedimenti,
Che mal suo grado, il vengono turbando.
Hor, che sciolto pur sono a gran fatica
Da quei, che men volea, che men credei;
Andiamo, onde tornati esser devremmo.
Ahi Signora, che veggio? Con qual arte
Usciste del sepolcro? A preghi vostri
S’apriron forse i marmi? E chi è questi,
Che nel bel grembo vostro estinto giace?
Had. Dunque non conoscete il vostro amico?
Ah signore, signor. sì ben mandaste
L’ambasciata, o la lettera a Latino?
Eccolo. egli mi trasse del sepolcro,
E stimandomi morta, il velen prese,
E morto cadde a l’hor, ch’io fui risorta.
Il che si fe’ due hore, o tre più tosto,
Che non portava il tempo della polve,
Movendomi, e stringendomi Latino.
Mag. O sfortunati Amanti, o cruda sorte.
La lettera mandai. costui portolla.
Ma non trovò Latino. il trovar prima
Color, che gli apportar gli annunzi tristi:
Minis. S’io punto nel camin tardato havessi,
Havrei da sospirar, da pianger sempre.
Mag. O Prencipe gentile, o caro amico.
Come vi trovo, e perdo. e voi signora,
Che pensate di far? che non è tempo
Di indugiar qui. Si che le genti armate
De’ ministri reali andando intorno,
Vi ci trovino posti a questo modo.
Had. Ho già fatto il pensier, già fatto l’opra.
Già bevto l’avanzo del veleno
(A cui non è rimedio, né dimora)
Avanzato al mio sposo, non potendo
Goder altro del suo, per darmi morte.
Accioché morte
(che poteva sola dividermi da lui) non men divida.
Morte pietosa più de’ mei parenti.
Morte più tarda assai del mio desire.
Benché già sento al cor giunto il veleno.
Ma si tosto non mor, perché ’n sé tiene
Del suo amante l’imagine vitale.
A voi resta ver noi l’ultimo ufficio.
Acconciarne amboduo dentro all’avello.
Poi chiuderlo, et andarvene, e far tosto.
Hor non restate più pensoso, e muto.
Mag. O come tardi, e senza frutto giungo.
Had. Vi prego ben (se prego appo voi vale)
Che i padri nostri nol risappian mai.
E quando questo pur si risapesse;
Io vi prego pregarli a nome nostro,
A lasciar giunti doppo morte i corpi,
Come già i cori in vita, e ’n morte l’alme.
Mag. Ohimè, che debbo far, che affatto siamo
Privi, voi di soccorso, io di consiglio?
Had. Pregovi ancor, che tutta questa historia
Scolpir facciate in duri marmi: e porre
Dentro al nostro seplocro. ove altrui occhio
Giunger non possa. e poi supplico il cielo,
Che qualche autor, mosso a pietà, negli anni
Avvenir la riduca in forma, ch’ella
Possa rappresentarsi a’ fidi Amanti,
Che de’ caldi sospir, delle pietose
Lacrime loro, ornin la nostra morte.
E dalla nostra tomba questo loco,
Prenda, e conservi eternamente il nome.
Mag. Promettovi di far quanto chiedete.
Meglio, che già non feci. ancor ch’io voglia
Tosto lasciar questa città dolente,
Piena di tante tragiche sventure.
Had. Hor non s’indugi più, ch’altri non guasti il
Nostro disegno; e col mio amante in braccio
Aiutatemi a por dentro al sepolcro.
Mag. Guardimi Dio, che viva vi sotterri.
Succeda ciò che vuol, soffrir non posso
Peggio di quel, che soffro.
Quinci non partirò, fin che partita
Non è da voi la vita.
Had. Sepelite costui di grazia almeno,
Che più regger nol può lo infermo seno.
Mag. Questo, di che pregate, è ben ragione.
Aiutami al pietoso, e crudo officio.
Minis. Mai più men volenthier non vi aiutai.
Had. Mentre costor son occupati in altro;
Ago clemente, e solo
Rimasomi soccorso nel mi duolo,
Da me trovato a caso
(Mentre’l sen mi percoto) nella veste,
Con cui di seta reticelle, e d’oro
Eran da me conteste;
Trammi del mio dolore.
E s’egli senza me non può morire;
Trammi di vita fuore.
Passa per mezo il core.
Passalo, e ancora raddoppiando il colpo,
Passalo un’altra volta, e un’altra. hor basta.
Aspettatemi, Sposo, ch’io vi seguo.
Minis. Ahimè, che avvelenata ella non era.
Ne ha posto in opra; e con non so qual ferro
Hassi aperto nel core ampia ferita.
Et è già fuor di vita.
E un gran fiume di sangue si dilaga
Da la profonda piaga.
Mag. Lasso, che a ingannar gli altri le insegnai,
Et hor con l’arte mia me inganna ancora.
Minis. Ponianla nell’avel, che qui non siamo
Come homicidi colti. e ’l tutto in fretta
Facciasi, che già miro
Dal real tetto uscir drappel di donne.
Mag. Riponianla. Rinchiudi ora il sepolcro.
Hadriana, oprerò quanto promisi.
E poiché sia scolpita
La mesta istoria della tua sventura;
Tornerò a porla in questa sepoltura.
Imparate, donzelle,
Non maritavi, senza
Voler de’ padri vostri.
Però che ’l matrimonio senza questo,
Esser non può, se non dannoso, e mesto.
Minis. Restate Amanti, come star vi piace.
Né mai vi turbi alcun la vostra pace.
Mag. Hora senza tornar più nell’albergo,
Sgombriam da queste mura per la porta,
Che a incontrar va l’essercito Latino,
II qual se incontrerem, ne darà il passo.
Minis. Andiamo tosto. udite, che dolente
voce di qua si sente.
Et ecco apportator di triste nove.
Fuggiam ratto, signor, fuggiamo altrove.
ATTO V. SCENA IX.
Messo. Choro.
Mes. Fugga, fugga ciascuno.
Fuggite huomini, e donne agli alti monti.
Benché monte sì alto esser non puote,
Che scampi alcun dalla crudel procella.
Lasci ciascuno il letto.
Sgombri ciascun la casa,
E da questa città ciascun sen’ voli.
Chi per suo bene è fuori,
Il pie’ non porti dentro
A pigliar pur la vesta, o il proprio figlio.
Cho. Che novo mal fia questo?
Che pianto, e grido mesto?
Mes. Su cittadini, in fretta.
Che fate, che vi tiene,
Che non prendete una veloce fuga,
Adria lasciando, e le sue meste mura?
Cho. Messo, se non ti grava,
Che nova apporti prava?
Mes. Non chieder altro, e fuggi.
Fuggi, e non chieder altro,
Donna, e teco ciascun di questa terra,
Né ’n dietro mai si volti.
Cho. Deh, fa, che ’l ver più chiaramente ascolti.
Mes. Mezenzio uscito del paese nostro,
Dove gran parte di sue genti perde,
Non potendo con l’arme vendicarle;
(E come da’ suoi proprii or ora ho inteso,
Sognato havendo il figlio, il qual dicea.
Padre non mi vedrete più, che resto
Morto e sepolto nel nemico regno.
Fate del mio morir crudel vendetta
Contra il Re Hatrio, e ’l Principe Sabino,
Che congiurar contra la vita mia)
Acceso contra noi d’ingiusto sdegno,
Dalla contraria parte, ov’ei camina,
Tagliar fece un’altissima montagna,
Schermo, et argine antico a tutte l’acque,
Che ponno apportar noia a questo regno,
Per inondarlo, e sepelir nell’onde.
Quelle trottando una sì larga porta,
Scendono hora con furia a falde, a masse
Precipitose a gara, a laghi, a mari,
Con istrepito tal, che ’l cielo assorda.
Spingon le prime, e son dall’altre spinte,
E spargendosi vengon per li campi.
Né perché ’l gran diluvio si dilati
Per ogni parte; la sua altezza scema.
Anzi alle nubi sì d’appresso giunge,
Che tor l’acque potran per farne pioggia,
Senz’ire al mar, senza chinasi a terra.
E tutta questa furia a scaricarsi,
Come in propria sentina, in proprio vaso,
Sovra questa città dritto ne viene.
L’herbe, i fruttici, e gli arbori son danno
Sì lève, che di lor non si ragiona.
Questo horribil furor dietro si tira
Gli armenti, le capanne, e i lor padroni,
Anzi le case, anzi le ville intere.
Gli animai d’acqua pieni, e d’alma voti,
Coi musi in alto, e coi pastori accanto,
Vengon giù tratti dalle rapid’onde.
Gli uccelli stanchi, sostenuti un pezzo
In su ’l valor dell’ale, al fin cadere
Si lasciano piangendo in grembo all’acque.
Non si ved’altro più, che in ogni lato
Acqua, e ciel, cielo, et acqua.
Dovunque passa lo spietato danno,
Non differiscon più la terra, e l’onde,
Il tutto a un guardo sembra un fiume solo,
E il fiume non ha rive, e non ha fondo.
Più non s’attende alla pietà del sangue.
Ciascun lascia i più deboli, e i più vecchi.
Il fratel la sorella. Il figlio il padre.
Il marito la moglie. E ciascun cerca
Di ricovrarsi alle più alte cime,
Che al fin poi resteran dall’acque oppresse.
Io con alata fuga mi dileguo
Dinanzi a questo impetuoso orgoglio,
Che molto non può star, che qui non giunga
Dove non sarà casa, o tempio, o torre,
Che molto inferior non le rimanga.
Sommergeransi i bei palagi nostri,
E tutti quei, che vi fian colti in mezo.
Conche d’acque saran quest’ampie loggie,
Queste piazze, questi archi, e queste mura,
E col tutto del tutto ogni memoria.
E così resteran molti anni, e molti.
Cho. Ahimè, piangiamo insieme
Il gran mal, che ne preme.
Mes. Non lacrimate, donne, il vostro male,
Tutta piangete a un tempo la cittate.
Che ’n danno universale
Si disdicon le lacrime private.
Più tosto apparecchiatevi alla fuga.
Cho. E dove fuggiremo
Donne imbecilli, e stanche?
Sarem preda dell’onde, esca de’ pesci.
Loco infelice a te stesso rincresci.
Mes. Anzi, non può fuggirsi.
Di qua l’acque han la strada,
Di là Mezenzio assedia ogni contrada.
Ma che vi dico, donne?
Udite già il rumor, che a noi s’appressa,
Qual di molte molina accolto suono,
O come di celeste orribil tuono.
Cho. L’udiamo; e ’l gran timor così ne ’ngombra,
Che a noi medesme impedimento siamo,
Né fuggir, né fermarci al fin sappiamo.
Ma sol batter le palme, e gridar forte,
Per la morte fuggir, chiamar la morte.
Mes. Fate, che intenda il Re con la Reina
Questa sì gran ruina.
Cho. L’alte grida, e’ l concento
De le palme percosse,
Il pon destar, se addormentato fosse.
La Reina destar più non si puote,
Che ’n perpetuo riposo ha posto l’alma.
Entrata nel palagio, e nella stanza
De’ figli, mirar volse ad una, ad una
Le vesti lor. e giunta a quel ritratto
Ove stanno dipinti ambo duo i figli;
Fermossi immota, e’n quel dolente aspetto
Stata gran pezzo, torcendo le mani,
Vinta dal gran dolor, morta si stese.
Mes. O misera anzi pur lieta Reina,
Morta innanzi il veder si gran ruina.
Sol mai non giunge un mal, giungono molti,
Sempre in drappel raccolti.
Per poco mai fortuna non comincia
A perseguire un misero. ella il preme.
E mentre ei piange, intanto
Gli apparecchia cagion di novo pianto.
IL FINE DE LA HADRIANA.