DE GLI ECATOMMITI DI MESSER GIOVANBATTISTA
GIRALDI CINZIO NOBILE FERRARESE.
HIS IN ECATOMMITHIS MEIS QUIBUS VITIA DAMNARE, VITAE AC MORIBUS CONSULERE, SACROSANCTAE PONTIFICIAE AUCTORITATI, AC ROMANAE ECCLESIAE DIGNITATI HONOREM HABERE STUDUI.
OMNIA PIA, SANCTA, AC PIORUM PATRUM, PONTIFICU MQUE MAXIMORUM SCITIS, ORDINIBUS, DECRETIS, CONSTITUTIONIBUS Q. CONSENTANEA SUNTO.
SI QUID FORTE AB HIS ALIENUM PER IMPRUDENTIAM (QUOD TAMEN MINIME REOR, HOC ENIM MAXIME CAVI)
MIHI EXCIDERIT, ID OMNE IRRITUM, CASSUM, INDICTUM, AC INFECTUM PENITUS ESTO.
Nos Frater Marcus Cigliarius ordinis Predicatorum à Reverendo Patre Christophoro Galeano, de Savigliano, eiussdem ordinis, e hereticae pravitatis Inquissitore in Vice Inquissitoris officio electi, ac deputati fidem facimus Hecatommithos per Dominum Cinthium Ioannem Baptistam Gyraldun, Philosophiæ doctorem, e Nobilem Ferrariensem, compositos, e in duobus volumibus disiunctos, consonos esse Sanctæ Romanæ Ecclesiæ, e ab Apostolica fide non abhorrere ideoque nos illi eorum imprimendorum licentiam præstitissee, in quorum omnium fidem has nostras manu nostra scriptas , nostroque, sigillo munitas confecimus, easque in ipsis voluminibus imprimi mandavimus. Ex æde Diui Dominici in Monte Regali xvi. Kal. Iulij MDLXV. Nos Frater Marcus Cigliarius Vice sitor ec. Locus ssigilli.
AL SERENISSIMO E INVITTISSIMO SIGNORE IL SIGNORE EMMANUELE PHILIBERTO DUCA DI SAVOIA.
La inconstanza della Fortuna, oltre alla indisspossitione mia, SERENISSIMO SIGNORE, la quale mi hà apparecchiati varij, e noiossi travagli, è sstata cagione, che io, come per mio diporto, mi ssia ridotto s à rivedere que cento ragionamẽti, i quali composi nel fiorire de gli anni miei, dando loro tutto quel tempo, che mi avanzava da gravi studi di philossophia, alli quali io dava opera con ogni diligenza, col lume della quale Philossophia, fonte e origine de lodevoli costumi, e di tutte le honesste disscipline, e similmente di ogni virtù, cercai di condurre al fine questa mia fatica, dirizzata tutta, con molta varietà di esssempi, à biassimare le vitiosse attioni, e à lodare le honeste. Accioche si conofesse quanto ssiano da essssere fuggiti i vitii, e con quanto animo ssi debbano abbracciare le virtù, per operar bene, e meritarne laude, e onore in quessta vita, ssperandone non pure fra mortali eterna gloria, ma celesti premi dopo la morte. E perciò fù mia intentione, ssopra ogn’altra cossa, di addurre in questa opera avenimenti ssimigliantissimi al vero, i quali potessssero portare, con honesto di letto, qualche profitto ad ogni forte di perssone. Questi ragionamenti, poi che io fui ricevuto nel collegio de dottori, ssenza impor loro l’ultima mano, furono messi da me da parte, per essssermi sstato dato da Signori miei il carico di esporre, alla gioventù Ferraresse, nello studio nostro, l’opere di Arisstotile. E per essssere dapoi stato chiamato ad esporre gli autori di humanità ( studio, che contiene in sé la cognitione delle altre sscienze, inssieme con una felicisssima purità di sscrivere, e di ragionare) per volere dell’ Eccellentissimo Signore il Signore Donno Hercole ssecondo da Este Duca quarto di Ferrara, e ssignor mio di felice, e honor ata memoria. A quessto publico ufficio dell’una, e dell’altra profesione, da sé molto grave, e faticosso, ssi aggiunsse il pesso di Segretario, ove ssono sstato occupato assiduamente, e nella città, e fuori, per tutto il tempo che egli visssse, e anche alquanti anni da poi, in servigio dell’ Eccellentissimo Signore Duca Alfonsso ssecondo, ssuo dignisssimo Figliuolo, e ssuccessssore felicissimo in tutto il dominio del Padre, e de gli Avoli, e Maggiori ssuoi, che per continua ssuccessione di più di cinquecento anni, l’hanno tenuto, e felicemente conservato con molta giusstitia, econ ssomma benivolenza de popoli loro, Ma poscsia che piacque à S. Eccellentia che, ssotto la medessima provissione, la quale ssempre, con magnifica, e liberal mano, mi concedette, mi vivesssi à me, e alle Musse. Io, vedutomi avanzar tempo di ripigliare in mano i tralasciati sragionamenti, per lo spatio di più di trenta anni, sse non in quanto voleva l’Eccellentisssimo Signore mio alcuna volta udirne qualche parte, mi missi à rileggergli, più tosto per pigliarne qualche ricreatione, nelle mie gravi molestie, che con animo di porgli nel publico, ma quantunque io gli habbia veduti nati nel campo de miei più verdi anni, nondimeno, nel rileggergli, ssi mi ssono offerti tali, che non mi ssono paruti indegni, che ussi loro intorno qualche maggior diligenza in questi canuti, la onde gli hò richiamati (come ssi ssuol dire) ssotto la lima, e vi hò messssa quella maggior diligenza che mi hanno conceduta i noiossi travagli dell’animo, e la indisspossitione del corpo, accioche, sse non divenissssero perfettamente terssi, e politi, almeno potessssero comparire men rozzi, e rugginossi meno. Ora, essssendo essi divissi in due parti, e havendo io finalmente deliberato di porgli in luce, hò voluto che la prima parte essca ssotto il felicissimo nome di vosstra Altezza, sì perche il sserenissimo ssplendore di tanta dignità in guissa illumini l’osscuro di quessta mia giovanil fatica, ch’ella appresssso à voi prima, INVITTISSIMO SIGNORE, posscia appresssso à gli altri, ssi rimanga in quel pregio, in che ella, da sé, non rimarrebbe giamai, ssenza il raggio di così chiaro lume. Sì anco per mosstrarmi grato, con quel miglior modo, che mi concede la qualità del basssso stato mio, alla Altezza vostra, e conoscitore s di quella immenssa, eineffabil cortessia, colla quale ella, ssenza havermi pur mai veduto, di ssua spontanea volonta, mi hà chiamato, con honorata provissione, fra la luce di tanti eccellenti huomini, e nobilissimi spiriti, che giovando, colle dotte lettioni loro, à Giovani virtuossi, ssudditi di vostra Altezza, honorano l’Academia ordinata da lei , ssenza risspiarmo alcuno di fatica, ò di spessa (come quella, che hà l’animo vie maggiore della gran Signoria, che ella possssiede) à beneficio de popoli ssuoi, accioche ella, vero essssempio di ogni virtù, habbia anco ssotto sé gente degna di essere ssignoreggiata da lei, vero rifugio, e, fra le tempeste di questi nostri s tempi, ssicurisssimo porto di tutte le virtù, e di coloro ssimilmente, che ad ornassi di esssse, con ogni studio, ssi ssono dati. Però che vosstra Altezza, ssi come prudentisssima ch’ella è, hà veduto che, come insin da ssuoi primi anni hà fatte, e hà sseguitato à fare, e farà cosse degne di eterna memoria, così, col mezzo di questa ssua honorata Academia, potranno tutta via ssorgere, oltre à quelli, che ci ssono, vivaci, e begli ingegni, che, colle sscritture loro, conssecreranno i gloriossi, e magnanimi ssuoi fatti, così di guerra, come di pace, alla immortalità. Perche non i thessori, non le torri, non le statue, non le altre opere d’incude, ò di martello, ò di altra manuale arte, fanno immortali i magnifici fatti de grandi, e valorossi Principi torri, non le statue, non le altre opere d’incude, ò di martello, ò di altra manuale arte, fanno immortali i magnifici fatti de grandi, e valorossi Principi (però che il tempo logora coset ali, e, molte fiate, la ingiuriossa Fortuna, più tosto che non converrebbe, le fa cadere à terra inssieme col nome di coloro, all’honore de quali elle er ano alzate) ma gli sstudi, e gli inchiostri de gli huomini sscientiati, contra la forza de quali non puo lunghezza di Tempo, né impeto di Fortuna. E, sse ciò non fosssse, ssarebbono sstati ssommerssi nelle tenebre dell’oblio, e in ssilentio eterno, i nomi di quelli Heroi, i quali ssono sstati consservati chiarisssimi fra gli huomini dalle Historie, dalle Poesie, se dalle altre compossitioni de pellegrini ingegni, che, quassi Cigni canori, poggiando al Cielo, con ssuavisssimo canto, gli hanno portati honoratisssimi per tutte le parti del mondo, con immortal memoria. Quindi chiamò Alessssandro il Magno fortunato Achille, havendo egli havuto Homero, che di lui così altamente sscrisssse. E, nel vero, come l’eccellenti, e magne impresse, danno degna materia à gli sscrittori di adoperare honorevolemente lo ingegno, e lo stile, così hanno elle l’anima, e la vita da esssi, per opera de quali divengono inssieme, con quelli de gli sscrittori istesssi, immortali i nomi di coloro, che fatte le hanno. Alla qual cossa quantunque io mi conossca poco atto, e sspetialmente intorno à gloriossi fatti di vosstra Altezza, per essssere ciò ssoma da altri omeri, che da deboli miei (perche non meno meriterebbe ella hora un’ Homero, od un Virgilio, che di lei cantasssse, che lo ssi havesssse meritato Achille, e Augusto nei tempi antichi) non ssie nondimeno che, con animo gratissimo, ciò non voglia, e non dessideri, e non cechi almeno, quando altro io non possssa, di fare, che non ssolamente questi, che hora vivono, ma quelli anche, i quali doppo noi verranno, mi conosschino ssuo divoto, e obligato sservitore. E voglio credere, che occulta virtù, ò fatale disspossitione habbia operato, che come io, ne gli anni adietro, hò sservito à gli Eccellentissimi Signori miei naturali, così hora ssia sstato chiamato da Vostra Altezza à sservirla in quessta ssua felice Academia del Monte Regale. Accioche io, nato della honorata Donna, c’ebbe origine dalla nobile famiglia de Mombelli, ssudditi di vostra Alt. Dopo l’aver givato xxxiiij. anni publicamente leggendo alla patria mia, venissi à giovare anche qui, come cittadino ssuo, à quessti popoli, onde hebbe il nasscimento chi mi produsssse in vita, e (acquistandomi quasi sun’altra patria) per ssuo sservitore mi facessi conosscere A.V. Alta. Porgo adunque, SERENISSIMO SIGNOR mio, questa prima parte de gli Hecatommithi (che così hò nominati quessti miei ragionamenti, dalle cento favole, ò novelle, che le vogliamo chiamare, che ssi contengono in loro) con quella riverenza, ch’io debbo, à Vosstra Altezza. Non per cossa degna di lei, che troppo ben conossco, che all’alto ssegno del ssuo purgato giudicio non puo arrivare la bassssezza loro, ma per testimonio (infin che miglior fortuna mi offerissca più degna occassione di honorarla, edi dimonsstrarle più pienamente la devotione dell’animo mio) della mia osssservanza versso lei, edi quella fedele, essincera sservitù, colla quale le ssono, essarò ssempe asstretto. Degnerà adunque V. Alt. di accettare quessto mio picciolo dono, con quella cortessia, che regna nel ssuo reale, ealtisssimo animo, e che la fa andare honoratisssima, oltre all’altre eccellenti ssue doti, fra più benigni, emagnanimi ssignori dell’età nosstra, et, facendo fine. Prego nostro Signore Iddio, che la consservi à lunghi, efelice anni, ela faccia compiutamente contenta, di tutti i ssuoi alti, enobili dessideri.
Dalla Academia Di Monte Regale. adi xiiii di Giugno MDLXV. A V. Alt. Humile, eobligatisss. sservitore Giovanbatista Giraldi Cinthio.
PARTE PRIMA
NEL MONTE REGALE Appresso Lionardo Torrentino MDLXV
DECA TERZA
Consalvo, pigliata Agata per moglie, s’innamora di una meretrice, si delibera di avelenare Agata. Uno scolare gli da invece di veleno, polvere da far dormire, la da egli alla moglie, la quale, oppressa dal sonno, è seppellita per morta. Lo scolare la trae del sepolcro, e se la mena a casa. È condannato il marito a morte, ella lo libera dalla morte, salva la sua onestà.
NOVELLA V
Venuta Livia al fine della sua novella, disse Sempronio: “Le donne debbono molto guardarsi di dar materia di essere così gastigate da lor mariti, che non puote essere, che il marito, quando anco fosse tale, quale ci ha mostrato Adorno la novella di Livia, ciò veggendo, non conosca l'animo della sua donna poco pudico, se bene non incorre in vergogna col corpo, la qual cosa puote essere cagione, che il marito abbia sempre qualche sospetto di lei, e perciò vie meno l’ami. Lo stimolo dell’onore, dee così opporsi, nelle donne, alla femminil fragilità, che non si lascino vincere da disonesti appetiti. E la fede data a mariti, la debbono far divenir costantissime.” E tale costanza si vedrà da quello, che son per narrare, in una nobilissinia donna, la quale, ancora che fosse gravemente ingiuriata dal marito, ed egli si inducesse a volergli dar morte, ella nondimeno, vincendo il mal voler di lui, colla sua molta fede, lo liberò da vituperosa morte.
Fu in Siviglia, nobile città di Spagna, un gentiluomo, che Consalvo avea nome, il quale più lascivo, e più mutabile era, che a nobil’uomo non era convenevole. Questi innamoratosi di una gentildonna, che Agata era detta, usò ogni diligenza per averla per moglie. E perché ella era povera, ove Consalvo era ricchissimo, i parenti gliele diedero, parendo loro di fare un gran guadagno. Ma appena si finì l'anno, ch’egli, sazio di lei, mostrò quanto fosse cosa poco giovevole alledonne, aver marito più ricco, che savio, e quanto sia meglio dar le donne agli uomini, che alla roba1.
Perché, essendo andata ad abitare in quella contrada una cortigiana, e ricca, e bella, che con mill’arti, e mille inganni si facea prigioni gli animi degli uomini, che, come semplici, non vi si sapeano opporre. Consalvo fu uno de primi, che ne costei lacci incappò, e, fuori di ogni credenza, di lei si accese. Ed era a tal termine giunto, che non avea mai bene, se non quanto era seco. Ed essendo ella sopra ogni femina2 dissoluta e avida del guadagno, non a Consalvo solo, ma a quanti si andavano a lei con copia di danari largamente si dava. La qual cosa tanto doleva a Consalvo, quanto si può pensare ognuno, che dolga vedere molto amata donna nelle mani altrui.
Era nella città uno scolare di medicina, e di nobil casa, e che molto conversava con Consalvo, il quale si era così innamorato di Agata, che non bramava altro, che godersi di lei. E avendo commodità3 di andare in casa, per la domestichezza, ch’egli teneva col marito, non lasciava cosa a fare, perch' ella l'amasse, e il compiacesse di sé. La qual cosa, ancor che fosse noiosa alla donna, e perciò avesse voluto, ch’egli si fosse rimaso4 di andarle in casa, nondimeno, conoscendo ella il marito uomo di poca levatura, e molto dilettarsi dell’amicizia dello scolare, tollerava la molestia, ch’egli le dava, levandogli nondimeno ogni speranza, di poter mai conseguir da lei cosa men che onesta. Questi, per porle il marito in dispetto, fè che una vecchia, che era molto atta a piegar gli animi delle donne a desideri de loro amanti, le spiegò, come se fosse mossa a compassione di lei, l’amore, che Consalvo alla meretrice portava. Mostrandole che indegnamente ella gli era tanto fedele. E, d'una cosa passando ad un’altra, le disse finalmente, ch’era grande sciocchezza, che pigliandosi piacere il marito d’altre donne, ella, come melensa, se ne stesse a disagio. Agata, che saggia era, e amava il marito, le disse, ch'ella volentieri vedrebbe il marito tale, quale egli dovrebbe essere, e quale ella lo desiderava. Ma, poscia ch’egli pure di altro animo era, non gli voleva ella torre quella libertà, che o la mala usanza del guasto mondo, o privilegio, che tra loro si avessero fatto gli uomini, avea lor data. E ch’ella non era mai, facesse con altre donne il marito ciò ch’egli si uolesse, per violar quella fede, che data gli avea, né per scemare il desiderio di conservare l'onore, che naturale deve essere negli animi delle donne, e che le face degne di loda in tutte le parti del mondo. E, che tanto più deveva ella ciò fare, quanto non avea dato altro di dote al marito, che l'onestà. Onde non voleva ella mai da questo pensiero levarsi, e poscia, alquanto turbatetta, le soggiunse ch’ella si maravigliava molto, ch’essendo ella vecchia di tale età, che dovrebbe riprendere le giovani, s'elle a ciò fare sì priegassino, le desse così fatti consigli, i quali l'erano tanto noiosi, che s'ella fosse mai più così ardita, che di cose tali le dicesse parola, le farebbe provare, quanto simili ragionamenti le fossero spiacevoli. Riferì la vecchia allo scolare, ciò che Agata detto le aveva, e ne rimase egli molto tristo. Ma, non restò per ciò di amare la donna, avisandosi che non era così duro cuore, che amando, pregando, lagrimando, a lungo andare, non si ammollisce. Conversando costui con Consalvo, gli disse egli, che acceso era così della Meretrice, come lo scolare della Agata, e che non gli increbbe mai tanto di avere moglie a lato, quanto gli rincresceva allora. Perché non avendo egli Agata, si piglierebbe la impudica Aselgia (che così era appellata la meretrice) per moglie. Però ch’ella sola era quanto di bene egli avea nel mondo. E vi aggiunse, che se non temesse il gastigo della giustizia le darebbe morte. A queste parole disse lo scolare, che ad ogni modo era grave soma5 una mogliera, che fosse venuta a fastidio al marito, e che s'altri cercava di liberarsene, tentava cosa degna di scusa. E ragionando una volta, e un'altra Consalvo seco di questo suo desiderio, e ritrovandolo tuttavia favorire la parte sua, prese tanta baldanza con lui, che un giorno gli disse: “Tu mi sei quell’amico, che mi sei, e questa nostra amicizia mi fa credere, che t’incresca non meno che a me, ch’io mi ritrovi in questo travaglio, nel quale tu mi vedi, per non poter pigliarmi per moglie Aselgia. E però persuadendomi di potere avere, poi che medico sei, compenso al mio male, ti voglio dire quello che mi è venuto in mente, e quello similmente, in che io mi voglio servir di te. Io mi sono deliberato, quanto prima potrò, di far morire Agata, e a più giorni, che io mi volgo questa cosa per l’animo, ma mi ha fatto soprastare il non sapermi ritrovar modo di farla morire, che a me non sia poscia imputata la sua morte. E sappiendo6, che tu sei medico, e per lo lungo studio, c’hai dato a questa arte, imaginandomi, che tu sappi di molte cose, che sarieno atte a compire questo mio desiderio, ti prego ad essermi in ciò cortese, che te ne sarò sempre obligato.” Lo scolare, subito ch’udì così dire a Consalvo, conobbe, che quindi gli si potea scoprire la via di potere, col mezzo del suo ingegno, avere Agata nelle mani. Ma tenendo nell’animo chiuso il suo pensiero disse a Consalvo che egli era vero, che non gli mancavano modi così segreti di far morire le persone con segreti veleni, che non sarebbe alcuno mai, che si potesse accorgere, che di veleno si morissero quelli, che lo pigliassero. Ma che due cose lo ritraevano da compiacerlo, l'una perché i medici erano al mondo, non per levare la vita ad altri, ma per conservargliele. L’altro, che porrebbe a troppo gran pericolo la vita sua, qualunque volta a ciò fare si disponesse. Perché potrebbe avenire, come pare che voglia Iddio, ch’avenga in simili casi, che per non pensato modo si saprebbe ciò che fatto si fosse e che non meno sarebbe egli condannato a morte, che Consalvo. E che per lo primo rispetto non si voleva egli dare a far cosa che fosse contra la professione sua, e per lo secondo, non volea porre a rischio, per cosa tale, la vita sua. Consalvo ciò udendo disse che le leggi dell’amicizia non vietavano che uno amico non si partisse dall'onesto, per servigio dell’altro. E che perciò non doveva egli mancargli in questo suo desiderio, né li due rispetti addotti lo deveano rimovere da ciò, perché tanto oggidì era tenuto medico, chi uccidea gli uomini, quanto colui che gli sanava. E che essendo ciò segreto fra lor due soli, non era da temere, che mai si devesse sapere. E che quando anco avenisse, ch’egli fosse incolpato di avere avelenata la moglie, gli prometteva egli di non dir mai, che da lui avesse avuto il veleno. Lo scolare gli disse, che poscia ch’egli così gli prometteva, proporrebbe l’essergli amico al diritto della medicina, e che lo compiacerebbe. E, lasciato Consalvo tutto lieto, se n’andò a casa, e compose una sua mescolanza di polvere da fare talmente dormire, ch’altri sarebbe giudicato morto. E l’altro giorno portò la polvere a Consalvo, e gli disse: “Mi fate far cosa, Consalvo, che non farei per me medesimo, ma poscia che più ha possuto in me l'amor, ch’io vi porto, che il giusto, e’ il dever mio, vi prego a mantenermi la fede, e non palesar a persona giammai, che questo veleno da me abbiate avuto.” Così gli promise Consalvo di fare. E presa la polvere dimandò, in che modo egli la devesse usare. A cui disse egli, che la sera gliele ponesse gentilmente nel mangiare, e che mangiata che la si avesse, così acconciamente Agata se ne morrebbe, che parrebbe ch’ella dormisse.
Presa Consalvo la polve, e venuta la sera, la pose nel mangiare dell'Agata. La quale, mangiata che l'ebbe, sentendosi tutta sonnacchiosa, se n’andò nella sua camera (però, ch’ella con Consalvo non si giaceva, se non quando egli l’adimandava, il che era di rado) e entrò nel letto, e non passò l'ora, che la prese così profondo sonno, che pareva veramente morta. Consalvo, quando tempo gli parve, se n'andò anch’egli a letto, e stando tuttavia colla mente travagliata, aspettò con grandissimo desiderio il giorno, tenendo certo di ritrovare la moglie morta. Fattosi giorno, egli si levò, e se n'andò fuori di casa, e vi stette per lo spazio di un'ora, poscia si ritornò a casa, e dimandò alla cameriera di Agata, che fosse di lei. “Non si è ella ancor mossa, rispose,” ed egli: “Come,” disse, “dorme ella tanto istamane7? Suole essere levata avanti giorno, e ora son passate due ore del dì, e ancora dorme? Va tosto, e risvegliala, che voglio ch’ella mi dia alcune cose, le quali sono sotto le sue chiavi.” La cameriera, presta al comandamento, se n’andò alla Madonna, e chiamatala una, e due fiate, e non rispondendo ella, le pose le mani addosso, e toccandola gentilmente le disse: “Levatevi Madonna, che il Messere vi domanda.” Ma non rispondendo ella, le prese la giovane un braccio, e scotendola assai gagliardamente, e, non rispondendo la donna, né movendosi punto, se n’andò a Consalvo, e dissegli: “Messere, io non posso far risentire Madonna, per cosa, che io le faccia,” Consalvo, allora lieto: “Va’,” disse, “e scuotila tanto, ch’ella si risenta.” Ritornò la cameriera, e fe’ quanto le avea detto Consalvo, ma tutto fece invano. Onde ritornatasi a lui, disse ch’ella credeva certo, che Madonna fosse morta, tanto l'avea ella ritrovata fredda, e insensibile. “Come morta?” disse egli, e ciò disse come maraviglioso, e pieno di spavento, e, andatosi al letto, la chiamò, la scosse, la strinse fortemente colle mani, le torse le dita, e delle mani, e de piedi, e al fìne, non sentendo cosa alcuna Agata, cominciò a gridare, a dolersi, a rammaricarsi, a percuotersi, e a maledire la sua fortuna che l'avesse, così tosto, privo di così fedele e amorevole moglie. E avendo scoperta tutta e rivoltata la donna e non veggendo cosa alcuna per la sua persona, la quale avesse a dare ad alcuno indizio di veleno, volle mostrare di compire ogni ufficio di amorevole marito. Per la qual cosa fece egli chiamare quanti medici erano in Siviglia, i quali venuti, e usati tutti quegli argomenti che loro parvero atti a far risentire persona viva, e ritrovandola pure immobile, e insensibile, giudicarono, ch’ella da subita morte fusse stata occupata, e per morta la lasciarono. A questa loro risoluzione, benche fra sé ne fosse lietissimo Consalvo, fìnse nondimeno di sentirne estremo dolore. E pareva che non volesse più vivere morta la moglie. Sicché fece chiamare i parenti della donna, e con loro si dolse infinitamente del caso avenuto, e poscia fece apparecchiare belle e orrevoli essequie, e la fè con molta pompa seppellire in uno avello ch’avea Consalvo fuori della terra, nel cimitero de frati dell'osservanza.
Lo scolare, che il luogo molto bene sapeva, e aveva in contado una sua casa non molto lontana a quella chiesa, se n'era la sera gito fuori di Siviglia, e la notte, quando tempo gli parve, pigliata con esso lui una lanterna cieca all'avello se n'andò, e perché egli era giovane, e di buon nerbo, avendo portate con seco alcune cose, atte a potere levar la pietra, che chiudeva il sepolcro, l'aperse, e entrato in esso si recò la donna in braccio, la quale, essendo già finita la forza della polve, si risentì, tosto, che egli la mosse. E veggendosi ella ivi tra stracci e ossa di morti, e vestita come se morta fosse: “Ohimè, misera me!” Disse, “ove son’io? chi mi ha, dolente me, qui messa?” “Il vostro infedele marito,” rispose lo scolare. “Il quale avelenatavi, per pigliarsi Aselgia per moglie, vi ha fatta qui sepellire. E son’io qui venuto, mosso a compassion della vostra sciagura, co’ remedi opportuni, per vedere, s’io poteva richiamare la vostra felice anima agli usati uffici, e, quando ciò non avessi potuto, morirmi qui a canto il vostro corpo, e lasciarlo, in questo avello, colui congiunto. Ma poscia che, in questo vostro grave periglio, mi è stato di tanto favorevole il Cielo, che la virtù de rimedi, che fatti vi ho, hanno rattenuta la vostra gentil'anima, congiunta al vostro bellissimo corpo, voglio, vita mia cara, che quinci conosciate qual sia stata la fede del vostro malvagio marito, e qual si sia la mia, e qual di noi due meriti essere amato da voi.” La donna ritrovandosi in quello avello, vestita da donna morta, sì credette quanto lo scolare detto le aveva, e le parve, che fosse il suo marito più d'ogn’altro misleale, e crudele. E rivoltatasi allo scolare gli disse. “Risti,”che così avea nome egli, “negar non vi posso, che infedelissimo non sia il mio marito, né posso non confessare, che voi non siate amorevolissimo. E forza mi è dire, poi che, misera me, in questo luogo tra morti e da morta vestita, mi veggio, che io conosco la vita da voi. Ma perché, se il mio marito mi ha rotta la fede, io però intera ho serbata, e serbo la mia. Se volete che questo vostro pietoso e amorevole ufficio mi sia caro e cara mi sia la vita, che data mi avete, vi prego che vogliate avere raccomandata l'onestà mia, e non vogliate, coll’usarmi atto villano (la qual cossa non mi posso pensare, che mi debba avenir mai da tanta cortesia) far meno lodevole questo vostro cortese atto, il quale, ponendo voi freno al concupiscibile desiderio, e allo sfrenato appetito, si rimarrà il più virtuoso, e più degno di onore, che fosse mai fatto da cortese gentiluomo.” Risti volle con efficaci ragioni farle vedere, che il marito non avea più in lei ragione alcuna, e che quando ve ne avesse anco, tanto era stato sozzo questo suo atto, col quale le avea dato così certo pegno del mal’animo suo, che deveva essere sicura della morte, qualunque volta ella gli ritornasse nelle mani. E che perciò ella non devea tenere più stima alcuna di lui, ma devea mostrarsi grata del ricevuto beneficio, e essergli tanto benigna, che ella consentisse, che potesse godere il frutto delle sue fatiche. E, con queste parole, si piegò verso lei, per darle un bacio. Lo rispinse la donna, e gli disse: “Risti, se il mio marito ha sciolte, colla sua poca fede, le ragioni del matrimonio, non le ho sciolte io, né scioglierle mai voglio, in sin’ che mi durerà la vita. Dell’andargli alle mani, mi voglio appigliare al vostro consiglio, non perché non vi andassi volentieri, quando lo potessi ritrovar di miglior pensiero, ma per non incorrere altra volta in così grave pericolo. Quanto a dare degno gudiderdone a questa vostra lodevole fatica, il maggiore non vi saprei io dare, che restarvi eternamente obligata, e se questo vi basta, mi resterò in questa mia angoscia tanto contenta, quanto comporta il misero stato, in ch’io mi ritrovo ora. Ma, se voi forse voleste, che la perdita dell’onestà mia vi devesse esser mercede, uscite, vi prego, di questa sepoltura, e chiudetemici dentro, che io voglio più tosto, ricever morte dalla crudeltà del Marito mio, con salvezza del mio onore, che da tale pietà aver la vita, colla perdita della mia pudicizia.” Conobbe a tali parole il liberatore della Agata la sua bontà, e posto, che gli fosse grave di ritrovarla di così fedele, e fermo animo, che né la Morte istessa le potea far mutar pensiero, pure, avisandosi che il tempo potesse vincere il proposito della donna, le rispose, che rimanea contento di vederla de sì buon animo, e che perciò egli non voleva altro da lei, che quello ch’ella gli volea dare. E con queste parole la trasse della sepoltura, e la condusse a casa sua. E raccomandolla ad una sua vecchia, e se ne ritornò in Siviglia. Lasciando la cura a quella donna di disporre l’Agata ad essergli piacevole. Consalvo, dopo alcuni giorni, mostrando di non poter star senza donna, si prese Aselgia per moglie. La qual cosa parve molto strana a’ parenti di Agata. E se ne stettero tutti coll’animo sospeso.
Standosi Consalvo colla nuova mogliera, gli avenne quello con lei, che a lui con Agata era avenuto. Però, che essendo costei usa non ad un’uomo, ma alle centenaia, e a vivere in quella licenza, nella qual vivono le simili a lei, tenendola Consalvo con quella diligenza, che gli insegnava la gran gelosia ch’egli ne aveva, le venne egli a tanta noia, che nol poteva veder vivo, e conobbe allora Consalvo, che differenza fosse fra l’amore di onesta donna, e di una meretrice. Dicendole adunque Consalvo del poco amore, ch’egli conosceva in lei, e rispondendogli ella orgoliosamente, venne in tanto furore, ch’egli le disse: “Scelerata, per godermi te, ho avelenata Agata, ch’era la più amorevole donna, che mai per matrimonio si congiungesse ad uomo, e il guiderdone, che me ne vuoi rendere è il dimostrarmiti tuttavia più dispettosa, e più spiacevole.” Aselgia ciò inteso si vide aver ritrovata la via da sciogliersi da Consalvo. Per la qual cosa indusse un suo drudo8 a rivelare a’ parenti di Agata, che il marito avelenata l'aveva. Essi, che di ciò aveano avuto qualche sospetto, ciò inteso, andarono al Podestà, e gli fecero a sapere quanto colui aveva lor detto. Il Podestà di subito fè prendere Consalvo, e la Meretrice, per intendere la verità del fatto.
La vecchia in questo mezzo, ch’era con Agata, non mancava di tentarla continuamente, per indurla a compiacere allo scolare, che liberata l'aveva. Ma non potendo Agata tollerare quella molestia, disse un giorno alla vecchia: “Dite a Risti, che alla sepoltura mi torni, ch’ivi minor noia mi fie morirmi, che rimovermi in questa seccagine9.” La qual cosa intendendo lo scolare, aveva deliberato di venire alla forza, poiché né benefìcio ricevuto, né preghi, né niuna altra cosa potea far mutare pensiero ad Agata.
In questo tempo confessò Consalvo avere avelenata la moglie con veleno ch’egli avea tenuto molti anni in casa (che in ciò egli mantenne la fede allo scolare) e per ciò fu condannato alla morte. La qual cosa fu carissima a Risti, perché egli si pensò, che morendo il marito, egli si rimarrebbe della donna
signore.
Venne il giorno nel quale deveva essere tagliata la testa a Consalvo, e, ciò pervennuto alle orecchie di Agata, si deliberò ella di voler far vedere al suo misleal marito, in questo estremo, quanta fosse la sua fede. E, uscitasi incontanente10 di casa di Risti, con tosto passo, alla città se n'andò, e entrata in corte del Podestà, gli si fece innanzi e gli disse: “Messere, Consalvo è da voi ingiustamente dannato a morte, perché non è vero, che la sua moglie uccisa egli abbia, anzi è ella viva. E io son essa, però non lasciate che proceda più oltre la sentenza data da voi, essendo ella, come chiaramente potete vedere, ingiustissima.” A queste parole il Podestà, che la teneva morta, rimase come fuori di sè, e non la potè mirar senza qualche ribrezzo, pensandosi di vedere non una donna viva, ma una fantasima11, però ch’ella era in abito dimesso, e molto afflitta, per lo grave affanno, che la premeva, per lo caso avenuto prima a sè, poscia al marito.
Fra questo tempo i sergenti condussero Consalvo avanti al Podestà, acciocch’egli, secondo il costume di quel luogo, commettesse a sergenti che il menassino alla morte. Ma non fu si tosto Consalvo veduto da Agata, ch’ella colle lagrime su gli occhi, a braccia aperte, lo corse ad abbracciare, e, pendendogli dal collo, gli disse: “Ahi marito mio, ove vi veggo io, per la vostra follia, condutto? Eccovi la vostra Agata, non morta no, ma (la Dio mercè) viva, la quale vi si vuole, anco in questo punto, mostrare quella mogliera ch’ella sempre vi è stata.” II Podestà, ciò veggendo, lo fece subito sapere al Signore. Il quale, pieno di grandissima maraviglia, e ciò, a gran pena, credendo, si fè condurre dinanzi Consalvo e la moglie, e volle sapere come ciò si fosse, che essendo stata sepolta per morta Agata, ella ivi si ritrovasse viva. Consalvo non sapeva, che si dire altro, se non ch’egli, per l'amore, che ad Aselgia portava, avelenata aveva la moglie, ma, come ella si fosse ritornata viva, e ivi si ritrovasse, non ne sapea dir cosa alcuna. Ma la donna gli disse come lo scolare, con suoi argomenti, l’avea liberata dalla morte, ma come ciò si avesse egli fatto, non sapeva ella dire. II Signore, fatto venire Risti, intese, come, invece di veleno, egli la polve allopiata data gli aveva, per lo singolare amore, ch’egli portava alla donna, e vi soggiunse, che, quantunque la donna avesse veduta la crudeltà del marito, ed egli levata l’avesse dalla morte, non avea però mai potuto rimoverla dal fermo proposito di conservare colla sua onestà la fede al marito. Conobbe il Signore che in donna onesta può molto più il rispetto dell'onore che tutte le ingiurie, e commendò molto l’astuzia di Risti, e la fede, e l'amor della donna. E voltatosi poscia verso Consalvo, gli disse: “Non meritavi così fatta mogliere12, e sarebbe ben degno, ch’ella più tosto di Risti si fosse, che tua, né meriteresti, ancora ch’ella sia viva, minor pena, che quella che apparecchiata ti s'era, però che, in quanto a te, hai questa gentilissima donna uccisa. Ma voglio che di tanto giovamento ti sia la bontà e la fede della moglie tua, che tu te ne rimanga vivo, non per te, che nol meriti, ma per non dare a lei quell’affanno, che so, ch’ella avrebbe della tua morte. Ma ti giuro bene, che se mai mi venirà alle orecchie, che tu meno che amorevolmente la tratti, ti farò provare, quanto io sappia punire così fatti delitti.” Consalvo, imputando al suo poco conoscimento ciò ch’egli aveva fatto tanto promise al Signore di fare quanto egli gli aveva imposto. E, qui fatto fine, lasciò Consalvo la meretrice, che egli per moglie si avea presa, e si visse in pace con Agata, la constanza della quale fè che ove Risti per l’adietro, per la sua beltà l’aveva amata, egli per lo inanzi, per la sua onestà, quasi come santa, l'adorasse, parendogli che maggior bontà e maggior fede non si potesse ritrovare in mortal donna.
1 Ròba 1 sf. Proprietà, sostanze, complesso di beni mobili e immobili, ricchezza. Anche: l’insieme dei mezzi di sostentamento
2 GDLI: Femina e deriv., v. Femmina e deriv.
3 http://www.gdli.it/Ricerca/Libera?q=commodit%C3%A0
4 http://www.gdli.it/Ricerca/Libera?q=rimaso
5 7. Figur. Carico oneroso di impegni, di preoccupazioni, di pene; incombenza o compito gravoso; condi
zione esistenziale ingrata e faticosa.
6 http://www.gdli.it/Ricerca/Libera?q=sappiendo
7 http://www.gdli.it/Ricerca/Libera?q=istamane
8 Drudo, sm. (femm. -a). Chi è fedele nell’amicizia, nell’amore; amico, amante, innamorato.
9 Seccàggine (secàggine, secàgine, seccàgine), 4. Figur. Seccatura, fastidio, noia causata da una persona insistente o insolente, da una situazione incresciosa, da azioni monotone e ripetitive (e la causa stessa di tale fastidio).
10 Incontanènte (ant. incontenènte, incontinènte, incontinènti, in continènte), avv. Ant. e letter.
Subito, immediatamente; senza indugio, senza esitazione; all’istante.
11 http://www.gdli.it/Ricerca/Libera?q=fantasima
12 Usato anche al signolare: http://www.gdli.it/Ricerca/Libera?q=mogliere